Negli ultimi giorni è cresciuto il volume della discussione sugli effetti della guerra in Ucraina sul mercato alimentare. Questo aspetto specifico del conflitto viene ripreso da media e istituzioni in maniera strumentale e spesso errata: l’Ucraina viene considerata il “granaio d’Europa” e – minacciando la carestia – si utilizza la guerra per attaccare le tutele ambientali sull’agricoltura europea.
È vero che l’Ucraina ha un ruolo importante come paese produttore: fin
dall’Impero Russo, infatti, grazie alle sue fertili e pianeggianti terre,
rappresentava una risorsa fondamentale per gli approvvigionamenti di grano e
alimenti. In tempi più recenti, l’Ucraina è divenuta addirittura il principale
esportatore di cereali nell’Unione Europea, attestandosi come principale
fornitore nel 2018[1].
Tuttavia vanno fatte una serie di distinzioni e occorre ridimensionare
molto un fenomeno su cui le lobby dell’agroalimentare stanno speculando per
ottenere vantaggi.
Una guerra (anche) dei prezzi
Il conflitto sta impattando su filiere internazionali da cui dipendono
equilibri politici e sociali di nazioni anche molto distanti dal fronte di
combattimento. È il caso di quelle della sponda sud del Mediterraneo, e in
particolare di paesi largamente dipendenti dall’importazioni di grano
dall’Ucraina come Egitto, Tunisia, Libano.
Per questi paesi, trovarsi privi di un prodotto che garantisce una quota
imprescindibile delle calorie assunte quotidianamente dalle persone, è un
problema di prima grandezza. Tuttavia, ogni cosa va inserita nel suo
contesto più ampio, e se da un lato è vero che alcuni paesi mediorientali e
nordafricani scontano una forte dipendenza dalle importazioni russe e ucraine
di grano tenero, è altrettanto vero che al di là di questi casi specifici il
riverbero del conflitto sull’aumento dei prezzi del cibo non è sensibile.
Anche se l’export di cereali di Ucraina e Russia rappresenta – in
volume – il 18% del commercio globale, solo il 17% del totale dei
cereali prodotti nel mondo viene scambiato sul mercato internazionale. In
particolare, solo un quarto della produzione di grano viene commercializzato su
scala diversa da quella regionale. L’UE, inoltre, copre solo il 15%
dell’importazione totale di cereali con forniture dall’Ucraina e un
modesto 5% con quelle dalla Russia.
Dire quindi che siamo dipendenti dal grano dell’est europeo è una
boutade. Un mito come quello che vorrebbe la zootecnia europea dipendente da colture
foraggere importate dall’Ucraina. Ancora una volta però, i dati dimostrano il
contrario. L’importazione di proteaginose di provenienza russa e ucraina
coprono rispettivamente il 4 e l’8% dei consumi.
Eppure l’industria della carne e dei derivati, insieme alle associazioni di
categoria, ha agitato lo spauracchio della carestia per chiedere due cose al
governo e alla Commissione Europea: aumentare la produzione comunitaria
di colture proteiche, in deroga alle strategie Farm to Fork e Biodiversità
2030, e aumentare le importazioni di colture OGM dalle Americhe per sopperire
al calo dell’offerta russo-ucraina.
La verità è che questi gruppi di interesse stanno cavalcando il momento
drammatico del conflitto per ottenere vantaggi competitivi per i settori della
carne, dei prodotti lattiero caseari e dei prodotti da forno, settori ben
controllati da aziende di grande e grandissima dimensione, spesso a carattere
transnazionale.
Gli scambi fra Italia e Ucraina
Secondo ISMEA, l’Italia si posizionava nel 2020 al decimo posto tra i paesi
importatori di prodotti agroalimentari dall’Ucraina. Il fatturato dei nostri
acquisti è di 496 milioni di euro, pari al 3% dell’export agroalimentare
ucraino. L’Italia è invece il secondo fornitore estero di cibo al
paese, dopo la Polonia, con una quota del 7% pari a 415 milioni di euro.
Il nostro Paese acquista dall’Ucraina soprattutto oli grezzi di girasole,
mais e frumento tenero. Relativamente al mais, è da segnalare che l’Ucraina è
il nostro secondo fornitore dopo l’Ungheria, con una quota di poco superiore al
20% sia in volume che in valore.
La strutturale dipendenza degli allevamenti intensivi dal prodotto
di provenienza estera spiega le richieste delle lobby di una
deregolamentazione delle importazioni da oltreatlantico, unite alla domanda di
una ripresa della produzione domestica e della contestuale sospensione della
normativa ambientale.
Più marginale il ruolo dell’Ucraina per il frumento tenero, altro prodotto per
il quale l’Italia è fortemente deficitaria. Qui le forniture di Kiev coprono
appena il 5% in volume e in valore dell’import totale nazionale. Non sembra sia
il caso di individuare nella guerra la causa principale della crescita dei
prezzi alimentari.
Perché dunque aumenta il prezzo del cibo?
Non possiamo dire che il conflitto sia privo di ricadute sul commercio di
queste materie prime, oltre che degli input chimici (da notare soprattutto la
restrizione all’export di fertilizzanti russi varata a febbraio dal presidente
Vladimir Putin). Nonostante ciò, un ruolo ben più determinante lo sta
giocando la speculazione finanziaria, attraverso i contratti a termine (futures)
scambiati alla celeberrima Chicago Stock Exchange (e non solo).
I prezzi delle materie prime alimentari salgono infatti perché il clima di
incertezza ne fa impennare il valore in borsa, l’aumento del prezzo dell’energia
rende più cari il trasporto e la lavorazione industriale, l’effetto rimbalzo
dopo la fase acuta della pandemia vede crescere troppo rapidamente la domanda
sul mercato globale rispetto alla capacità di risposta delle infrastrutture
commerciali, ancora “arrugginite” da due anni di forte recessione.
Questi sono i reali fattori che contribuiscono a formare il prezzo
delle commodities in questo momento: usare la guerra
per indebolire le regole ambientali poste dalle strategie europee al settore agricolo
è soltanto un pretesto.
Ciò non significa negare la gravità di una guerra alle porte d’Europa. Il
nostro pensiero va infatti ai milioni di piccoli produttori di cibo in un paese
che fa dell’agricoltura un fondamentale pilastro dell’economia nazionale.
Come spesso succede in queste situazioni, infatti, i contadini
porteranno il peso delle distruzioni dei raccolti e dall’impossibilità di
raccogliere quello che la terra restituisce dopo un lavoro di generazioni.
[1] https://www.agriculture-strategies.eu/en/2019/05/exports-of-ukrainian-corn-to-the-european-union-counter-meaning-on-the-new-silk-roads/
§
Coordinatore delle attività del Centro Internazionale
Crocevia
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