Il viaggio di ReCommon a Gela e Stagno tra gli impianti Eni: i dubbi sull’occupazione e i timori per l’ambiente
“Non butto
soldi dalla finestra investendo in un business ormai in crisi irreversibile”.
Che Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, non gradisse il
business del petrolchimico si era capito fin dai suoi esordi alla guida della
multinazionale italiana. Queste parole, infatti, furono pronunciate al cospetto
degli investitori in uno dei suoi primi discorsi, nell’agosto del 2014,
paventando la chiusura di quattro dei sei stabilimenti attivi nel nostro Paese.
La posizione di Descalzi fece scattare la reazione dei sindacati, con scioperi
e picchetti che durarono per mesi, fino a costringere Eni a un parziale
dietrofront. Da allora, solamente una raffineria è stata chiusa, quella di
Gela, ma quest’anno la stessa sorte potrebbe toccare anche agli impianti
di Stagno in Toscana e Porto Marghera in Veneto.
La prima
raffineria a pagare il prezzo della crisi è stata quella di Gela, in Sicilia,
che nel 2014 ha chiuso i battenti. Oggi al suo posto c’è un impianto molto più
piccolo, che invece di petrolio tratta biomasse: “La bioraffineria più
innovativa d’Europa” si legge sul sito di Eni. Ma cosa ha significato questa riconversione
per l’area di Gela? Rischi per l’occupazione e promesse di sostenibilità ed
economia circolare, per un impianto che trasforma principalmente olio da palma
proveniente dall’Indonesia. Intanto cittadini di Gela continuano a fare i conti
con l’incidenza di alcune
patologie, tra cui malformazioni neonatali, più alte della media, per le quali però il Tribunale
locale non ha stabilito alcun nesso con le emissioni del petrolchimico.
Le bonifiche
rimangono per lo più ferme come si evince dal sito del ministero
della Transizione ecologica e nell’ottobre del 2021 la Procura di Gela ha
sequestrato Eni Rewinds spa, la filiale di Eni che dovrebbe occuparsene, a
causa del mancato ripristino delle falde acquifere, ancora fortemente
contaminate. Seppur geograficamente molto lontane tra loro, le vicende di Gela
non sembrano così distanti da quelle del comune di Stagno, situato nella
parte centrale dell’area Sin (sigla che sta per Sito d’interesse nazionale) di
Livorno, dove esiste un altro petrolchimico di Eni. Anche qui alcuni studi
hanno registrato incidenze anomale di alcune malattie: secondo il rapporto
Sentieri del 2019 nell’area ci sono eccessi di mortalità per tutti i
tumori. Mentre nello stesso anno Medicina Democratica ha evidenziato
come i dati sulle malformazioni neonatali siano più alti che a Taranto. L’area
del SIN è per il 95% di pertinenza dell’Eni, ma le bonifiche, sempre a leggere i dati del ministero, sono
ferme allo zero.
Le attività
del petrolchimico potrebbero cessare a breve e anche per Stagno il Cane a sei
zampe ha proposto una bioraffineria come quella di Gela, oltre che un
impianto di trasformazione di plastiche (e CSS) in metanolo o idrogeno, che
potrebbe beneficiare dei fondi del Pnrr. Quest’ultimo in particolare ha
scatenato le proteste della popolazione e dei comitati locali, come quello di
Collesalviamo l’ambiente, contrari alla realizzazione di un nuovo impianto
impattante in un’area già fortemente inquinata. I lavoratori della raffineria
continuano a chiedere che Eni faccia chiarezza e renda noto il piano
industriale per Stagno. Intanto i sindacati denunciano che la scorsa settimana,
in occasione della visita di alcuni alti dirigenti Eni allo stabilimento,
l’azienda ha rimosso ogni bandiera e simbolo sindacale, definendolo “uno
schiaffo a tutti i lavoratori e alla cittadinanza”. Nel frattempo, l’Eni ha
preferito investire 3 miliardi per rilevare raffinerie negli Emirati Arabi,
forse più redditizie.
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