In agricoltura il caporalato è la norma e lo sfruttamento è prassi. Ma le
strategie di contrasto del fenomeno sono insufficienti.
L’ultima notizia in ordine cronologico. Il caporalato è realtà tangibile in
Veneto. L’operazione “Polvere di stelle” – condotta dai carabinieri del gruppo
tutela lavoro di Venezia e dal nucleo operativo dell’Ispettorato di Vicenza –
ha svelato i meccanismi di un sistema finalizzato allo sfruttamento nelle
campagne. Cooperative spurie, braccianti migranti, aggiogati al ricatto
occupazionale e costretti a turni massacranti negli slum agricoli del nord-est,
e il ruolo chiave di una consulente del lavoro in grado di districarsi nelle
burocrazie aziendali: il mix perfetto per fenomeni concatenati – schiavitù nei
campi e intermediazione illecita di manodopera – che da sempre portano
disperazione nel settore primario italiano. Le realtà agricole coinvolte sono
35, disseminate tra le zone del vicentino e del veronese. Cinque le misure
cautelari eseguite dal novembre 2020. Le indagini sono scaturite dalle
segnalazioni, nel 2019, del sindacato Cgil. “Questo è il classico esempio di
caporalato 4.0, favorito e reso più difficile da smascherare da professionisti
che si prestano a questa pratica illegale”, ha detto Giosuè Mattei, Flai-Cgil
Veneto.
Il reclutamento in agricoltura è la piaga del mondo produttivo. Informalità
e illegalità diffusa contraddistinguono l’impalcatura traballante del
collocamento nelle campagne: non solo in Italia, ma anche all’estero. E non
solo nel meridione ma anche nel nord del Paese. I fatti sopracitati, ad
esempio, dimostrano come gli ingranaggi del lavoro nero si siano adattati alle
trasformazioni del settore, tanto da mimetizzarsi: i camioncini, su cui sono
stipate le braccia che andranno poi a raccogliere i frutti della terra, e i
caporali al soldo del “padrone” hanno ceduto il passo – in alcuni casi, perché
in altre il dramma ancora si concretizza inevitabilmente con queste immagini –
a forme di intermediazione liquida, ristagnanti nel grigiore del diritto
pubblico.
L’Ispettorato nazionale del lavoro ha ampliato esponenzialmente l’attività
di controllo su tutto il territorio nazionale effettuando, dal 2019 al 2021, il
400 per cento in più di ispezioni. Nel 2020, come riporta Openpolis che
radiografa i dati dell’ente supervisore, sono stati registrati 865 casi di
caporalato. Soltanto nelle zone dell’Agro Pontino, in provincia di Latina,
attraverso un’azione congiunta di monitoraggio per il progetto “Alt
Caporalato”, sono state analizzate 24 attività imprenditoriali, “tutte
irregolari per lavoro nero”.
Un affare di filiera
Stando alle stime elaborate dall’Istat, il tasso di lavoro non regolare tra
gli addetti all’agricoltura è il più elevato tra tutti i settori economici,
“attestandosi al 24,2 per cento nel 2018 – con un’incidenza di lavoro
irregolare tra i lavoratori dipendenti pari al 34,9 per cento”. L’agricoltura
detiene un primato nel parterre economico e sovrasta di gran lunga il comparto
edilizio e della logistica.
Il caporalato è la norma e lo sfruttamento è prassi, soprattutto di questi
tempi. Il Covid-19 ha evidenziato le falle già presenti, accelerando i processi
di marginalizzazione e ghettizzazione degli operai agricoli. Secondo
l’osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, nel 2020, il numero degli
sfruttati è lievitato attorno alle 180mila unità. Migliaia di persone che
vivono una condizione di inequivocabile precarietà esistenziale. Con paghe da
fame, senza tutele contrattuali, con turni massacranti da 12 ore al giorno.
“In un momento storico come questo, dove il mondo produttivo è aggravato
dagli esorbitanti rincari sull’energia ed è martoriato dalla crisi economica,
il rischio è che l’unica variabile su cui le aziende vanno a tagliare,
purtroppo, è il costo del lavoro”, dice Fabio Ciconte, direttore di Terra!,
associazione che da oltre un decennio porta avanti la battaglia – con inchieste sul campo e campagne
politiche di pressione – contro il caporalato e lo schiavismo in agricoltura.
“Per prevenire questa situazione, oggi è necessario più che mai equilibrare i
rapporti di filiera, agendo sulle dinamiche del mercato. Oltre al divieto
imposto sulle aste al doppio ribasso, la pratica sleale messa in campo da
alcune insegne della Grande distribuzione organizzata, non ho visto
nient’altro”, spiega Ciconte, rimarcando però l’impegno che il fronte
istituzionale ha profuso negli ultimi anni per lenire il dramma lavorativo.
Nel 2018 il ministero del Lavoro si è fatto carico di un fardello
abbastanza pesante, istituendo il “Tavolo Caporalato“. Lo strumento è
composto da 11 membri che rappresentano a loro volta gli attori istituzionali
delle politiche pubbliche sulle tematiche del lavoro. Oltre ai carabinieri,
alla guardia di finanza e alle parti sociali (associazioni datoriali, sindacati
ed enti del terzo settore). Lo scopo è intavolare una strategia efficace di
contrasto allo sfruttamento in agricoltura e al fenomeno variegato del
caporalato. “Il Tavolo riveste un ruolo di indirizzo e coordinamento delle
istituzioni coinvolte al fine di assicurare la programmazione e la gestione
condivisa degli interventi a livello nazionale e locale” si legge sul sito del
ministero. “Il Tavolo si raccorda inoltre con la Cabina di Regia della Rete del
lavoro agricolo di qualità al fine di rafforzare questo strumento, valorizzando
le imprese iscritte e i loro prodotti”. La Rete del lavoro agricolo di qualità
è il fiore all’occhiello della legge 199 del 2016, la cosiddetta norma
“anticaporalato”, un arsenale legislativo in dotazione alle istituzioni. In
sintesi la Rete è un registro di imprese virtuose, una sorta di certificazione
pubblica che attesta la rettitudine delle aziende, in materia fiscale, penale e
di rispetto delle tutele del lavoro. “Sinceramente temo che la Rete
non sia uno strumento adatto per combattere il fenomeno. Le aziende non
capiscono quest’eccesso di burocrazia in più. Inoltre, per quale motivo
dovrebbero iscriversi alla rete? Quali sono i benefici?”, commenta il direttore
di Terra!. E i numeri sono abbastanza eloquenti: al 12 gennaio 2021, le imprese
agricole ammesse nelle maglie della Rete sono soltanto 5.227. Il flusso delle
domande di adesione, però, è aumentato, come certificato dai dati Inps e dal
Ministero del Lavoro, “in particolar modo a fine 2020, in concomitanza con la
richiesta effettuata da alcune importanti realtà della Grande distribuzione
organizzata dell’iscrizione alla Rete per permettere ai fornitori di
partecipare alla propria filiera commerciale”. Quando il vertice della filiera
sentenzia, gli anelli si rinsaldano.
Il Piano triennale
Il Piano Triennale di contrasto
allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato (2020-2022) è
l’apice del processo avviato dal Tavolo. È sviluppato in sinergia con
l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e in collaborazione con la
Commissione europea. Ed è imperniato su quattro “assi strategici” (prevenzione,
vigilanza e contrasto, protezione e assistenza e reintegrazione
socio-lavorativa) che, a loro volta, sono declinati in 10 azioni prioritarie:
dall’implementazione di un sistema informativo per il mercato del lavoro
agricolo alla garanzia di alloggi dignitosi e servizi di trasporto, passando
per la “trasparenza dei servizi di intermediazione tra domanda e offerta di
lavoro agricolo e pianificazione dei flussi di manodopera”. Per l’attuazione
del Piano, nel 2020, sono stati stanziati 700 milioni di euro. “Molte delle
iniziative paventate dal Tavolo non hanno ancora trovato forma esplicita. La
tensione delle istituzioni è indirizzata soltanto su un versante della
questione, il lavoro e i flussi migratori. Elementi fondamentali per
fronteggiare il caporalato e lo sfruttamento. A nostro avviso, però, è
necessario intervenire con urgenza sulle contraddizioni della filiera,
bilanciando i poteri al suo interno e restituendo dignità al settore produttivo”,
afferma Ciconte. “Qualcosa, in merito, è accennato nel Piano. Ma non è ancora
abbastanza. La lotta al caporalato è una partita ancora tutta da giocare”.
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