(Ringrazio
Serge Latouche per avermi pazientemente offerto molte delucidazioni, che
tuttavia non sono bastate a sciogliere alcune mie perplessità).
Premessa
Serge Latouche in alcune interviste (di
Emanuele Profumi, Vi spiego perché
dobbiamo abbandonare l’economia, in Economia Circolare, 24/1/2022; di
Simone Lanza, Il Tao della decrescita,
il Margine, 2022;) riprende
l’espressione “uscire dall’economia” che aveva già usato in
precedenti lavori (Uscire dall’economia,
con Anselm Jappe, Nimesis, 2018, e, principalmente: L’invenzione
dell’economia, Bollati Boringhieri, 2010).
Latouche
afferma: «È chiaro che esistono delle alternative economiche al neoliberismo,
come ad esempio il vecchio keynesismo. Il problema è che delle alternative
economiche compatibili con la sostenibilità della nostra civilizzazione non
esistono. Perché? Perché qualsiasi
tipo di economia (keynesiana, liberista, socialista, etc) è incompatibile con l’ecologia. Per
questo insisto spesso, quando parlo di decrescita, sull’esigenza di “uscire
dall’economia.”» (dalla citata intervista a Profumi). Insomma dovremmo
«fuoriuscire dal giogo dell’economia» nel suo insieme, «senza mezzi termini»
(Jappe e Latouche).1
Tuttavia “uscire dall’economia” è uno slogan che
incontra difficoltà di comprensione e genera confusione anche in molti lettori
– io, tra questi – impegnati in vario modo nella invenzione di “economie altre”,
poiché insorge il dubbio che il programma politico-culturale-antropologico
della decrescita (niente di meno che un cambio di civiltà) sia tutt’altra cosa
dall’iniziativa concreta volta a trasformare le basi economiche della società;
terreno pratico, questo, prediletto dall’iniziativa di molti gruppi e movimenti
che pure ritengono di agire in coerenza con l’idea dalla decrescita2. La mia preoccupazione è che
la forte provocazione intellettuale (storica, antropologica, filosofica)
lanciata da Latouche venga intesa come negazione di motivi validi per agire
(anche) nel campo pratico e semantico dell’economico. Con la conseguenza di
provocare un cortocircuito (un effetto boomerang) nella stessa “base sociale”
della decrescita.
Penso che la decrescita abbia un problema
principale: riuscire ad attivare una soggettività capace di incidere sulla
società. Non solo un movimento di opinione formato da persone
informate e indignate, tantomeno un club di cassandre, ma gruppi, comunità,
movimenti capaci di intraprendere un percorso “post-gowth” (del tipo di quello
indicato dallo stesso Latouche con le 8 R) in ogni luogo ed ora. Non dopo la
catastrofe, perché dopo, forse, non avremmo nemmeno la magra soddisfazione di
poter dire: “ve lo avevamo detto”. Vorrei quindi tentare di dissipare il rischio di una
contrapposizione ontologica, che a mio modo di vedere sarebbe del
tutto assurda, tra l’ipotesi teorica della società della decrescita (vale a
dire, di una civiltà equa e in armonia con il mondo naturale) e l’azione
concreta di trasformazione dal basso delle basi materiali delle relazioni
economico-sociali-istituzionali-giuridiche-politiche oggi esistenti. Meglio
ancora, vorrei che emergesse la
interdipendenza dei due piani: quello del pensiero eticamente connotato e
quello dell’azione pratica, della sperimentazione e del conflitto sociale e
politico contro il potere dei dominanti. Vorrei sostenere la
complementarietà tra un punto di vista alto e radicale, capace di liberare la
mente dall’attuale dimensione economica totalizzante (la “decolonizzazione
dell’immaginario” economico) e l’azione concreta, quotidiana, localizzata capace
di riorientare e autogovernare le esigenze delle persone. Nulla di nuovo, in
realtà. Le idee senza esperienze di vita diventano ideologie; le “buone
pratiche” senza una visione trasformativa rimangono consolazioni, facilmente
assorbibili nella metamorfosi continua del sistema economico dominante.
Penso quindi, che la “base sociale” della
decrescita, il suo “motore”, sia proprio la galassia delle esperienze di
“economie altre”, volte a creare valori d’uso non commerciali, ecosolidali,
trasformative, mutualistiche, non-profit e fuori mercato, fondate su relazioni
di scambio paritarie e reciproche, non mercificate e mercantilizzate. A partire
dai movimenti che si battono per la sovranità alimentare (agroecologia), energetica (autoproduzione,
generazione diffusa e giustizia climatica) e
l’autodeterminazione territoriale (dai popoli indigeni alle
popolazioni investite da progetti di grandi opere dannose). In genere penso ai
movimenti ambientalisti (contro il consumo di suolo, per la rigenerazione
urbana, per la difesa della biodiversità e del paesaggio, ecc.) che si muovono
sia a scala locale che bioregionale, che planetaria. Penso anche ai movimenti
per la salute pubblica, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Ai movimenti
ecofemministi e, in generale, a tutti coloro che si battono per smantellare
ogni sistema di potere come dominazione sugli altri e sulla natura. Abbandonare
Cartesio, quindi, ma, andando più in profondità, bandire anche i testi
genesiaci relativi al dominium terrae3. Uscire
dall’antropocene, abolire il patriarcato e ogni altra forma di
inferiorizzazione, sottomissione e sfruttamento di qualsiasi forma di vita.
Uscire
dal dilemma
Si pone quindi il quesito: uscire dall’economia,
o rifondarla, risignificarla, reinventarla, reincorporarla, scioglierla in una
inedita dimensione etica e politica, sociale ed ecologica?
Mi rendo
conto che il quesito posto in modo così semplificato possa apparire una disputa
nominalistica astratta. Al fondo
basterebbe intendersi sul significato da attribuire alle parole “economia” o
“economico”4. È infatti molto difficile
riuscire a concepire una economia che non poggi su un qualche tipo di società
o, viceversa, una società che non faccia aggio su una qualche forma di
economia. Se è pur vero che sono le società (intese come sistema di valori
condivisi, rappresentazioni, norme comportamentali, ecc.) che si creano come
meglio credono le forme di economia che le sono più consone, è pur vero che le
diverse modalità con cui le civiltà umane hanno risolto i problemi della
sussistenza e della riproduzione hanno contribuito non poco a plasmare le loro
stesse caratteristiche principali. Ogni
economia è figlia di una politica ed ogni politica è economica. Non esiste una
economia in natura. Non esiste nessuna autonomia della sfera
economica se non quella concessa dalla società politica. Tuttavia esiste –
banalmente – una natura biogeochimica con cui ogni società (anche quelle
animali non umane) deve fare i conti. Tra i paradigmi fondanti di una civiltà
ci sono sicuramente anche i diversi modi di cooperazione sociale finalizzati
alla creazione, distribuzione e utilizzazione di beni e servizi (per usare
termini di oggi) ritenuti necessari dalle popolazioni. Mi è difficile riuscire
a immaginare una forma di civiltà che non faccia i conti con le proprie
esigenze (biologiche e spirituali, bisogni e desideri – “bi-sogni”) in un mondo
naturale inevitabilmente limitato (per materia). Lo
stesso Latouche riconosce che «c’è qualche cosa di universale [sostanziale,
materiale, naturale, biologico, ndr] alla base dell’economia, ma non per questo
l’economia stessa è universale». E che: «Naturalmente, come ogni società umana,
una società della decrescita dovrà organizzare la produzione della propria
vita, vale a dire utilizzare ragionevolmente le risorse del proprio ambiente e
consumarle attraverso beni materiali e servizi» (L’abondance frugale comme art de vivre).
Per esempio ad un “individualismo metodologico” (secondo cui un essere umano è
solo “un atomo di egoismo”) corrisponderanno determinati comportamenti
“economici” come la corsa competitiva all’accaparramento privato delle risorse,
il produttivismo, il consumismo edonistico. Al contrario nelle prime comunità cristiane e nei falansteri
socialisti e anarchici prevaleva l’economia della comunione dei beni,
poiché si pensava che “il senso morale [fosse] una facoltà naturale, proprio
come l’olfatto e il tatto” ( P.A. Kropotkin, La
morale anarchica). Così come nelle società matrifocali corrisponde
un’economia materna della cura. Le società patriarcali sviluppano invece
inevitabilmente una economia di guerra (servono esempi?). Quelle contadine una
economia di permanenza (Joseph Kumarappa). Alle società schiavistiche
corrisponderà una drastica “divisione” del lavoro. E molte altre …
ibridando e, soprattutto, oggi, omologando (occidentalizzazione).
Tutti
d’accordo nell’uscire dall’economia oggi esistente
È
tristemente noto come l’economia capitalista nella sua trionfale avanzata sia
riuscita progressivamente a inglobare e asservire l’intero costrutto umano,
annichilendo ogni forma di relazione sociale, fino ad avvolgere al suo interno
la vita intera (onnimercificazione, biocapitalismo). Siamo giunti così a percepire la crescita economica (assieme
all’innovazione tecnologica) come
un dogma metafisico. Il posto che prima occupava la divina
provvidenza, oggi è preso dall’innovazione tecnologica. Mentre quello dello
spirito santo è stato sussunto dalla finanza. Chi altro sarebbe capace di fare
soldi con i soldi!
Dobbiamo
riuscire a demistificare la teoria della “scienza economica” moderna, figlia
(tra le tante) della rivoluzione scientifica di Francis Bacon, come costruzione
monologica razionalistica, che accompagna la nascita, giustifica le basi e
teorizza le magnifiche sorti del capitalismo. Questa idea di economia
codificata unica (come del resto avviene per tutte le discipline scientifiche
sempre più specializzate e separate: dalla medicina alla sociologia,
dall’astronomia alla meteorologia, dalla fisica alla matematica …) ha una data
di origine (il Seicento), una fonte battesimale (l’Inghilterra), un profeta
(Locke) e una stola di officianti negli economisti.
La “scienza
economica” da cinquecento anni non ha fatto altro che studiare, misurare,
pianificare i meccanismi più efficienti al fine di massimizzare i rendimenti
delle risorse appropriabili, a partire dalla terra e dal lavoro, per giungere
ai saperi e ai sentimenti, dai beni materiali a quelli cognitivi. Ciò è potuto
avvenire perché l’economia, con i classici, si è dotata di un proprio statuto
autonomo, scientificamente sperimentabile e replicabile (imitando le scienze
naturali “dure”), autoreferenziale e quindi libero da qualsiasi condizionamento
esterno (religioso, filosofico, etico e persino biofisico). Continuo a pensare che nessuno meglio di John
Locke (ricordato spesso da Latouche) abbia espresso i fondamenti materiali ed
etici del pensiero economico moderno: “Colui che recinta un terreno e
da dieci acri trae maggiore quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe
trarne da cento acri lasciati allo stato naturale, dona novanti acri all’umanità”
(Trattato sul governo, 1662).
Magistrale! C’è già tutto: l’iniziativa privata, il calcolo razionale
utilitaristico, l’appropriazione, la competizione, il riconoscimento sociale,
la totalizzazione della ragione economica.
Essendo la
sussistenza il primo bisogno degli esseri viventi è abbastanza facile
immaginare che coloro che sarebbero riusciti a organizzarsi per “donare
all’umanità” più generi di consumo, attraverso il meccanismo economico
descritto da Locke (cioè con le enclosures, le colonizzazioni, ecc.), avrebbero
potuto acquisire ed esercitare un maggiore potere politico. Nascono così le
nuove classi sociali e la “economia politica”, il campo dentro cui vengono
stabiliti quali devono essere i rapporti sociali (e quindi i comportamenti
individuali) più funzionali all’espansione dei rendimenti economici dei
capitali (naturali e umani) posseduti. Ovviamente, le teorie e le pratiche di
“economia politica” si sono evolute nel tempo, diversificate ed adattate alle
condizioni materiali e culturali nelle varie parti del mondo. Fino a giungere
alla “occidentalizzazione”, al pensiero unico, all’omologazione nella
globalizzazione.
E non c’è dubbio che il capitalismo,
nella sua travolgente evoluzione abbia
dimostrato di essere un sistema efficiente (più produttivo di
qualsiasi alto) e capace di
rigenerarsi attraverso metamorfosi spettacolari. Il capitale ha esteso i suoi
tentacoli su tutta la società, riuscendo ad estrarre valore ovunque; dalla
fabbrica alla società, dalle conoscenze ai sentimenti (Foucault, Negri …).
È riuscito a sopravvivere all’abolizione della schiavitù, al suffragio
universale, a due guerre mondiali, alla rivoluzione russa e al ‘68… E c’è chi è
pronto a scommettere che riuscirà a metabolizzare anche il cambiamento
climatico vestendosi di verde. In forza di questi successi l’economia è potuta
salire al cielo come nella pala della Vergine Maria di Tiziano nella basilica
dei Frari! L’economia è uscita dal novero dei saperi razionali per
diventare, da una parte (quella della economia politica) una teologia e,
dall’altra (quella dell’economia aziendale) un sistema meccanico,
matematicizzato di calcolo dei flussi di materia e di energia che generano
valore.
Esiste
una economia senza crescita?
Latouche
dice di no. Afferma che non esiste un’economia che non sia mossa al suo interno
da una logica implicita di accrescimento. A essere messa in discussione,
quindi, non è solo l’economia politica in tutte le sue forme storiche
“realmente esistite”: classiche, liberiste, stataliste, socialcomuniste, miste,
ordoliberali, neoliberiste, finanziarizzate …. Non si tratta solo di
smascherare l’economicismo come forma ideologica. Non è sufficiente passare
dall’economia politica all’economia ecologica (Martinez Allier). Latouche mette in discussione l’intero campo semantico
dell’economia. Non è quindi più la sola economia della crescita (e i suoi
sinonimi: sviluppo e progresso) ad essere indicata come la causa della
catastrofe ecologica e sociale in corso, ma l’economia in sé stessa. Comunque
concepita, nella sua essenza ontologica e sostanza metastorica.
Se è così, i
quesiti che si pongono sono due. Uno d’ordine più teorico e uno con
implicazioni politiche.
Economia
integrata nell’ecologia
È immaginabile concepire una forma di civiltà
ultraeconomica, indifferente ai problemi posti dalla sussistenza e dalla
riproduzione delle basi materiali della vita? Mi pare evidente che non sia
possibile. Non so chi ci abbia inflitto questa condanna, ma mi pare
evidente che ogni essere vivente (umano e non umano) è inserito in una catena
trofica che obbliga ciascun individuo a procurarsi di che vivere. Ciò non vuol dire necessariamente che questo
tipo di attività debba essere l’unico scopo della vita (nemmeno per gli animali
non umani è così), né che tale attività debba essere separata da ogni altra
dimensione del vivere (come in effetti avviene nelle società
schiaviste e, attraverso la “divisione scientifica del lavoro”, nelle società
salariate). Mi pare di capire che
la ricerca di una buona vita dipenda, banalmente, da una accettabile
integrazione tra le varie esigenze umane: materiali e spirituali, individuali e
relazionali, produttive e contemplative, ludiche ed erotiche … Non
è saggio, quindi, pensare che le pratiche economiche (intese come tecniche e
metodi per far fronte alla limitatezza delle risorse naturali e alla loro
utilizzazione ottimale) possano occupare l’intera gamma dei pensieri umani, ma
non è nemmeno saggio non tentare di economizzare il dispendio delle energie e
delle risorse materiali necessarie alla soddisfazione delle esigenze delle
persone così come si vanno determinando storicamente e socialmente. Il pensiero
economico (il sapere economico) è esattamente questo, banalmente: economizzare
le energie e gli sforzi necessari a creare i beni e i servizi utili in ambienti
biofisici limitati (che non è sinonimo di scarsi). Il primo significato di
frugalità è parsimonia.
Quindi, la società della decrescita che abbiamo in
mente potrebbe essere definita tanto aneconomica (per
dirla con Jaques Derrida) in quanto non dipendente dall’economia, quanto transeconomica, capace cioè
di sussumere integralmente al suo interno l’esigenza di usare al meglio
(durevolmente, equamente, eticamente) le risorse, umane e non, disponibili.
L’economia, insomma tornerebbe ad essere incorporata nella società (per dirla
con Polaniy) e nei cicli naturali (per dirla con Georescu Roegen o Martinez
Allier) e, così facendo, muterebbe natura, statuto scientifico, considerazione
sociale, sistemi di governo. Volendo, potremmo anche cambiargli nome: non più
economia, nemmeno economia politica, ma “cura”, “rigenerazione”, “convivio” o
“ecologia integrale”, per usare una efficace espressione di Bergoglio che sta
ad indicare proprio la inseparabilità della dimensione ecologica e
socioeconomica.
Decrescita
come movimento di liberazione e riappropriazione
La seconda questione è d’ordine più pratico e
investe il rapporto del movimento per la decrescita con i movimenti sociali ed
ecologici. Tutti i movimenti anticapitalisti e antisistema (compresi quelli più
radicali e rivoluzionari, gli antiutilitaristi, gli ecologisti profondi e gli
anarchici, gli zapatisti …- esclusi forse solo i situazionisti) pensano che sia
non solo possibile, ma necessario reinventare e risignificare le attività
economiche mettendole al servizio della prosperità (seppur frugale)
dell’intera umanità. L’idea è di prefigurare e sperimentare forme di
“economie altre” fondate su relazioni mutuali, non utilitaristiche, non
predatorie ed estrattiviste, ma rigenerative, orientate al dono, alla
reciprocità, alla comunanza e convivialità solidale, all’equità, alla
prossimità, alla permanenza… Non si tratta di rinunciare a nulla, ma
esattamente il contrario: reimpossessarsi di beni inestimabili (incommensurabili
in termini monetari) che la società della crescita ci hanno fatto venire meno:
l’aria pulita, l’acqua, il paesaggio… il tempo per coltivare relazioni umane …
le attività libere che rigenerano la mente e i corpi. Insomma la realizzazione
delle condizioni essenziali per un buen vivir. Non
smetto di pensare che la decrescita sia un processo di liberazione e di
riappropriazione (beni comuni).
Ogni forma
di civiltà sviluppa un corrispondente sistema economico. Se per economia
intendiamo sistemi di cooperazione sociale volti a soddisfare la produzione di
beni e servizi utili al buon vivere delle popolazioni, allora un’altra economia
risulta necessaria alla costruzione di un’altra civiltà.
È come per il lavoro. Un conto è volere
abolire il lavoro salariato (schiavo, subalterno, eterodiretto, astratto,
alienante, impersonale… “di merda”, per citare Graeber). Un altro conto è
negare l’esigenza di svolgere attività umane volte a migliorare le condizioni
di sussistenza e di cura della propria persona così come degli altri esseri
viventi (Ernst Friedrich Schumacher) e migliorare la vivibilità del
pianeta.
È come per le tecnologie. Un conto è
l’automobile – diceva Illich – un altro valore ha la bicicletta. Ci sono
strumenti che debilitano e disabilitano il corpo e la mente, e altri che invece
li possono fortificare.
È come per ogni branca del sapere. La
lotta per uscire dalla civiltà della crescita passa sicuramente per la
riappropriazione e la integrazione di tutti i saperi (complessità e olismo),
anche di quelli più parcellizzati e specialistici. Compreso quello economico.
Un conto è mettere in discussione lo statuto scientifico codificato,
autoreferenziale, isolato di una disciplina5 e, soprattutto,
contestarne la sua pretesa prescrittiva. Un altro conto è negare l’esistenza di
specificità (sempre parziali) che compongono il pluriverso umano, le diverse
forme di conoscenza e i possibili, infiniti, diversi comportamenti sociali.6
Se è vero
che l’economia è inseparabile dalla società (non c’è alcun automatismo
spontaneo nelle prassi economiche, se non quello che la politica gli concede),
in un’altra auspicabile forma di civilizzazione le funzioni ora così malamente
svolte dall’economia (“malsviluppo”, lo definisce Vandana Shiva) dovranno
essere completamente riconsiderate. Così come del resto dovrà accadere per
tutte le altre forme del sapere parcellizzato e scomposto. Penso ai casi
eclatanti della medicina, della bioingegneria submolecolare, della psicanalisi,
della sociologia politica… e così via. Ogni sfera del sapere deve diventare un
campo dentro cui le forze della trasformazione devono dare battaglia.
La società a cui miriamo è quella in cui le
donne e gli uomini sono capaci di prendersi cura della propria vita, di quella
degli altri e del pianeta. Per riuscirci, ritengo, ci sarà bisogno di
sperimentare e definire altre forme di approvvigionamento, lavorazione,
distribuzione, utilizzazione, rimessa in circolo degli stock e dei servizi che
la natura ci mette gentilmente (gratuitamente) a disposizione (comprese le
nostre stesse capacità di lavoro). In
attesa di trovare un nome diverso a questo modo di agire e di pensare,
proporrei di chiamarlo “economia della cura”.
Note
1 Latouche
scrive nell’introduzione a L’invenzione
dell’economia; «Noi rifiutiamo l’idea di una essenza o di una sostanza, in
altre parole di un universale ‘economia’. L’economia è in quanto tale una
costruzione culturale e storica» (p.XV). In tal senso Latouche critica Polanyi,
che distingue tra «un’economia sostanziale che costituirebbe uno zoccolo
universale e trans-storico e un’economia formale che riguarderebbe unicamente
il calcolo economico» e la stessa bioeconomia di Georgescu Roegen, perché non
giunge a «rinunciare all’economia come “scienza economica”». La decrescita,
invece, individua «il cuore dei problemi (…) nella logica stessa di crescita,
percepita come essenza dell’economico».
Quindi l’economia ha una sola sostanza: quella della crescita. Un’economia
senza crescita (per esempi quella “stato stazionario” ipotizzata da Herman
Daly, sarebbe impossibile. E prosegue: «In questo senso, il progetto della
decrescita è radicale. Non si tratta di sostituire una buona economia a una cattiva economia, una buona crescita o un buono sviluppo a una cattiva crescita o a un cattivo sviluppo, con una colorazione
di verde o di socialità od equità, immettendo dosi più o meno forti di
regolazione statale o di ibridazione con la logica del dono e della
solidarietà. Si tratta piuttosto di uscire senza mezzi termini dall’economico»
(p. XI).
Ancora più
netto Latouche in un altro suo lavoro, L’abondance
frugale comme art de vivre. Bonheur, gastronomie et décroissance (estratto
datomi dall’autore): «Si tratta né più né meno di uscire dall’economia. Questa
formula è generalmente fraintesa perché i nostri contemporanei trovano
difficile rendersi conto che l’economia è una religione (…) Il progetto della
decrescita non è altro che la costruzione di un’altra società, una società di
abbondanza frugale o di prosperità senza crescita (T. Jackson). In altre
parole, non è fin dall’inizio un progetto economico, anche se di un’altra
economia, ma un progetto sociale che implica abbandonare l’economia come realtà
e come discorso imperialista».
2 In
una parola, la decrescita è uscire dall’ossessione della crescita del volume
dei beni e dei servizi prodotti e venduti sul mercato, contabilizzati in valori
monetari. La decrescita, nel suo significato basico, è la ricerca della
diminuzione dei flussi di energia e di materia impegnati nei cicli economici,
quel tanto che serve a rientrare nei “confini planetari” ecosistemici. Questo,
però, è solo l’”argomento debole”, difensivo. Quello forte, capace di mobilitare
le persone è «presentare una visione della vita buona come qualche cosa da
perseguire non per senso di colpa o per paura di un castigo, ma con felicità e
speranza» (R. e E. Skidlsky, Quanto è
abbastanza, p. 167, 2013).
3 E
Dio disse: “Facciamo l’essere umano come nostra immagine, secondo la nostra
somiglianza, perché domini sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul
bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla
terra”. Quindi li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra e soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sui volatili
del cielo, sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”.
(Genesi 1,26-28). Se c’è una debolezza di Bergoglio nella stessa Laudato si’ è proprio nel non essere
riuscito a mettere in discussione le basi antropocentriche del pensiero
giudaico e greco.
4 In
fondo – mi si perdoni la puerile semplificazione – basterebbe tornare ad
Aristotele e distinguere tra crematistica ed economia – Oikonomiká, la buona gestione della
dimora – ed allargare il concetto all’intero mondo, fino a far coincidere il
campo semantico dell’economia con quello dell’ecologia. Che è come dicono gli
ecologi da più di mezzo secolo che l’economia è un sottosistema dell’ecosfera.
Scriveva E.F. Schumacher: «L’economia è una scienza derivata, che accetta istruzioni
da ciò che io chiamo meta-economia. Cambiano istruzioni, cambia il contenuto
dell’economia». Piccolo è bello p.57)
5 Quello
che Edgar Morin definisce «il nostro modo di conoscenza parcellizzato [che]
produce ignoranze globali» (La Via,
2012)
6 Sempre
E.F. Schumacher: «Ogni scienza è benefica entro i propri limiti, ma diventa
cattiva e distruttiva appena li supera» (p.54, Piccolo
è bello). È quello che Castoriadis chiamava “predominio dell’economico”,
come valore esclusivo e unico e dominio totale della società che «oltrepassa
infinitamente il mero soddisfacimento dei bisogni funzionali alla
sopravvivenza» (La rivoluzione democratica,
1990).
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