Seguitemi,
per favore.
Sarà un viaggio breve e intenso, spero, nel medesimo tempo e al riparo della
stessa pagina.
Possiamo ancora scegliere. È strano, forse perfino ingiusto, ma molti di noi
hanno ancora in mano la chance di fermarsi, perlomeno, e scendere dalla nave,
se mi si lascia passare la scontata metafora.
A ogni modo, avvicinatevi e osservate tra gli spazi candidi di questo pugno di
parole e incapacità ad arrendersi. Con un pizzico di immaginazione e un altro
di fiducia in quest’ultima potrete vedere il bianco tra una strofa e l’altra
dissolversi e farsi finestra, oblò, per le banali
ragioni di cui sopra, e meno prosaicamente specchio.
La vedete, come me, la nave in fiamme in mezzo al mare?
State tranquilli, laddove sia l’umana sensibilità a risvegliarsi in voi:
l’equipaggio, ventidue nostri simili, sono in salvo.
Non si può dire lo stesso, a discapito delle addolorate case madri, delle
quasi quattromila automobili, tra Porsche, Audi, Lamborghini e
Volkswagen.
Volkswagen, la vettura del popolo nazista, nell’intento
iniziale, dal quale l’azienda si è ovviamente distanziata dopo la guerra.
Ce l’aveva il mio papà, un rumoroso maggiolino celeste, e quando mi rivelò cosa
volesse dire in tedesco il nome dell’auto mi piacque molto. L’auto del
popolo, ovvero della gente, mi faceva pensare a cose create per
tutti e soprattutto di tutti, anticipando la mia ingenuamente
indistruttibile ancora oggi affezione per l’utopia.
Ma perdonate la distrazione, continuiamo a osservare insieme la nostra
infuocata barca alla deriva, rassicurati dall’assenza di anima viva.
Si chiama Felicity Ace, Asso della Felicità, ed è
ancora in viaggio dall’Europa agli Stati Uniti d’America.
Sulla stessa tratta che nel secolo scorso gli antenati degli abitanti del
vecchio mondo, dalla memoria avariata più che corta, traversavano speranzosi di
trovare terra, orizzonte e umanità sufficienti
per sopravvivere al passato. Con tanti sogni in tasca o nelle
maniche della giacca bisunta, alla stregua di carte speciali
proprio come assi, che garantissero loro duratura felicità.
Adesso che l’inquadratura è nitida e inequivocabile, posate il dito sul
pulsante che mette in pausa il mondo che ci ruba gli occhi e decidete a vostro
piacimento quando donare il fermo immagine alla visione che stiamo
condividendo.
Io lo faccio ora e guardo.
Guardo e vedo, finalmente.
Una nave in fiamme.
Una nave in fiamme priva di vita e vite.
Con a bordo tonnellate di inerti mostri di metallo e plastica,
che quotidianamente succhiano e divorano la linfa vitale del nostro pianeta e
del nostro tempo sprecato incolonnati tra un fetore e un colore che sanno di
morte.
Una nave rovente di follia e ottusità che arde di
solitudine e inutilità, se privata di noi altri e del potere che noi stessi
gli abbiamo consegnato a coscienze, più che mani basse.
Una nave senza capitano al timone e neppure uno straccio
di senso che brucia il suo destino e il nostro nel bel mezzo dell’Oceano
Atlantico al largo dell’Arcipelago delle Azzorre.
Ovvero, un intero girone infernale che naviga come un
idiota cieco che si crede saggio sulla superficie del paradiso
terrestre chiamato Natura.
Ecco, non penso ci sia nulla da aggiungere.
Credo, lo spero.
Perché possiamo scendere e salvarci ancora, proprio come quei ventidue.
Altrimenti, mi sbaglierò, sarebbe come se nei panni di uno qualunque di questi
ultimi ritornassimo sui nostri passi per risalire a bordo e continuare il
viaggio della nave chiamata quanto mai erroneamente.
Asso della Felicità…
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