Dopo le proteste
contro il progetto Nimbus, la denuncia dei lavoratori licenziati racconta le
discriminazioni e rivendica il diritto di parola
I lavoratori
di Google licenziati in tronco il mese scorso per avere protestato contro
gli accordi militari con Israele non ci stanno. E passano al contrattacco,
denunciando la piattaforma per aver violato la libertà di espressione dei
suoi dipendenti, come riporta la Cnn.
Rivendicano come la loro protesta sia stata pacifica, nonostante le accuse di
violenze mosse dalla multinazionale. E in un lungo articolo su “The Nation”
vanno oltre, raccontando tutta una serie di abusi e discriminazioni che
dichiarano di aver subito nei luoghi di lavoro all’interno dell’azienda contro
i lavoratori palestinesi, arabi e musulmani.
A presentare
il reclamo al National Labor Relations Board non sono solo le ventotto
persone licenziate ad aprile per avere preso parte alle proteste. Ma
anche altre decine di dipendenti licenziati nei mesi precedenti, per avere
osato manifestare solidarietà con il popolo palestinese. O per avere criticato il
progetto Nimbus: un servizio di cloud computing da 1,2
miliardi di dollari sviluppato per il governo israeliano insieme ad Amazon. E
che ha evidenti scopi militari, come la fornitura di un’infrastruttura
digitale all’esercito israeliano per raccogliere dati poi utilizzati
dall’intelligenza artificiale. E abbiamo visto quanto l’intelligenza artificiale serva alle guerre di
oggi e domani.
Il progetto
Nimbus che aiuta l’esercito israeliano
Il progetto
Nimbus nasce a settembre del 2022, e subito si configura come un’arma militare.
È un super cloud dal valore di 1,2 miliardi di dollari progettato
da Google e Amazon per il controllo sociale del territorio. E come spiega a il manifesto Ariel
Koren, ex marketing manager di Google, serve per «ampliare lo schema israeliano
di sorveglianza, profilazione razziale e altre forme di violazione
dei diritti umani assistite dalla tecnologia». Un aiuto
all’apartheid israeliano che, un anno dopo, diventa un aiuto
militare alla distruzione della Striscia di Gaza. Un massacro che ha già
provocato oltre trentamila morti, distrutta ogni infrastruttura
palestinese, scuole e ospedali compresi, e devastato il futuro delle prossime
generazioni.
Per questo i
lavoratori delle big tech della Silicon Valley si sono riuniti
nell’organizzazione No Tech for Apartheid. E
con l’intensificarsi dei massacri nella Striscia di Gaza hanno intensificato le
loro proteste. Prima hanno raccolto una petizione con oltre 10mila firme. Poi
lo scorso 16 aprile hanno organizzato due sit-in molto partecipati negli
uffici della piattaforma a New York e a Sunnyvale, in California. E in
quest’ultimo edificio sono riusciti a entrare nell’ufficio del Ceo di Google
Cloud, Thomas Kurian. Alcune volte, come nel caso delle proteste contro Starbucks e
dei successivi licenziamenti, i dipendenti hanno ottenuto dei risultati.
La speranza è che accada anche con Google.
I
licenziamenti indiscriminati e senza giusta causa di Google
La risposta
della multinazionale della tecnologia però non si è fatta attendere. È arrivato
il licenziamento in tronco, appunto, di 28 lavoratori. Il Ceo di Google Sundar
Pichai ha inviato una nota aziendale in cui esortava i suoi dipendenti
a tenere «la politica fuori dal posto di lavoro». Come se opporsi alla
distruzione del 97% del Pil di un Paese fosse una diatriba
politica. Poi ha accusato i dipendenti licenziati di aver messo in atto un «disturbo
fisico che ha impedito di lavorare ai loro colleghi». Dove però i
“colleghi” dal capo sono chiamati googlers, giusto
per rendersi conto di quanto sia assurda la vita dei lavoratori delle
piattaforme e delle big tech.
I lavoratori
licenziati non solo hanno rivendicato la protesta come pacifica, portando tutta
una serie di testimonianze di colleghi, spettatori e giornalisti
che vi avevano assistito. Ma hanno anche accusato la multinazionale di aver
licenziato dipendenti che nemmeno avevano partecipato alla protesta.
Poi sono andati oltre, e hanno deciso di rivolgersi al National Labor Relations
Board, un’agenzia governativa che garantisce il diritto dei lavoratori ad
associarsi, a protestare, scioperare e ottenere contrattazioni collettive. Un
ente che da quando esistono le piattaforme – dove i minimi diritti dei
lavoratori non sono rispettati – ha molto più lavoro da fare.
La risposta
dei lavoratori non si è fatta attendere
Al National
Labor Relations Board è stato presentato un reclamo in cui si accusa
Google di impedire l’associazione di lavoratori, il loro diritto alla protesta
e soprattutto la loro libertà di parola e di espressione. Ma pochi giorni
prima, in una lunga lettera scritta
a The Nation, alcuni dei lavoratori licenziati avevano
spiegato di essere «delusi, indignati e scoraggiati dal rifiuto
totale di Google di intraprendere con loro alcuna discussione». E hanno
accusato la multinazionale di avere rifiutato ogni richiesta di incontro
e chiarimento sul progetto Nimbus, ben prima delle proteste
del 16 aprile.
Poi hanno
anche raccontato come dall’inizio dell’invasione israeliana la vita all’interno
dell’azienda per palestinesi arabi e musulmani sia diventata praticamente impossibile.
«Abbiamo cercato di coinvolgere i nostri capi con petizioni, attraverso
riunioni in orario d’ufficio o attraverso le bacheche interne», hanno scritto i
dipendenti licenziati. «Ma invece di risponderci in buona fede, i piani alti
hanno censurato la nostra rete di comunicazioni interne.
Queste mosse hanno avuto un impatto nocivo sui nostri colleghi palestinesi,
musulmani e arabi, che si trovano ad affrontare una cultura interna di
odio, abusi e ritorsioni». Così è, se vi pare, la vita dei googlers (sic!).
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