Anche dopo anni di discussioni su maxi ambulatori con dotazioni tecnologiche, su servizi a domicilio, su centri di riabilitazione o di chirurgia senza ricovero, il luogo simbolo della cura del malato resta sempre lo stesso: il letto ospedaliero. È il centro di gravità permanente attorno a cui ruota l’assistenza ma in Italia è sempre più raro. I dati degli ultimi vent’anni raccontano di una riduzione del 22% dei posti nelle strutture pubbliche e di una maggiore tenuta delle private convenzionate, che nello stesso periodo hanno visto un calo del 12%. E se si osservano solo gli ultimi 12 anni, i letti delle cliniche private sono praticamente stabili. I tagli non le hanno toccate.
In assoluto, dal 2002 al 2022 gli ospedali hanno perso oltre 50 mila letti. Tra l’altro il calo dei posti è destinato a salire perché nell’ultima rilevazione risentiva ancora degli effetti del Covid, quando sono state aperte molte degenze che le Regioni stanno chiudendo. E infatti tra il 2020 e il 2022, certificano i numeri del ministero alla Salute, c’è stato un primo calo importante. Se la tendenza dovesse proseguire a fine 2024 si arriverà a 80 mila letti in meno rispetto a vent’anni prima.
La situazione nelle Regioni
Il taglio dei posti, perseguito negli anni anche attraverso provvedimenti
legislativi, non rappresenta di per sé una cosa negativa. Si tratta di un
fenomeno complesso e per valutarlo bisogna tenere conto di più fattori. Il
presupposto è che con il progresso della medicina si sono ridotti i tempi di degenza
per alcune patologie, ad esempio ci sono interventi chirurgici che richiedono
un ricovero molto più breve di un tempo. Poi bisogna calarsi nella realtà
italiana, dove la qualità dell’assistenza varia tra le Regioni. Ad esempio, in
Piemonte e in Basilicata ci sono 3,7 letti per mille abitanti, in Calabria 2,2
e in Sicilia e Campania 2,6 (ma gli ospedali convenzionati sono numerosi).
Eventuali interventi dovrebbero tenere conto di queste differenze. Non solo, i
tagli hanno prodotto effetti diversi nelle varie specialità e il risultato è
che ci sono più carenze in certi settori, come la medicina interna e la
geriatria.
Il resto del mondo
Per valutare la situazione italiana vale la pena anche osservare cosa
succede nel resto del mondo, tenendo conto che, in base a statistiche
internazionali, la nostra sanità pubblica resta comunque tra quelle che, non
senza problemi, raggiungono buoni punteggi in molti degli indicatori sullo
stato di salute dei cittadini. Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico, da noi nel 2021 c’erano 3,1 letti
pubblici per mille abitanti, meno che in Giappone (12,6), Germania (7,8),
Ungheria (6,8), Francia (5,7), Grecia (4,3) e Portogallo (3,5). Ma un numero
inferiore di posti li hanno Spagna e Olanda (3), Usa (2,8), Regno Unito (2,4) e
Svezia (2).
“Ci vorrebbero 35 mila letti in più”
Secondo Piero Di Silverio, che guida il sindacato dei medici ospedalieri
Anaao, ci vorrebbero 35 mila posti in più, ovviamente tenendo conto dei settori
più in crisi. “Quello che succede nei pronto soccorso, dove spesso restano a lungo pazienti che non trovano
spazio nei reparti, fa comprendere che il problema c’è”. Appare invece enorme,
e quindi sovrastimato, il dato diffuso dal Forum delle società scientifiche, secondo il quale mancherebbero,
a detta del suo presidente Francesco Cognetti, addirittura 100 mila letti.
Le difficoltà delle medicine interne
“Il sistema doveva un po’ dimagrire ma non così tanto”. A parlare è Nicola
Montano, presidente della Simi, la Società italiana di medicina interna: “Ci vogliono
un po’ più di letti ospedalieri e bisogna ripristinare tanti di quelli di bassa
intensità, anche di lungodegenza, che un tempo esistevano”. Secondo il medico
va però valutata la situazione settore per settore. “Noi abbiamo problemi, come
evidenzia un nostro studio fatto con la Fadoi, la federazione degli internisti
ospedalieri, dove si dimostra che nelle medicine abbiamo tra i ricoverati il
20-25% di “bed blockers”, cioè persone che tengono occupato un posto ma
potrebbero essere dimesse. Succede perché non ci sono abbastanza strutture a
bassa intensità e a casa non possono tornare”. Servirebbero più letti, dunque,
ma aprirli non è facile. “Sarebbe difficile farli funzionare per la carenza dei
medici, e soprattutto degli infermieri, in certe specialità”, dice Montano.
I chirurghi: “Siamo pochi”
Uno dei settori dove iniziano a scarseggiare i professionisti è la
chirurgia. Per Vincenzo Bottino, presidente Acoi, l’associazione dei chirurghi
ospedalieri, “quello degli organici oggi è il nostro problema principale. Ben il 56% delle borse di studio di specializzazione in chirurgia
quest’anno è andato perso. Rischiamo una desertificazione delle sale
operatorie”. Secondo Bottino, riguardo al numero di letti “ci riferiamo a un
piano nazionale ospedaliero vecchio, che non tiene conto delle nuove esigenze e
patologie. Andrebbe fatta una rimodulazione dei posti letto. Non ce ne
vorrebbero tanti di più, bisognerebbe però organizzare meglio il sistema”.
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