Due notizie apparentemente diverse sono invece assai simili. La prima è quella dell’inchiesta giornalistica di Report sullo sfruttamento delle cave di marmo delle Apuane che ha sollevato un polverone (Altreconomia se ne era occupata già tempo fa). La seconda è quella diffusa da UnioneSarda.it riguardante la vendita di ben mille ettari di suolo dell’isola a un’azienda cinese per farci il più grande impianto fotovoltaico d’Europa (l’ennesima colonizzazione energetica).
Che cosa hanno in comune le due notizie? Il suolo e il paesaggio rubato
all’ambiente e alle comunità locali? Certamente sì, ma non solo. La speculazione
finanziaria dietro tutto questo? Certamente sì, ma non solo. La finzione della
sostenibilità o la pretestuosa equazione per la quale ciò che è rinnovabile è
automaticamente sostenibile (falso)? Certamente sì, ma non solo.
L’ipocrita teatrino dei politici che, solo dopo il clamore suscitato
da Report, si sono fatti vivi in carne e ossa mettendo in scena
improbabili indignazioni e stupori per quel che accade nelle cave (ma non sono
loro e le istituzioni che amministrano a dare
le concessioni?)? Oppure il silenzio ancora eccessivo e imbarazzante
di troppi politici sardi che ricorda l’astuta tattica di chi costruisce ritardi
burocratici ad hoc così che le cose poi diventano irrecuperabili? Certamente
sì, ma non solo. La negazione di sovranità (parola che piace più tradire che
pronunciare) delle comunità locali, scippate delle risorse naturali per
ingrassare le tasche di pochi finanzieri disinteressati alle sorti delle genti
locali e che poco o nulla restituiscono al territorio? Certamente sì, ma non
solo. Il fatto che i marmi si cavano dalla terra toscana per arredare i bagni
di qualche magnate del petrolio chissà dove o che l’energia solare su suoli
sardi finisca nei portafogli cinesi? Certamente sì, ma non solo.
E allora che cosa accomuna le due notizie? La loro sproporzione. Si, è la
sproporzione a renderle così simili e odiose facendone una rappresentazione
viva e bruciante del neoliberismo e della sua enorme ferocia
artificializzatrice e speculativa a danno del territorio. “È quando
l’insediamento si espande e inizia a coprire ettari; è quando il governo del
territorio si fa così capillare da escludere sistematicamente tutte le specie
che sono riconducibili alla utilità umana; è con l’imporsi di questa forma
totalitaria dell’essere al mondo, che la presenza umana diventa artificiale”,
come hanno spiegato Francesco Boer e Andrea Pilloni (2023). La sproporzione è
pervasiva ed è ciò che artificializza tutto senza pietà, spesso legittimata da
norme ingiuste o assenti, sostenute in modo palese o velato da una politica
compiacente fin quando ci scappa il morto o quando il Report di
turno scoperchia il caso.
Eppure, fino a poco prima della puntata, la sproporzione con cui intere
montagne sparivano a morsi sempre più rapidi e voraci era “normale”, proprio
come ora è di nuovo “normale” vedere un’isola letteralmente colonizzata oltre
ogni ragionevole misura da pale e pannelli, i nuovi strumenti di espropriazione
della natura e delle genti. La sproporzione tra intenzione e atto è ciò che
rende indigeribile sia le cave di marmo sia il futuro parco fotovoltaico cinese
e i relativi annessi e connessi. La sproporzione dell’indifferenza di chi
governa senza prendere una posizione netta e forte che cambia per davvero il
corso delle cose e ferma le rapine. La sproporzione con la quale le tecnologie
(estrattive entrambe) si propongono come salvifiche a priori quando invece sono
un moltiplicatore di impatti ambientali. Lo squilibrio quantitativo è
simbolicamente ciò che accomuna questi due casi. Ma è anche, a pensarci bene,
la cifra con la quale l’immarcescibile modello neoliberista continua a
trasfigurare i luoghi dove viviamo, spaesandoci.
Sproporzionati sono anche i capannoni della logistica e del commercio online che
in meno di dieci anni hanno letteralmente stravolto i paesaggi: e non capiamo
più noi chi siamo. Sproporzionati sono i piccoli e grandi palazzi multipiano
che sorgono a Milano o a Bologna al posto di piccole officine o edifici dentro
i cortili, mandando all’aria le viste di chi da decenni viveva lì attorno.
Sproporzionato è il ponte
sullo Stretto di Messina, il progetto di arretramento
della linea
ferroviaria nel ponente ligure, l’alta velocità in Irpinia, la mega-ciclabile
del Lago di Garda, la trasformazione del parco del Meisino a Torino in
cittadella dello sport, i grattacieli a Milano, Torino e dove vogliono farli, i
progetti di interporti ad Alessandria, Novara, Parma e chissà dove ancora,
l’ampliamento della tangenziale di Bologna, il porto fluviale a Monticelli di
Ongina sul Po, il Tyirrhenian link, ma anche l’assurda area parcheggio fuori
dalla stazione di alta velocità di Reggio Emilia Mediopadana, le mega rotonde
viarie e così via.
E poi ci sono tutte le piccole sproporzioni urbanistiche che si depositano
nei piccoli e medi Comuni: in termini assoluti possono sembrare poca cosa, ma
rispetto alla trama sottile di quei centri diventano un fuori scala che rende
stranieri tutti gli abitanti. L’elenco delle sproporzioni che gettano
artificializzazione e spaesamento nei nostri occhi è lunghissimo e tristissimo.
Ma è proprio questa la cifra con la quale ci stanno mangiando l’orizzonte e
“de-cittadinizzandoci”. Oggi più di ieri. È un processo che ha preso la
rincorsa negli anni Settanta, si è irrobustito negli anni Novanta abbruttendo
il Paese e rubando terre che erano di tutti, ma ora sta letteralmente superando
qualsiasi previsione e qualsiasi soglia di rispetto. La sproporzione è oggi
quel che accomuna gran parte delle opere pubbliche e private che consumano
suolo e artificializzano i territori rendendoli irriconoscibili con una
velocità alienante, mai conosciuta prima.
Come se non bastasse, tutto questo viene perpetrato con maggior furbizia di
ieri, usando pretestuosamente la sostenibilità e la tecnologia come grimaldelli
e bersagliando preferibilmente le comunità che abitano le terre più fragili
-dalla Val Susa all’entroterra pugliese, campano e sardo- contando forse sul
fatto che, prese dalla preoccupazione di sopravvivere nella dura quotidianità o
sprovviste delle capacità culturali ed economiche, non sono in grado di opporsi
o tardano a capire cosa sta accadendo o sono più facili da abbagliare. È sempre
più urgente una reazione che, prima dei cortei e delle manifestazioni, prepari
le comunità a diventare epistemiche, ovvero sempre più capaci di anticipare le
loro prese di posizione basandole su consapevolezze e conoscenze sempre più
solide, evitando di scivolare nella sola contrapposizione ideologica, pur
ragionevole ma troppo facilmente criticabile dagli speculatori e dai loro
compiacenti politici.
Bisogna anticipare le reazioni, evitando che quelle sproporzioni inizino a
essere pensate, facendo capire che i territori non sono né riserve di caccia
per speculatori dove trovare un ambiente dal ventre molle che possono bucare
come gli pare e piace, nè abitati da genti che sono muti codici fiscali da
mettere su una lista di espropri o che possono spostare qua e là come gli va.
In un contesto dove le forze politiche sono perse nei loro giochi elettorali,
disinteressate e distanti dalla concretezza dell’intreccio tra questioni
ecologiche e sociali, dove non vedono queste sproporzioni e non sono capaci di
metterne assieme due solo perché geograficamente e tipologicamente distanti, è
più che mai urgente riannodare e irrobustire le alleanze tra saperi scientifici
e azioni locali per superare la mentalità incentrata sull’interesse privato,
sul solo profitto finanziario che può sventrare qualsiasi cosa.
L’impegno civile oggi deve lavorare molto di più a monte e non solo a
valle, così da prevenire la violazione di territori e comunità, come suggerisce
Adriano Zamperini nel suo “Violenza
invisibile”. Stare a valle e opporsi agli scempi è sacrosanto, ma non più sufficiente.
È urgente andare a monte per disegnare le condizioni culturali per cui certe
cose, certe sproporzioni, certe predazioni di suoli e paesaggi, certe
prevaricazioni alle popolazioni locali spariscano per sempre e si impari a
immaginare alternative condivise, proporzionate e super rispettose degli
ecosistemi. Un grande lavoro culturale ed ecologico, necessario e urgente. Non
può che partire da chi, in questo momento, riesce a vedere quelle sproporzioni
e quelle prevaricazioni vuoi perché ci è accanto, vuoi perché ne conosce gli
effetti teorici. Occorrono nuove alleanze di impegno civile, basate sulla
consapevolezza: teoria e azione insieme. Si può fare, si sta già in parte
facendo.
Nessun commento:
Posta un commento