giovedì 16 maggio 2024

Democrazie di sabbia - Mauro Armanino


Dov’è passato il popolo nei Paesi del Sahel? Si tratta dei bambini, i giovani e gli adulti che hanno riempito lo stadio un paio di volte dopo il golpe di fine luglio dell’anno scorso? Oppure dei gruppi di vigilanza nelle rotonde della capitale? O delle migliaia di cittadini che hanno ottenuto la partenza incondizionata dei militari francesi prima e statunitensi poi nella piazza battezzata della Resistenza? Parliamo delle qualche decine di militanti delle organizzazioni della società civile che hanno “sposato” e “orientato” la causa della giunta? C’è popolo e popolo, come dappertutto in giro per il mondo, beninteso. Coloro che ne accaparrano i vizi e le virtù e coloro che, diciamo così, non ne faranno mai parte. Ad esempio i bambini e gli adulti che a centinaia mendicano sulle strade della capitale o che sono “esportati” nei Paesi confinanti per esercitare il mestiere di salvare le anime dei peccatori. In effetti, anche grazie a loro i fedeli potranno praticare la virtù dell’elemosina e sperare nella misericordia divina. Nella zona “grigia” tra il popolo e il non popolo ci sono le moltitudini dei contadini, degli allevatori di bestiame e la folla immensa di giovani che sopravvivono del lavoro informale per il cibo quotidiano. A meno che non si chiami “popolo” solo chi sta dalla parte “giusta”.

C’è il popolo dei commercianti, i grandi che vanno a Dubai o altrove, i medi che si industriano per riemergere dalla crisi, i piccoli delle frontiere e i minimi che vendono i sacchetti d’acqua di un’improbabile sorgente del Sahel, pura e minerale per tutti i gusti. Ci si ricorda del popolo dei politici del passato, in situazione di stallo con la sospensione delle attività dei partiti politici o per via dei compromessi con l’antico regime presidenziale del Rinascimento. Il popolo dei funzionari statali, gli insegnanti, gli impiegati nelle Ong locali, i superstiti delle cooperazioni bilaterali e l’indefinita lista di chi cerca lavoro e colleziona domande di assunzione per concorsi che non arrivano mai in tempo. Si dovrebbe aggiungere il popolo degli imprenditori religiosi che organizzano la vita religiosa del popolo dei credenti a sua volta suddiviso tra stranieri e autoctoni. Poi c’è il popolo dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati espropriati delle terre, le case e il futuro che immaginavano diverso. Il popolo dei militari fa storia a sé soprattutto se si prendono in considerazioni i gradi, le affinità, le conoscenze e l’attuale posto nell’amministrazione politica del Paese. Anche le donne formano, a modo loro, un popolo a parte speciale coi suoi riti, attese, prerogative e poteri sul quotidiano dei figli e quello, meno evidente, sui mariti.

Il popolo è dunque un’idea nata da qualche parte tra il concetto di nazione e quello di stato. Oppure non si tratta che di un’invenzione che solo la scelta di nominarlo permette di farlo esistere. “In nome del popolo sovrano” suona quasi come un proclama assoluto dal sapore divino. La giustizia, la legge e la carta costituzionale si fondano sul popolo e così la sovranità che gli appartiene per natura. Sono i cittadini riconosciuti come tali che sembrano costituire il popolo in base all’appartenenza storica, geografica, culturale e politica a un ordinamento accettato e riconosciuto.

Infine c’è il popolo di sabbia o meglio il popolo che della sabbia è una creatura a parte. Spazzato via dal vento e dai pulitori di strade, ai margini delle corsie transitabili dai veicoli oppure allontanato dagli orientamenti strategici del Paese, venduto e occasionalmente ostaggio delle nuove bandiere sistemate nelle rotonde della capitale. Fanno bella mostra quelle dei Paesi dell’Alleanza del Sahel assieme a quella della Russia. Forse il popolo introvabile si trova, nascosto, nella polvere che il vento porta lontano.

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