“Lavorare meno, lavorare diversamente o non lavorare affatto” (Bollati
Boringhieri) è un libro breve ma densissimo di profondi stimoli. Il padre della
“rivoluzione culturale” della decrescita, affronta un tema decisivo per
sottrarsi dal quadro mentale della società della crescita: quello del lavoro
moderno, cioè del lavoro salariato.
“Lavorare meno” può suonare come uno slogan di moda – ed è stato subito recepito dal mensile italiano di Il Fatto quotidiano “Millennium” che gli ha dedicato il numero di novembre 2023 con una intervista a Serge Latouche e lunghi approfondimenti sul tema. Tuttavia la riflessione dell’economista e filosofo francese è molto articolata e difficilmente si fa ingabbiare dai media la cui funzione sostanziale è quella di vendere il binomio pubblicità–progresso (a conferma di ciò, poche pagine dopo, si veda l’intervista alla titolare della cattedra di “Etica dell’Intelligenza Artificiale”, una contraddizione in termini o un ossimoro, per dirla con Latouche, tanto quanto quello di “sviluppo sostenibile” o di “crescita verde”).
Oggi – sottolinea il nostro – ci troviamo nel mondo delle assurdità: alcuni
lavorano anche quindici ore al giorno, mentre ci sono milioni di disoccupati
(p.36). Lavorare meno è dunque necessario per lavorare tutti, ma
occorre soprattutto uscire dal paradigma del capitalismo o produttivismo. È
stato un particolare clima storico (ben colto da Max Weber nel suo Etica
protestante e lo spirito del capitalismo o da K. Polanyi, in La
grande trasformazione) costruito da una scia di pensatori del XVIII e
XIX secolo come Locke, Hume, Smith o Ricardo che hanno inventato la ricchezza e
la proprietà come frutto del lavoro. Non hanno considerato la mercificazione e
la disumanizzazione del quotidiano che oggi abbiamo davanti agli occhi, già
denunciata magistralmente da Simone Weil o Hannah Arendt. Si tratta di un
paradigma molto strutturato: la Repubblica Italiana, per esempio, è stata
fondata sul lavoro (art.1 Costituzione). Però – sottolinea Latouche – “il
lavoro, come l’economia, sono invenzioni della modernità” (p.3) e possiamo,
come abbiamo già fatto, vivere senza di loro. La decrescita ha proprio questo
scopo: quello di un cambiamento radicale di paradigma, e se consideriamo che
questa rivoluzione culturale ha solo vent’anni, possiamo essere ottimisti sul
suo futuro. Intervenendo in tale maniera anche nel dibattito sulla decrescita a
livello spagnolo, inglese, italiano, francese e generalmente internazionale, il
fondatore chiarisce senza ombra di dubbio che la decrescita consiste niente
meno che nell’uscire dall’economia moderna cioè, dall’abbandonare la religione
della crescita che costituisce il suo principio essenziale.
L’esperienza della pandemia Covid ha mostrato d’altronde che si può
sopravvivere senza un consumo eccessivo oppure che ci si può battere per
un’idea diversa di lavoro e per una sua migliore qualità. Se i maggiori critici
dell’economia moderna, come Karl Marx, sono rimasti chiusi all’interno
dell’ideologia dello sviluppo, i padri della decrescita come Ivan Illich, Andrè
Gorz o Jean Baurdrillard, hanno condotto una critica serrata al produttivismo
ed è a loro dobbiamo riferirci oggi se vogliamo uscire dalle contraddizioni del
mondo attuale, per prima quella del collasso climatico. D’altronde, sottolinea
Latouche, “non si risolverà il problema sociale senza far fronte alla crisi
ecologica” e viceversa, mentre “la vera ecologia è punitiva solo
per il capitale e i suoi rappresentanti, per le imprese multinazionali, il
Gafam o i fondi pensioni” (p. 22).
Per realizzare una vera transizione ecologica attraverso la società della
decrescita, occorre avviare tre misure principali: la rilocalizzazione
sistemica delle attività utili già in atto tramite i i fenomeni dei
neo-agricoltori, neo-rurali, neo-artigiani; una riconversione progressiva delle
attività parassitarie come la pubblicità o nocive come il nucleare e
l’industria delle armi; e una riduzione programmata e significativa del tempo
di lavoro. Il socialismo ecologico e democratico si può realizzare solo attraverso
il localismo, come già sapevano Aristotele, Gandhi oppure Leopold Kohr o Murray
Bookchin (p.29). Riconvertire le attività produttive come l’agricoltura
industriale (fonte di cancro, intossicazioni e inquinamento) in agricoltura biologica
e di prossimità è un passo fondamentale per una vita sana e conviviale. Mentre
la riconversione della pubblicità permetterebbe di uscire da quella vendita dei
desideri che è il vero motore del consumismo, con l’eliminazione di bisogni
inutili (turismo, moda, trasporti, industria automobilistica, aereonautica,
dell’agribusiness, delle biotecnologie). Per ridurre infine il tempo di lavoro,
occorre, in una fase intermedia, imbrigliare l’economia attuale ed eliminare
due tabù (protezionismo e inflazione). Per Latouche per vivere meglio occorre
fare meglio con meno, eliminando le fonti di spreco (gli imballaggi a perdere,
il cattivo isolamento termico, la preminenza dei trasporti su strada) e
aumentare la durata dei prodotti. Ciò che è essenziale è però ripensare la
natura del lavoro che è consustanziale con l’Occidente moderno e ai suoi miti:
razionalità e calcolo economico, culto dei risultati, individualismo e
soprattutto la concezione meccanica e artificiale del tempo a cui Latouche
dedica una acutissima riflessione (p.57 e 84). Se non lo facciamo, si andrà
verso la catastrofe sociale ed ecologica, già in agguato (p. 46).
Nell’ultimo capitolo, l’economista francese chiarisce che il progetto della
decrescita prevede un ulteriore passo: l’abolizione del lavoro. Questa può
realizzarsi solo con la scomparsa della sua specificità servile e la
fuoriuscita dall’economia. Al contrario, la scomparsa del lavoro come
effetto del progresso tecnologico (autonomazione/robotizzazione/AI) viene da
lui considerata un mero mito e ridicoli appaiono i grandi maghi come J.Rifkin
con la sua fede tecno-scientista per cui si salveranno contemporaneamente il
capitalismo, il socialismo e il pianeta (p. 72). Il lavoro smart da casa, le
innovazioni digitali di Uber, Airbnb e Deliveroo fomentano la
strumentalizzazione lavorativa più scandalosa che ricade nel pantano del mondo-
merce. “Quello che viene definito il management senza contatto diventa
totale e completa sottomissione agli algoritmi” […]. Anzi, “le nuove tecnologie
offrono al capitalismo nuovi mezzi per rafforzare il proprio dominio sui
lavoratori, evocando contemporaneamente la minaccia della loro inutilità”
(p.73).
Come le altre rivoluzione tecnologiche che si sono succedute a partire dal
XVIII secolo e che sono fallite nella promessa di liberarci dal lavoro, anche
la cosiddetta “quarta rivoluzione” decantata dai guru del transumanesimo, non
produrrà alcun miglioramento, piuttosto “una dittatura degli algoritmi”(p.78).
Latouche è del tutto negativo sull’utopia digitale che non fa che proseguire il
medesimo paradigma che ha creato il lavoro salariato e gli enormi problemi
attuali.
Il lavoratore infatti è colui che accetta una attività subita, che si
spossessa delle proprie capacità manuali ed intellettuali per immetterle in un
progetto che appartiene ad altri. Non ci può essere uscita dal
capitalismo senza abolizione del lavoro salariato o anche dalla nozione stessa
di lavoro (J.Baschet, p.65). Non è affetto un caso che i lavori
attuali siano Bullshit jobs perché comunque privi di senso.
Ciò che il progetto della decrescita chiede è immaginare e realizzare una
uscita della società del lavoro verso una società in cui le attività senza fine
economico, pubbliche e private, sociali e personali, saranno prevalenti
(p.77.). Non si tratta come alcuni detrattori insinuano di tornare a un mitico
passato perduto, ma di “inventare una tradizione rinnovata” (p.78). In questo
contesto, vorrei aggiungere, le relazioni empatiche tra uomini e tra uomini e
natura, devono tornare centrali. Il ruolo del femminile, invece che spronato alla
rincorsa della competizione lavorativa e appiattito sul modello maschile –
attualmente esaltato con l’ossessione sulla questione del genere – deve
acquisire un valore primario. Come stanno dimostrando infatti i fondamentali
lavori nel campo della psichiatria e delle neuroscienze (Bowlby, Winnicott,
McGilChrist), le relazioni affettive e ”la base sicura” nel rapporto
genitoriale sono le condizioni indispensabili (ancor più del cibo) per la
sopravvivenza del bambino e quindi per lo sviluppo sano ed equilibrato delle
persone e della società. Solo il recupero della cura, dell’ascolto,
dell’affetto e dell’intuizione tipiche dell’emisfero celebrale destro-femminile
possono condurci alla “piena realizzazione armonica dell’umanità” all’interno
dell’ecosfera, che è l’obiettivo di fondo dell’ecosocialismo e del progetto
della decrescita.
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