Il compito pedagogico desidera essenzialmente assicurare alla persona le condizioni del suo fiorire, e mira a creare il terreno culturale e umano più adeguato affinché queste proprietà fondamentali e costitutive della persona si sviluppino pienamente.
Lo sguardo fenomenologico osserva l’essere umano come
soggettività psichica e individualità che si realizza nella libertà,
nell’autonomia e nella responsabilità, ed è in grado di cogliere quegli aspetti
non quantificabili che pure hanno un senso fondamentale nell’esperienza
educativa (Husserl, Merleau-Ponty). Il compito della
fenomenologia in campo pedagogico, pertanto, è quello
di stabilire come la persona diventi tale, più che ricercare che
cosa sia una persona.
Come scriveva Edith Stein, “la pedagogia deve re-imparare a cogliere le
cose stesse abbandonandosi ad esse”. Il primo gesto educativo non
consiste quindi tanto nel dire o fare qualcosa, bensì nel guardare e
nell’ascoltare l’esperienza. È costitutivo del nucleo teorico della
fenomenologia questo atteggiamento del “lasciar vedere” e del “lasciar
emergere” il fenomeno, anziché ricondurlo a qualcosa d’altro. La fenomenologia
intesa come attitudine educativa allena dunque la sensibilità della persona a
significare e ri-significare la propria esperienza. Osservare è il primo grande
atto educativo. Lo sguardo presuppone che si aprano intenzionalmente
gli occhi per vedere. E per farlo è necessario “trovarsi in presenza”
dell’altro, assaporarne i contorni, le diversità, le sfumature.
«Osservare – scrive Pierre Durrande – non è un atto di
voyeurismo. Si entra in punta di piedi alla porta dell’Altro, occorre bussare
alla sua porta. E se il nostro è uno sguardo appassionato, è probabile che
l’Altro apra la porta e si lasci incontrare».
Oggi siamo molto condizionati dal desiderio di tenere sotto controllo le
persone e le cose, al punto di vedere di fatto nell’altro solo le immagini che
captiamo o proiettiamo. Certo è molto arduo esercitare un lavoro “di
sgombero” che permetta all’altro di esistere, mostrandosi nella propria
coloritura personale. Tuttavia è dentro questo esercizio di consapevolezza che
si gioca la qualità del legame educativo. Uno sguardo libero sull’altro
è uno sguardo vero. Non sarà spontaneamente uno sguardo “nuovo”, nel senso che
si porterà con se le rappresentazioni che noi ci facciamo dell’altro, ma su
questo è possibile lavorare e crescere, accettando di volta in volta il rischio
di abitare la relazione.
In questo approccio educativo il campo della relazione è fondamentale. Non
c’è un dispositivo esterno da sovrapporre alla realtà della persona, ma
ciascuna persona, proprio grazie alla relazione, è in grado di sviluppare un
suo “dispositivo” interno e autonomo attraverso il quale può orientarsi e
camminare nel mondo. Come scriveva la Stein, ”il dovere ultimo dell’attività
educativa (ed anche il limite oltre il quale non può spingersi) è proprio
quello di condurre il soggetto all’autoeducazione e all’autoformazione“. Nel
lavoro educativo ogni persona infatti è un intero in costruzione che esige di
essere riconosciuto e accolto nella sua fisionomia essenziale. L’intenzionalità
pedagogica consiste proprio nello sviluppare un approccio educativo idoneo a
rendere conto di questa unicità.
Ciascuno di noi è certamente il risultato dei condizionamenti interni ed
esterni che ci hanno coinvolto e che tutt’oggi ci formano, ma accanto ad essi
gioca un ruolo fondamentale la nostra capacità di autodeterminarci liberamente.
Nella prospettiva fenomenologica l’educatore va oltre la cura per
cedere il passo alla responsabilità autoformativa dell’Altro. L’educatore è
colui che aiuta l’Altro – in questo viaggio, a diventare protagonista della
propria avventura esistenziale e formativa.
Nella scuola per esempio uno sguardo fenomenologico è contrario al modello
frontale di educazione, dove il docente “trasferisce” nella mente del discente
il suo sapere superiore secondo un ordine “a senso unico“, culturalmente e socialmente
basato sul vassallaggio. Adottare uno sguardo fenomenologico in educazione
significa osservare la classe come una comunità di persone che sia in grado di
diventare nel tempo responsabile della propria autoformazione. Lavorare come
insegnante quindi, per uscire dal ruolo del docente-capo di una struttura
classe univocamente dipendente, è un ‘obiettivo pedagogico che diventa anche un
ottimo antidoto contro l’omologazione crescente. Certo occorre tempo,
dedizione, cura, fatica.
«C’è sempre un “di più” da conoscere, c’è sempre da amare di più, perché
l’attesa della speranza non ha limiti (Pierre Durrande, “L’arte di
educare alla vita”)».
Assumersi l’incarico di educare in una prospettiva fenomenologica è aiutare
l’altro ad assaporare la propria intenzionalità esistenziale, orientarlo nella
scoperta di sé all’interno di un costante dialogo intersoggettivo con le “cose
del mondo”. Perché questo accada, occorre uno sguardo sull’altro che sia capace di
ospitare i simboli, le immagini, i sogni, inclusi i dubbi, le contraddizioni, i
dilemmi e i conflitti che lo attraversano. Occorre rinunciare a una
visione totalizzante e chiarificatrice scandita da tempistiche veloci e serrate,
in favore di una messa a fuoco più graduale, di uno sguardo più diffuso,
partecipativo – a tratti direi quasi onirico – sulla nostra quotidiana
esperienza di alterità.
«Forse vale la pena – suggerisce Paolo Mottana in “Miti
d’oggi nell’educazione e opportune contromisure” – commisurare
i nostri passi al mistero di ciò che ci circonda, affinare la nostra
sensibilità, migliorare lo stile dell’accoglienza e della riconoscenza,
ricostruire una graduale devozione verso l’apparire delle cose».
Grazie.
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