intervista a Franco Correggia (di Fabio Balocco)
La persona
che conosco con maggiori competenze in campo ambientale e naturalistico non è
né uno zoologo né un botanico in senso stretto: è un biologo molecolare e un
consulente scientifico. Eppure Franco Correggia ha una conoscenza strabiliante,
specie per le piante, e quando ne trovo una che non conosco ecco che la fotografo
e gliela invio chiedendogli lumi. Ma Franco non è solo un conoscitore, è anche
persona di grande sensibilità, e per questo ci ritroviamo spesso sullo stesso
fronte.
Franco,
quando e come è nata la tua passione per la natura e le piante in particolare?
È un tratto
saliente della mia vita, che si è manifestato sin dalla primissima infanzia. La
sua matrice fondamentale è da ricercarsi nella frequentazione stretta e
continuativa, fin dalla mia nascita, di un angolo della campagna collinare
astigiana (le alture e le valli di Mondonio, un microscopico borgo arroccato
nascosto tra i boschi). Tale rapporto è stato uno degli assi portanti del mio
percorso personale, un’invariante assiomatica non modificabile. Ho trascorso le
prime decadi della mia vita in un mondo contadino fortemente interfacciato con
la natura vivente, che era molto più vicino ai paesaggi fisici e simbolici del
villaggio medievale piuttosto che agli umori, ai ritmi e agli stilemi della
società tecnoindustriale di oggi. Il legame empatico e sintonico con quei
luoghi, e con il loro affresco di sapori, colori, profumi, geometrie, luci,
ombre, echi, silenzi, boschi, anfratti segreti e manifestazioni viventi, è
stato il terreno di coltura e il microcosmo creativo che hanno modellato in
profondità la mia esistenza. Poi si è aggiunta la formazione e l’attività di
ricerca in campo biologico, ma la mia inclinazione a conoscere e decodificare
l’infinita varietà e la multiforme complessità dell’universo vivente trova la
sua genesi e ha come stella polare l’esperienza intensa e aurorale dei miei
primi anni di vita in quel mondo rurale scomparso.
Tu non ti
limiti alla conoscenza, ma operi anche nel campo della divulgazione, specie
quella del territorio dove abiti, l’Alto Astigiano. Tra le tante tue iniziative
ne ricordo una: la tutela dell’Alneto di Santonco.
Sì, questo
impegno a scala locale per la conservazione di ecosistemi ricchi di
biodiversità è stata una costante della mia vita. Con l’aiuto di una piccola e
artigianale associazione locale dal nome lungo e prolisso ma eloquente (Terra,
Boschi, Gente e Memorie), a cui si è aggiunto in tempi recenti il cruciale
sostegno di Pro Natura, di Legambiente, dei Custodi dei Boschi e di alcune
amministrazioni comunali locali, siamo riusciti a mettere al sicuro, nel Nordovest
Astigiano, una rete modulare diffusa e interconnessa di elementi ecosistemici
di alto pregio ambientale e paesaggistico, che beneficia di rigorose misure di
conservazione integrale. Senza impiegare un euro di denaro pubblico, ma
ricorrendo solo alle risorse private e personali provenienti dalle donazioni
volontarie di chi si riconosceva nel nostro orizzonte di valori biofilici,
abbiamo realizzato, in un ampio arco di anni, un sistema integrato di microaree
protette, che consiste di un mosaico di microambienti e biotopi ad oggi formato
da 15 siti di alto valore naturalistico e soggetti a protezione assoluta. A
tutt’oggi, si tratta dell’unica quota di territorio nord-astigiano soggetta a
protezione totale per motivi naturalistici. Il nostro obiettivo è quello di
arrivare per la fine del 2024 ai 100 ettari di superficie boschiva protetta. Il
fiore all’occhiello di questo sistema di ambienti tutelati è senz’altro
l’alneto impaludato di Lago Freddo (ubicato nella regione Santonco del Comune
di Piovà Massaia), un fitto bosco igrofilo naturale insediato su terreni con
falda freatica affiorante e costituito quasi esclusivamente da ontani neri. Si
tratta di un luogo che addensa elevati contenuti di biodiversità vegetale e
animale, che esprime una straordinaria bellezza vivente, che identifica in base
alle direttive europee un habitat di interesse prioritario,
che costituisce un prezioso frammento relitto di ambiente primario (dunque non
trasformato dalle attività umane) e che oggi per il Piemonte rappresenta un biotopo
forestale di notevole rarità (nella nostra regione gli alneti di ontano nero
costituiscono lo 0,4% dell’intera superficie boscata e sono soggetti a una
continua contrazione).
Concordi sul
fatto che siamo dentro l’Antropocene?
Non c’è
dubbio. Siamo senz’altro gli architetti, i demiurghi e i dominatori dell’epoca
geologica in cui viviamo. Il punto critico però è rappresentato dal
trascurabile particolare che ci siamo fregiati di questo privilegio attraverso
la nostra transizione da Homo sapiens a Homo technoeconomicus (trasformazione
innescata dalla rivoluzione industriale e completata dalla rivoluzione
digitale), riconfigurando in un lampo le intelaiature portanti e strutturali
della biosfera. Cioè lo abbiamo fatto sfiancando e corrodendo il firmamento di
relazioni intrecciate della natura vivente, modificando il clima, cambiando la
composizione gassosa dell’atmosfera, perturbando i cicli biogeochimici
fondamentali, alterando il ciclo dell’acqua e causando l’ecatombe della
biodiversità. Lo abbiamo fatto avvelenando la terra, acidificando gli oceani,
dilatando i deserti, cancellando le foreste, inquinando e impoverendo i suoli,
deviando i fiumi, svuotando i mari e stravolgendo l’aspetto dei continenti. Lo
abbiamo fatto espandendo a dismisura la nostra impronta ecologica e scatenando
la nostra tendenza ossessivo-compulsiva ad aumentare di continuo l’input di
energia, materie prime, risorse minerarie, acqua, territori, foreste, mari,
specie viventi e sistemi naturali nei processi economico-produttivi. Lo abbiamo
fatto violando e oltrepassando senza ritegno i planetary boundaries che
definiscono i margini intrinseci di sicurezza relativi alla nostra collocazione
nella biosfera. Lo abbiamo fatto operando una sorta di tabula rasa della
varietà bioecologica e compiendo un impressionante ground zero sulla
grande costruzione reticolare della vita. Lo abbiamo fatto diventando l’agente
della transizione biotica nota come sesta estinzione di massa.
A ottobre è
iniziata la caccia. E a livello parlamentare ancora una volta si cerca di fare
dei regali ai cacciatori. Nonostante si parli tanto di transizione ecologica.
Questo è
davvero un inquietante paradosso. Ed è un modo insopportabile di prendersi
gioco, in modo corrivo e insincero, dei concetti di sostenibilità e transizione
ecologica. Basta aggiungere il prefisso eco- o bio- oppure applicare
l’aggettivo green a qualunque nefandezza per farla diventare
un’operazione meritoria, razionale e politicamente corretta. Il caso della
ulteriore liberalizzazione e deregolamentazione della caccia è emblematico.
Ora, il punto di partenza su cui articolare il ragionamento è il seguente. Ci
svegliamo ogni mattina sulla superficie di un pianeta vicino al collasso e
ormai alle corde. In questo scenario allarmante e per molti versi apocalittico,
ogni persona e tutte le articolazioni della società dovrebbero lavorare ventre
a terra per invertire in modo netto e radicale la rotta, per uscire dalla
logica del business as usual e per interrompere la deriva
necrofila, biocida e antibiologica che ci porta ogni giorno a fare scempio
della sfera verdazzurra che costituisce la nostra casa comune condivisa. E
invece, niente di tutto ciò. Anzi, avviene esattamente il contrario simmetrico.
A livello nazionale e regionale si procede allegramente e irresponsabilmente in
direzione opposta: facilitazioni all’attività venatoria (caccia sempre, giorno
e notte, ovunque, con ogni tipo di arma, con proiettili di piombo, con un
ventaglio sempre più ampio di prede ammissibili e con una progressiva riduzione
del controllo scientifico sugli effetti ambientali). Ma non solo: attacco al
patrimonio forestale, con incentivazione dell’uso meramente
economico-produttivo dei boschi; progressivo smantellamento e depotenziamento
dei parchi e delle riserve naturali; allargamento delle maglie che regolano
l’utilizzo della chimica di sintesi in agricoltura, con autorizzazione
disinvolta all’impiego diffuso di anticrittogamici, insetticidi, diserbanti e
fertilizzanti chimici; gestione scriteriata della risorsa acqua, con eccessi di
captazione, sprechi e inquinamento. E potremmo continuare a lungo. Insomma, da
farsi cadere le braccia… Del resto, a livello internazionale non va meglio.
Coloro che stringono tra le mani il destino del mondo, le élites e
le caste politico-economiche che reggono le sorti delle nostre vite, dovrebbero
essere impegnati h24 a curare e risanare questo nostro pianeta malato e
sofferente. E invece cosa fanno le espressioni dell’alta politica, quelli che
hanno accesso alla stanza dei bottoni, le oligarchie che custodiscono gli arcana
imperii, i potenti della Terra? Qualcosa di davvero geniale: hanno
incendiato il pianeta con una sequenza devastante di guerre diffuse,
sanguinarie e pericolosissime, che configurano perfino l’ipotesi di un
possibile olocausto termonucleare come potenziale esito finale. A fronte di
questo spettacolo desolante, non mi pare illegittimo o illogico pensare che la
nostra specie egemone, nella sua attuale versione tecnomorfa e biocida, sia
finita nel labirinto oscuro di un’incontrollabile deriva psicotica.
Tu credi che
la sensibilità ambientale nella gente stia aumentando?
Si tratta di
una domanda complessa e difficile, che implica risposte diverse a seconda
dell’angolo visuale che si adotta. Non vi è alcun dubbio che la sensibilità e
l’empatia verso la natura vivente, nonché la consapevolezza dell’importanza
strategica dei suoi equilibri, della sua interconnessione, dei suoi flussi e
della sua integrità, siano aumentate esponenzialmente negli ultimi decenni. Ma
a questa positiva crescita del sentire comune non corrispondono gesti concreti,
azioni politiche e progettualità sociali finalizzate ad arginare in maniera
efficace il disastro ambientale e la crisi ecologica globale. Credo che ciò
dipenda dal fatto che le persone sensibili a questo tipo di istanze (a mio
avviso numericamente prevalenti nella società generale) sono motivate “solo” da
ragioni di carattere ideale, razionale ed etico. Pertanto, la loro capacità di
incidere in modo significativo e profondo nelle scelte cruciali e strategiche
che disegnano il futuro del mondo è limitata e intermittente. Al contrario, la
forza motrice che guida l’economia, la politica e i burattinai che muovono i
fili della commedia umana non è il bene collettivo, ma esclusivamente la logica
cinica del profitto, del tornaconto personale, della convenienza immediata e
del più vieto utilitarismo individuale. È evidente che ciò conferisce agli
attori che oggi governano il pianeta il soverchiante, seppur effimero, potere
di determinarne d’imperio il destino a breve termine.
Un’ultima
domanda, forse la più importante: le piante hanno intelligenza? e si parlano?
Sulla base
di una messe di studi e ricerche scientifiche recenti, la risposta a questa
domanda non può che essere decisamente affermativa. Le radici delle piante
esprimono un numero esorbitante di apici meristematici radicali (un ciuffo
d’erba ne possiede molte migliaia, un grande albero centinaia di milioni o
anche un miliardo), che guidano la crescita dell’organismo vegetale sottoterra,
esplorano il suolo alla ricerca di acqua, ossigeno e sostanze nutritive,
aggirano gli ostacoli fisici, eludono competitori ostili e parassiti. Ognuno di
essi è un sensore fine e complesso in grado di captare e registrare un grande
numero di parametri (luce, temperatura, pressione, gravità, umidità, gradienti
chimici, sostanze minerali, nutrienti, campi elettromagnetici, ossigeno,
anidride carbonica, vibrazioni sonore ecc.). L’apice misura tali parametri, li
confronta, li bilancia, li soppesa, li integra, ne fa una media ponderata e
orienta la radice in modo da ottimizzare il benessere della pianta nel suo
complesso. Ognuno di questi centri di elaborazione dati può collegarsi
potenzialmente con i milioni di altri apici radicali presenti nell’apparato
radicale della pianta madre o con quelli degli altri organismi vegetali
presenti nel suo spazio vitale. Inoltre, questa trama ipogea di sistemi
radicali è in grado di stabilire un’interconnessione chimico-fisica multipolare
e simbiotica con i miceli fungini e con le cenosi microbiche del suolo,
generando nella rizosfera una rete cognitiva collettiva (l’ormai ben noto Wood
Wide Web), coordinata e interdipendente, che esibisce, come proprietà
emergente, una forma di intelligenza multidistribuita e delocalizzata globale.
Si tratta di un’intelligenza profondamente diversa dalla nostra,
un’intelligenza di sciame diffusa (swarm intelligence), multicentrica e
adattativa, messa progressivamente a punto in centinaia di milioni di anni, che
rappresenta un elemento prioritario del loro successo evolutivo e che ha
modellato in profondità l’intero mondo vivente. È un’intelligenza coloniale,
per noi spesso imperscrutabile e indecifrabile, non dissimile da quella che
caratterizza le società di insetti eusociali, le colonie simbiotiche dei
celenterati costruttori formanti le barriere coralline, i banchi sincronizzati
di pesci, gli stormi organizzati di uccelli, i branchi di lupi. O da quella che
emerge dalla semiosfera telematica integrata originata dalla rete digitale
planetaria che chiamiamo Internet. Attraverso questa peculiare forma di
intelligenza diffusa, le piante comunicano e si scambiano un’elevata quantità
di informazioni, inerenti le caratteristiche dell’ambiente esterno, l’attività
degli insetti impollinatori, la collocazione topografica delle chiome, la
prossimità genetica tra individui vicini, la presenza di parassiti, aggressori,
sostanze tossiche e condizioni avverse. Insomma, le piante sono intelligenti e
comunicano. Anche se noi spesso siamo incapaci di coglierlo e, tristemente, non
ce ne rendiamo conto.
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