Da anni gli ingressi sono gestiti da società private. Le rivendite non autorizzate e la gestione delle concessioni spingono per soluzioni diverse. Il Pnrr ha messo sul piatto milioni per una nuova piattaforma. I dubbi però restano su cosa potrà davvero migliorare
A Roma, ogni mattina, in qualsiasi stagione, centinaia di turisti fanno la
fila per comprare un biglietto per il Parco Archeologico del Colosseo. Il
rituale, dopo la parentesi della pandemia, ha ripreso a maggio 2023, quando ha
riaperto anche la biglietteria fisica. Trovare un titolo d’ingresso è quasi
impossibile: anche le prevendite online si esauriscono già un mese prima della
data prevista per la visita. A comprare gran parte dei tagliandi sono
speculatori che li rivendono a prezzi maggiorati. Ci sono i classici bagarini,
ma persino piattaforme online che sparano prezzi alle stelle almeno da novembre
2022, aggiungendo al singolo biglietto altri servizi “imposti”: dall’audioguida
al “saltafila”, dal prelievo in albergo fino al giro turistico della città. La
discrepanza dai prezzi nominali è enorme: dai 16 euro più due di prevendita,
previsti per l’ingresso, si passa ai 68 euro per una visita guidata esposti da
una delle piattaforme il 28 aprile 2023.
Dalla metà del 2022 in alcuni siti archeologici, Colosseo compreso, sono
stati introdotti dei biglietti nominali, ma per ora la soluzione non è
sufficiente, secondo quanto denuncia l’Associazione guide turistiche abilitate
(Agta): «I biglietti nominativi da soli non potranno risolvere la situazione,
perché il problema vero è che la domanda supera l’offerta», scrive
l’associazione in una nota del 18 ottobre.
Con l’arrivo dei 4,28 miliardi destinati alla cultura all’interno del Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), i governi prima Draghi e poi Meloni
vorrebbero mettere un freno a ogni forma di bagarinaggio attraverso 32 milioni
di euro previsti per la digitalizzazione della cultura da investire in un
progetto che comprende una piattaforma per semplificare l’acquisto e la
prenotazione dei biglietti per i visitatori. Il problema però è che oltre agli
abusivi c’è un sistema di gestione delle attività museali, che ormai da
trent’anni ha costituito un oligopolio.
Con la legge del 1993 firmata da Alberto Ronchey, all’epoca ministro della
Cultura, sono stati infatti affidati a enti gestori privati i servizi
aggiuntivi dei musei, inclusa la vendita dei biglietti. Società che adesso
difficilmente si faranno da parte. Di questo gruppo di società si parla già in
una relazione del 2005 della Corte dei Conti, relativa alla «gestione sui
servizi d’assistenza culturale e d’ospitalità per il pubblico negli istituti e
luoghi di cultura dello Stato»: «Solo otto società concessionarie gestiscono
oltre il 90% dei servizi nei musei, delle quali una soltanto è presente in ben
24, con ricavi che si avvicinano al 24% degli introiti totali», si legge nella
relazione.
LE SOCIETÀ CHE GESTISCONO I MUSEI ITALIANI
Nel 2013 e nel 2014 la Corte dei Conti si è espressa per segnalare proprio
l’aumento del costo dei biglietti del Colosseo, con la ripartizione degli
introiti tra pubblico e privato completamente sbilanciata verso quest’ultimo:
30,2% al primo e 69,8% al secondo. Nel 2014 la Corte ha segnalato le
irregolarità di ripartizioni in alcune mostre organizzate alla Galleria D’arte
Moderna di Roma e a Villa Adriana. I magistrati contabili hanno sottolineato
che «non sono rispettati i tetti percentuali di ripartizione tra amministrazione
e società concessionarie dei servizi di biglietteria delle entrate rivenienti
dalla vendita dei biglietti»…
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