La Terra ha bisogno di una conversione ecologica. La dobbiamo fare noi umani senza aspettare che proceda senza di noi: siamo noi i responsabili del suo degrado, perseguito contro il resto del vivente fin quasi alle estreme conseguenze.
Ma possiamo invertire questo trend avendo come alleati, in questo
cammino all’incontrario, tutto ciò che la vita spontaneamente produce. La
conversione ecologica è l’unica alternativa possibile alla guerra e
all’economia di guerra in cui stiamo precipitando (in realtà vi siamo già ben
dentro), cioè l’unica prospettiva che abbia come suo fine, ma anche come sua
condizione, la pace.
Lo vediamo bene da cittadini europei: la Comunità Europea era nata per
garantire la pace in Europa e nel mondo. Per anni ci hanno ripetuto che la
strada per fare dell’unione un’entità politica erano il mercato, lo sviluppo,
la convergenza economica. Si è verificato il contrario: l’unione politica non
ha fatto che allontanarsi.
Adesso pretendono che la strada giusta sia il riarmo, la creazione di una
forza armata europea. E’ un programma che subordina sempre più le scelte
dell’Unione Europea alla Nato, da molti considerate ormai quasi la stessa cosa.
Ciò sta trasformando l’UE in un’appendice del “complesso
militare-industriale” che governa a Washington e che ha nella guerra, nelle
guerre, la sua ragion d’essere; un’appendice in cui si conta tanto di più
quanto più ci si lega e subordina a esso, introducendo al suo interno nuove
divisioni, una nuova gerarchia, definita dal grado di “fedeltà” alle direttive
di chi comanda e, soprattutto, il tramonto della prospettiva della
riunificazione europea dall’Atlantico agli Urali.
La verità è che un’unione politica dell’Europa che faccia da battistrada a
una prospettiva simile in tutto il mondo non si può fare che sulla base di un
programma politico comune che oggi non c’è, perché il mercato, la competizione
e la guerra dividono.
Quel programma è la conversione ecologica presa sul serio: affidata ai
popoli, alle comunità locali e alle loro istituzioni federate da una
negoziazione fondata sulla replicabilità di ciò che si intraprende, da
sviluppare e aggiornare giorno per giorno. Di che cosa sia la conversione ecologica
si è persa, o non si è mai voluta acquisire, anche la cognizione: si sa che è
indispensabile e ineludibile: se non la si imbocca ci verrà imposta, a costi
immensamente maggiori, dal precipitare delle condizioni ambientali, in Europa e
in tutto il mondo.
Ma è lei a fornire il criterio normativo che permette a ogni persona
informata, perché inserita in un contesto di condivisione, di esprimere dei sì
e dei no: di capire che cosa va fatto e che cosa va bloccato. Va deciso
e fatto tutto ciò che ci fa avanzare lungo la strada della conversione
ecologica; va respinto e bloccato tutto ciò che ce ne allontana.
Questo criterio, così banale, è sufficiente a smascherare l’enorme equivoco
del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), la traduzione italiana
del programma NextgenarationEu varato per “mettere in
sicurezza” le prossime generazioni. Ma che cosa ne è venuto fuori?
Troppi soldi, dicono ora alcuni; non si sa come spenderli. Vero, ci
volevano delle linee guida coerenti e stringenti, mentre l’UE ha levato gli
unici due paletti che erano stati posti: quelli contro il gas e il nucleare.
Investimenti nocivi per l’ambiente e per la vita, ma anche “a perdere”,
dovranno essere sospesi prima ancora di arrivare a compimento, come molte altre
“opere” messe in cantiere con il Pnrr. Troppo in fretta, aggiungono altri:
nessuno ha un’economia così efficiente da portare a termine progetti così
importanti in così poco tempo.
E il coinvolgimento dei destinatari richiede tempo, soprattutto
quando il terreno non è stato preparato. Per questo una quota prioritaria dei
fondi doveva essere destinata a un grande dibattito pubblico, articolato
territorio per territorio e settore per settore, che non c’è mai stato e senza
il quale i progetti sono destinati al fallimento fin dalla loro concezione.
Troppa confusione tra investimenti e spesa corrente, sostiene qualcuno: una
scemenza. Gli investimenti senza spesa corrente per farli funzionare, per la
manutenzione, per utilizzarli – case di comunità o della salute senza medici e infermieri,
asili senza educatrici, informatica senza formazione permanente e revisione
delle procedure, ferrovie e autostrade senza utenza, gallerie e ponti (quali?)
senza collegamenti, impianti di risalita senza neve, dissalatori e bacini con
una rete che disperde metà dell’acqua – sono fondi persi e il Pnrr è fatto
quasi soltanto di queste cose.
Non basta chiamare mobilità sostenibile una nuova autostrada per
trasformarla in un presidio contro il cambiamento climatico! Ma Draghi, che da
buon banchiere ha in mente solo i conti finanziari, ben sapendo quanto è
difficile spendere, ci ha messo dentro tutto quello che, secondo lui, si poteva
fare in fretta (e furia).
Ma che cosa c’entrano gli stadi – per esempio, e mille altri
“giocattoli” nelle mani di ministri e sindaci, giù giù fino alla
moltiplicazione delle rotatorie – con la messa in sicurezza delle future
generazioni? Tutto finanziato, per di più, a debito: o dell’Italia o
dell’UE. Non è forse un furto di futuro nei loro confronti? E poi li si reprime
se protestano…
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