Negli ultimi due anni è profondamente cambiato il clima del pianeta, ma pochi si chiedono cosa sta succedendo nei paesi del sud del mondo, dal Pakistan alla Nigeria, dal Corno d’Africa all’Amazzonia, dai Caraibi alle isole del Pacifico. Eppure oltre metà dell’umanità è duramente colpita da tempeste estreme e incendi, inondazioni e siccità, con meno capacità di difesa e senza mezzi per interventi di ricostruzione di grandi dimensioni. Si dimentica inoltre che da molti di questi paesi estraiamo materie prime preziose, prodotti agricoli essenziali per la nostra alimentazione, manodopera a bassisimo costo, ricollocando tutto ciò sui mercati del mondo industrializzato con grandi profitti.
E
intanto i pochi tentativi fatti a livello delle organizzazioni
internazionali (Onu, Fao, Unep, Banca Mondiale) si sono spesso dimostrati dei
palliativi assolutamente inadeguati. La situazione in quasi tutti
questi paesi si sta aggravando mentre i danni climatici si moltiplicano,
diventano più intensi e assumono dimensioni inarrestabili.
All’inizio
dell’estate un terzo del Pakistan è stato sommerso dalle acque
ed ha avuto danni per oltre 40 miliardi di dollari; la Nigeria dal
mese di luglio scorso ad oggi ha registrato oltre 600 vittime per incendi e
uragani e oltre un milione e trecentomila sfollati su una popolazione di 211
milioni; alla fine del mese di settembre due uragani, con venti a oltre 200
chilometri orari hanno devastato i Caraibi; in Amazzonia dal
primo al 30 settembre sono stati distrutti 1455 chilometri quadrati di foresta.
Inoltre la Tailandia ha deciso di trasferire la sua capitale
Giacarta, troppo spesso invasa dalle acque, in Borneo, a 2000
chilometri di distanza in linea d’aria. Gli esempi potrebbero essere
moltiplicati, ma come descrivere il peggioramento continuo delle
condizioni di vita nelle zone desertiche o nelle isole percorse sempre più dai
monsoni o cancellate dall’innalzamento delle acque del mare? Possiamo
continuare a dimenticare le migrazioni forzate verso il Nord America e i
continui tentativi di entrare in Europa sulla rotta balcanica o sui battelli di
fortuna attraverso il Mediterraneo?
Inoltre i
dati più recenti, 2020-2022, relativi ai principali fattori del cambiamento
climatico, ancora trascurati dai rapporti ufficiali delle principali
organizzazioni internazionali, evidenziano un salto qualitativo dei principali
fenomeni del clima e fanno emergere nuovi meccanismi sempre più dannosi per
l’ambiente e indicano chiaramente il progressivo acutizzarsi delle mutazioni.
Non si può più parlare solo del caldo in aumento o del moltiplicarsi degli
incendi, ma occorre approfondire cosa si cela nelle profondità marine o quali
mutazioni presenta il metano, ormai diventato il più pericoloso gas
serra. Sarebbe quindi opportuno rivedere prospettive a breve termine e tempi
ancora a disposizione per incidere sul disastro climatico.
E’ secondo
questa logica di maggiore urgenza che emerge in tutta la sua drammaticità
l’ennesimo tentativo di essere riconosciuti come interlocutori effettuato dalle
popolazioni del sud del mondo all’inizio del mese di novembre. La sede
prescelta è stata la recente Conferenza delle Parti, la numero 27, dell’IPCC,
che vedono riunirsi quasi duecento paesi ormai da parecchi anni, ma che si
erano interrotte a causa della pandemia.
A
partire dal dicembre 2015 in questa sede si è anche firmato un Patto di
collaborazione, l’Accordo di Parigi, che sulla carta indicava obiettivi
importanti e urgenti. E’ in questa sede che i popoli del sud, in particolare il
G77, il blocco di oltre cento Stati capeggiato dalla Cina, a due giorni
dall’inizio dei lavori, hanno imposto con durezza una modifica dei contenuti,
arrivando a far mettere sul tavolo il tema di un fondo per “le perdite e i
danni” (loss & damage) per fronteggiare i disastri nei paesi “più
vulnerabili e meno responsabili”.
Hanno anche
richiesto una lista di paesi “donatori” più ampia del blocco occidentale. A
questo tipo di richieste si era già provato a rispondere nelle Cop precedenti,
decidendo di far versare dai paesi più ricchi almeno 100 miliardi di dollari
all’anno, ma a questo livello non si è mai arrivati, (al massimo poco meno
di 84 miliardi di dollari), anche perchè paesi come gli Stati Uniti
avevano versato cifre irrisorie. Inoltre il documento finale rimanda ad un
“comitato di transizione” che entro il 2023 dovrà decidere quanto dovranno
pagare i singoli Stati.
Resta anche
imprecisato il ruolo della Cina, secondo paese inquinatore mondiale, ma anche
capofila dei paesi del sud del mondo che dovranno sostenere investimenti enormi
per la salvaguardia delle loro popolazioni. Sembra, inoltre, che non si sia giunti
a definire nemmeno una divisione molto significativa sulla destinazione di tali
fondi, tra le iniziative di mitigazione e quelle per l’adattamento. Sarà
necessario studiare a fondo il testo definitivo e le attività di attuazione
successive, per formulare un giudizio complessivo. Non si può infatti
dimenticare che sui documenti finali della COP 26 arrivarono 32.000 proposte di
modifica dai paesi partecipanti. Infine un dettaglio importante: alla Cop
27 hanno partecipato almeno 636 lobbisti delle industrie petrolifere e del gas,
che avranno fatto del loro meglio per influire su tutte le decisioni. Un record
rispetto alla Cop precedente: a Glasgow erano appena 503.
Sul merito,
la voce critica più autorevole è quella di Antonio Guterres, Segretario
Generale delle Nazioni Unite, che è intervenuto più volte, prima, durante e
dopo la Cop 27: “Ci stiamo avvicinando a un punto di non ritorno, con
impatti irreversibili, alcuni dei quali difficili persino da immaginare. Sul
clima i paesi ricchi devono firmare un “patto storico con le economia
emergenti, altrimenti non saremo in grado di cambiare questa situazione“. “Non
c’è modo di evitare una situazione catastrofica se il mondo sviluppato e quello
in via di sviluppo non sono in grado di stabilire un patto storico, perchè al
livello attuale, saremo condannati”. “Nessuna nazione è immune.
Eppure
continuiamo ad alimentare la nostra dipendenza dai combustibili fossili”. E a
giugno ha ripetuto:”I produttori e i finanziatori di combustibili fossili
prendono l’umanità per il collo. Per decenni, l’industria dei combustibili
fossili ha investito molto nella pseudoscienza e nelle pubbliche relazioni, con
una falsa narrativa per ridurre al minimo la loro responsabilità per il
cambiamento climatico e minare le politiche climatiche ambiziose”. Nel suo
discorso introduttivo della Cop 27 ha poi ribadito: “Il tempo scorre. Stiamo
lottando per le nostre vite e stiamo perdendo. Siamo su un’autostrada per
l’inferno climatico col piede sull’acceleratore. E’ inaccettabile, oltraggioso e
controproducente mettere il tema del cambiamento climatico in secondo piano. Parla
di un Patto di solidarietà climatica: “L’umanità deve scegliere: cooperare o
perire. Quindi o è un patto di solidarietà per il clima o un Patto di suicidio
collettivo”.
E poi ha
ricordato che “gli ultimi otto anni sono stati i più caldi mai registrati e
l’emergenza del clima sta già aumentando drasticamente l’entità dei disastri
naturali. Le attuali politiche climatiche condanneranno il mondo a un
disastroso aumento della temperatura di 2,8 gradi entro la fine del secolo”.
Infine, mi
permetto di formulare alcune valutazioni personali sul ruolo finora avuto
dall’IPCC e da tutte le Cop finora svoltesi. All’inizio, la notizia di
una sede internazionale che si occupasse esclusivamente del clima e in cui
fossero presenti tutti gli Stati esistenti, era stata accolta con molto
interesse, perchè sembrava una sede politica poco strutturata e certamente più
agile dei tradizionali organismi internazionali.
Anche il
Trattato di Parigi del 2015 era apparso all’inizio come un rilancio effettivo e
molto utile. Poi, piano piano, si è visto che le pastoie burocratiche erano
osservate con pignoleria, senza preoccuparsi molto dei tempi del disastro
climatico. Poi ci si è resi conto che non si assumevano mai decisioni
immediatamente operative e che scelte fondamentali potevano cadere facilmente
nel dimenticatoio. Inoltre, il rigido rispetto delle due categorie della
mitigazioni e degli adeguamenti permettevano in realtà di non affrontare mai
delle scelte di carattere strutturale del sistema economico dominante, quello
di tipo capitalistico, mentre sparivano quelli di tipo comunista e socialista
(tranne pochissime piccole eccezioni).
Infine,
mentre le analisi degli ambientalisti concentravano sempre più la loro
attenzione sulle ipotesi di sistemi economici alternativi in grado di
affrontare realmente le modifiche planetarie in corso, nella sede dell’IPCC si
delineavano sempre e soltanto prospettive di sostenibilità, cioè di soluzioni
di miglioramento marginale del sistema economico dominante, senza intaccarne in
alcun modo logiche di fondo e filosofie ispiratrici.
Mentre il
degrado e la trasformazione del pianeta stanno accelerando senza sosta, la sede
politica in esame sembra quindi costituire più un meccanismo di
moltiplicazione dei rischi che un qualche tentativo di affrontare la realtà
sempre più preoccupante delle trasformazioni in atto nel Pianeta Terra, causate
sempre di più dalle attività umane svolte ciecamente, senza limiti o controlli. Anche le recenti ipotesi di piani di
decarbonizzazione di cui si sta iniziando a parlare non si sottraggono alle
critiche fin qui formulate.
Nessun commento:
Posta un commento