Ennesimo grido d’allarme
sulla condizione della scuola in Sardegna. Giustificato o no, è un’occasione
per rilanciare un dibattito mai davvero partito, sempre eluso dalla politica,
dall’università e in larga misura dalla scuola stessa.
Il 14 novembre scorso, un articolo sull’Unione online titolava:
Una notizia alquanto sconvolgente, che sembra decretare una sorta di
minorità cognitiva diffusa tra le giovani generazioni sarde. Ma su cosa si basa
questo dato? Come spiega il direttore della Fondazione “Agnelli”, Andrea
Gavosto, è l’esito dei test INVALSI. Nello specifico, si parla delle competenze
logico-matematiche.
Già qui ci sarebbe da discutere sull’assertività del titolo e delle
dichiarazioni su cui si basa. I test INVALSI, benché ormai imposti e resi
ordinari in tutti i gradi di istruzione, sono tutt’altro che uno strumento
universalmente riconosciuto come valido per misurare la qualità della scuola e
di chi la fa (docenti e discenti).
Il dibattito in merito ha fatto emergere molte problematicità e una
giustificata diffidenza circa il senso e la portata di questo genere di prove
(un esempio lo si trova qui). Purtroppo i
decisori, a livello ministeriale e regionale, non hanno mai prestato alcuna
attenzione a tutto ciò.
I test INVALSI non possono essere considerati la fonte più attendibile per
misurare le capacità dei/delle discenti. Intanto andrebbe ridiscussa la loro
premessa: la pretesa di fondare una “scuola delle competenze”. Non sembra che
abbia funzionato. A dispetto dalla consueta retorica modernizzatrice dei vari
governi, ci ritroviamo una scuola sempre più distante dalla realtà concreta in
cui vivono le giovani generazioni, dalle loro forme di socializzazione e di
apprendimento spontaneo, dalle loro interazioni con i vari media di cui
dispongono. A cosa servono i test INVALSI in questa situazione?
Un altro loro grande limite è la pretesa di fornire una valutazione
astratta, da prendere in termini assoluti, valida e significativa per se
stessa. Ma rispetto a cosa viene fatta la valutazione, in nome di quali
obiettivi? Questione a cui si lega un altro problema dei test INVALSI (e
simili), ossia la pretesa di standardizzare ciò che non è affatto standard. Non
è standard l’insegnamento, a livello soggettivo, da insegnante a insegnante;
non sono standard le condizioni materiali delle diverse scuole; non è standard
e di sicuro nemmeno neutra la loro collocazione territoriale; non sono affatto
standard le condizioni personali, familiari, sociali, linguistiche di studenti
e studentesse.
Discorso tanto più valido in Sardegna, terra in cui la scuola risulta da
sempre un’istituzione in buona parte aliena, calata dall’esterno su una realtà
sociale e culturale la cui storia e le cui peculiarità sono state costantemente
e pesantemente espulse dai percorsi di istruzione. Terra in cui, in troppi
casi, è già un problema pratico *andare* a scuola. Tra dimensionamenti
scolastici calibrati su realtà demografiche e geografiche totalmente diverse e
trasporti pubblici deficitari, è significativo che la dispersione scolastica
nell’isola non sia molto più elevata di quel che è.
Ma di tutto questo non si tiene conto nelle considerazioni fatte a commento
dei dati su esposti.
Alla costernazione per questo risultato così penalizzante, nell’articolo
segue la fatidica domanda: che fare? Il pezzo va avanti così:
Da dove ripartire? Il salto di qualità in Italia non dipende dall’ammontare
degli investimenti: «Siamo allineati – ha chiarito il presidente della
Fondazione Agnelli – alla media dei Paesi Ocse. Ma utilizziamo male le
risorse. Investiamo poco sull’edilizia scolastica, anche se la Sardegna con
il progetto Iscol@ ha fatto importanti passi avanti, e sugli strumenti
didattici per il miglioramento del sistema della formazione. Bisogna pensare
poi alla formazione degli insegnanti e a un miglioramento del trattamento
economico degli stessi docenti. Senza trascurare l’estensione del tempo scuola
con attività sportive e laboratori dedicati al teatro»
Che l’Italia sia allineata alla media degli investimenti in istruzione dei
paesi OCSE è un dato che andrebbe dimostrato e chiarito, non solo affermato in
questo modo apodittico. Negli ultimi trent’anni la scuola pubblica in Italia è
stata depotenziata e privata costantemente di risorse e personale. Le varie
riforme succedutesi, da quella di Luigi Berlinguer in poi, non hanno fatto che
indebolire il “sistema” scuola.
La stessa “autonomia” scolastica si è rivelata un più problema che una
soluzione, contribuendo ad aziendalizzare gli istituti, sacrificando la
collegialità, imponendo una logica manageriale a un comparto che dovrebbe
esserne assolutamente esente, accentuando, anziché attenuare, le differenze
sociali e territoriali. Senza per altro valorizzare la figura della/del
docente, la cui misera retribuzione non è affatto cresciuta in modo adeguato
(anche qui vorrei vedere un raffronto con gli altri paesi OCSE), al cospetto di
un aumento del carico di lavoro, soprattutto burocratico.
I problemi generali della scuola pubblica italiana sono noti e più volte
esposti dal sindacalismo di categoria (specie di base) e da chi studia la
scuola sul piano pedagogico, sociologico e teorico. la politica non ne ha mai
tenuto conto.
Il direttore Gavosto sembra convinto che in Sardegna si sia davvero fatto
qualcosa di serio per cambiare in meglio le cose. Parla esplicitamente, in modo
positivo, del progetto Iscol@, varato sotto la giunta Pigliaru. Immagino che il
fatto di essere seduto a fianco di Adriana Di Liberto, docente universitaria a
Cagliari e consorte dello stesso Francesco Pigliaru, non abbia influito sul suo
giudizio.
Il progetto Iscol@, come troppi interventi in ambito scolastico in
Sardegna, è stata un’operazione superficiale e palliativa. Inserito nella
prospettiva aziendalista e culturalmente subalterna della giunta Pigliaru, ha
evitato accuratamente di incidere sui problemi strutturali della scuola sarda,
senza sconfessare in nulla le prescrizioni ministeriali e la logica dei tagli e
degli accorpamenti. Senza sfruttare affatto le competenze pure previste nello
statuto regionale in materia scolastica, né avviare una pianificazione
strategica, tarata sulle esigenze dell’isola. Ma non è che le giunte precedenti
e quella attuale abbiano fatto di meglio.
L’occasione in cui sono stati esposti i dati ricavati dai test INVALSI in
Sardegna era la presentazione di un libro dello stesso Gavosto. Partecipavano,
come si evince dall’articolo, sia l’università di Cagliari sia gli uffici
scolastici regionali. Nell’articolo non si dice se vi sia stato un dibattito e,
nel caso, cosa ne sia emerso.
La sensazione è che ogni volta che si parla di scuola in Sardegna, tanto la
politica, quanto i mass media preferiscano aggirare la questione o ricorrere a
diversivi e spostamenti di focus. I media di norma sottolineano preferibilmente
gli aspetti più sensazionalistici, concentrandosi soprattutto su dati parziali
e decontestualizzati, senza mai approfondirne le cause. Come se alla fin fine
il vero problema fosse che le giovani generazioni sarde, figlie di una genia
deficitaria di suo, siano più tonte delle altre, in Italia e in Europa.
Lo stesso retropensiero deresponsabilizzante mi sembra emergere anche dal
mondo accademico, da cui invece sarebbe lecito aspettarsi indagini e ricerche
serie e proposte conseguenti (ben al di là dei poco significativi rapporti
CRENOS), e prima di tutto una prospettiva di ragionamento più ampia e adeguata
rispetto alle poche-idee-ma-confuse della politica.
Ma è
soprattutto lo stesso mondo della scuola, in Sardegna, che deve decidersi a
fare un salto di qualità, senza attendere riforme calate dall’alto o soluzioni
magiche dalla politica regionale (da *questa* politica regionale soprattutto).
Qualche strumento c’è. Basti pensare al lavoro fatto dall’Istituto comprensivo
di Perfugas sul bilinguismo, sfruttando in modo virtuoso le possibilità offerte
dallo statuto regionale e dall’autonomia scolastica (se ne era parlato in questo convegno a Olmedo, nell’aprile scorso).
Ma il discorso è ancora più ampio e concerne una presa di coscienza decisiva
sul proprio ruolo e su ciò che rappresenta la scuola pubblica in Sardegna. In
questo senso, parlarne ancora e alimentare il dibattito è certamente
necessario.
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