Per noi che andiamo in bici tutti i giorni al lavoro andare all’altro mondo
è probabile. Fra l’impazienza delle auto, sopportati, derisi, mandati affanculo
come sfaccendati dai motori che ci inseguono, che ci montano sulle scarpe, che
in curva ci stringono, sotto un ponte, nelle pozzanghere, per tutti noi è morto
un altro compagno di strada, anzi due, è morto in questi giorni anche Manuel
Lorenzo Ntube, un ragazzo di sedici anni che giocava nelle giovanili del
Padova, e il suo compagno di pedali lo danno in gravissime condizioni.
Cosa penso quando sono in bici? Che l’automobilista non mi vuole e quindi
non mi vede, non mi vuole mai, mi detesta e anche quando va a comprare le
pastarelle la domenica mattina lui ha fretta. Ha fretta perché vede me che sono
la lentezza.
Ma attenzione: i governi, gli amministratori che non mettono leggi
a tutela dei ciclisti si macchiano di azioni criminali. Il metro e mezzo di
distanza ad esempio, l’assenza di larghe corsie di emergenza in cui pedalare,
la manutenzione delle strade che in Italia fanno schifo.
Ascoltate bene, venite a vedere: nei trenta centimetri di asfalto che
restano a noi ciclisti c’è di tutto, buche vetri, lattine, bulloni,
brecciolino, fango, tutti grossi pericoli da evitare con gesti di equilibrismo,
mentre, sul nostro lato sinistro, sfrecciano incuranti le automobili. Per noi
che andare in bici è anche la testimonianza quotidiana di uno stile di
vita, che un altro mondo è possibile.
La bicicletta è l’unico gioco dell’infanzia che ci portiamo nella vita
adulta, come a dire “mantieni viva la tua parte bambina” ed è anche una delle
poche occasioni intergenerazionali offerte dalla nostra società sempre più
confezionata in target. Una dimensione ludica che non ha età.
Il mondo che vorremmo per chi va in bici non è solo un prurito giovanile
vissuto negli anni di attesa del posto di lavoro, del mutuo per la casa, del
primo figlio e del primo divorzio. Si va in bici anche per determinare
una necessità, la necessità della tutela del più debole che dovrebbe essere la
priorità assoluta di ogni comunità. C’è chi va in bici per fare massa
critica, per ribadire un diritto.
La morte di un ciclista in strada è inaccettabile, se poi a morire è un
campione, muore un immaginario più racccontabile e forse la tragedia può far
pensare di più, ma solo qualche istante in più, poi più niente.
Provo rabbia quando i soliti politicamente corretti mettono in parallelo la
eventuale indisciplina del ciclista e la prepotenza istituzionale
dell’automobile. Che confronto impari! Sarebbe come dire che un umano ha
acciaccato una formica perché lei si è mossa sull’asfalto. No, le formiche
muoiono sotto suole semplicemente perché non è neppure previsto debbano vivere,
al massimo rompono i coglioni.
La storia di Rebellin, che avevo incrociato nei miei anni da inviato per il
ciclismo all’Unità è la leggenda di chi davvero ama la bici. È stato così longevo
da ciclista professionista da rimetterci la pelle appena quella pelle l’ha
cambiata, come potesse solo continuare in eterno a gareggiare, magari trovando
contratti in federazioni sempre più esotiche, magari retrocedendo negli ordini
di arrivo ogni anno di più. Dovevi continuare a presentarti a ogni punzonatura,
Davide, l’ordine d’arrivo per te non era più un problema. Raggiungere il
traguardo, tornare a casa, ripartire il giorno dopo era la tua garanzia. Davide
contro Golia. Tu contro i Golia in bici ce l’avevi sempre fatta. Contro un
Golia travestito da Camion non potevi. Non potremo. Maledetti.
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