domenica 11 dicembre 2022

Un altro mondo è probabile - Andrea Satta

 

Per noi che andiamo in bici tutti i giorni al lavoro andare all’altro mondo è probabile. Fra l’impazienza delle auto, sopportati, derisi, mandati affanculo come sfaccendati dai motori che ci inseguono, che ci montano sulle scarpe, che in curva ci stringono, sotto un ponte, nelle pozzanghere, per tutti noi è morto un altro compagno di strada, anzi due, è morto in questi giorni anche Manuel Lorenzo Ntube, un ragazzo di sedici anni che giocava nelle giovanili del Padova, e il suo compagno di pedali lo danno in gravissime condizioni.

Cosa penso quando sono in bici? Che l’automobilista non mi vuole e quindi non mi vede, non mi vuole mai, mi detesta e anche quando va a comprare le pastarelle la domenica mattina lui ha fretta. Ha fretta perché vede me che sono la lentezza.

Ma attenzione: i governi, gli amministratori che non mettono leggi a tutela dei ciclisti si macchiano di azioni criminali. Il metro e mezzo di distanza ad esempio, l’assenza di larghe corsie di emergenza in cui pedalare, la manutenzione delle strade che in Italia fanno schifo.

Ascoltate bene, venite a vedere: nei trenta centimetri di asfalto che restano a noi ciclisti c’è di tutto, buche vetri, lattine, bulloni, brecciolino, fango, tutti grossi pericoli da evitare con gesti di equilibrismo, mentre, sul nostro lato sinistro, sfrecciano incuranti le automobili. Per noi che andare in bici è anche la testimonianza quotidiana di uno stile di vita, che un altro mondo è possibile.

La bicicletta è l’unico gioco dell’infanzia che ci portiamo nella vita adulta, come a dire “mantieni viva la tua parte bambina” ed è anche una delle poche occasioni intergenerazionali offerte dalla nostra società sempre più confezionata in target. Una dimensione ludica che non ha età.

Il mondo che vorremmo per chi va in bici non è solo un prurito giovanile vissuto negli anni di attesa del posto di lavoro, del mutuo per la casa, del primo figlio e del primo divorzio. Si va in bici anche per determinare una necessità, la necessità della tutela del più debole che dovrebbe essere la priorità assoluta di ogni comunità. C’è chi va in bici per fare massa critica, per ribadire un diritto.

La morte di un ciclista in strada è inaccettabile, se poi a morire è un campione, muore un immaginario più racccontabile e forse la tragedia può far pensare di più, ma solo qualche istante in più, poi più niente.

Provo rabbia quando i soliti politicamente corretti mettono in parallelo la eventuale indisciplina del ciclista e la prepotenza istituzionale dell’automobile. Che confronto impari! Sarebbe come dire che un umano ha acciaccato una formica perché lei si è mossa sull’asfalto. No, le formiche muoiono sotto suole semplicemente perché non è neppure previsto debbano vivere, al massimo rompono i coglioni.

La storia di Rebellin, che avevo incrociato nei miei anni da inviato per il ciclismo all’Unità è la leggenda di chi davvero ama la bici. È stato così longevo da ciclista professionista da rimetterci la pelle appena quella pelle l’ha cambiata, come potesse solo continuare in eterno a gareggiare, magari trovando contratti in federazioni sempre più esotiche, magari retrocedendo negli ordini di arrivo ogni anno di più. Dovevi continuare a presentarti a ogni punzonatura, Davide, l’ordine d’arrivo per te non era più un problema. Raggiungere il traguardo, tornare a casa, ripartire il giorno dopo era la tua garanzia. Davide contro Golia. Tu contro i Golia in bici ce l’avevi sempre fatta. Contro un Golia travestito da Camion non potevi. Non potremo. Maledetti.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento