L’Italia tutta è in crisi demografica, come tante parti del mondo. L’Italia ha delle zone sempre più intensamente spopolate.
È in atto da più di un decennio una
strategia di ripopolamento che le chiama aree interne. Qui si preferisce
chiamarle aree intense per indicare che non sono luoghi banali a cui dedicare
attenzioni residue, ma devono essere i luoghi da cui partire per le sfide
dell’Italia e della politica. Non si tratta di aiutare dei poveretti. Le aree
intense sono una grande occasione di pensare alle persone e ai luoghi quando si
fanno delle politiche. Pensare alla vita di una partoriente, di un bambino, di
un giovane, di un anziano. Pensare alla vita e non al solito baratto:
finanziamenti in cambio di consenso elettorale. Questo metodo sta letteralmente
uccidendo le aree intense e quindi un patrimonio enorme per l’intero paese:
pensiamo solo a quante case, spesso di pregio, ci sono in quelle aree e allo
stato di abbandono in cui versano. Basta fare un giro in Svizzera per capire
come siamo messi: in Svizzera non esistono i musei delle porte chiuse a cui si
stanno riducendo tanti paesi dell’Italia intensa. A conti fatti nei paesi
italiani abitano ancora 13 milioni di persone e almeno la metà stanno in zone
fortemente disagiate. Quindi stiamo parlando di un’emergenza che non riguarda
un’esigua minoranza di territorio e di popolazione.
Noi soffriamo di una sorta di miopia
geografica: pur essendo una nazione fatta in gran parte di paesi e di montagne
facciamo politiche come se fossimo fatti solo di pianure: l’Italia non è solo
Roma e Milano e l’allarme inquinamento della pianura padana ci ricorda che è un
errore mortale concentrare tutta la produzione nelle pianure. Sappiamo tutti
che la crisi climatica non è un’ipotesi, ma un dramma in pieno svolgimento. E
non dobbiamo guardare solo a quello che vuol dire per noi umani: pensiamo alla
spaventosa riduzione della biodiversità. Da questo punto di vista è evidente
che nelle aree intense, facendo politiche adeguate, il cambiamento climatico
può diventare un’occasione per attrezzare zone del paese utili ad accogliere
chi vuole fuggire dalle estati torride, chi vuole passare un poco o molto tempo
tra gli alberi e non in mezzo al cemento e all’asfalto perenne con cui abbiamo
arredato le zone urbane. Non pensiamo al turismo domenicale o di Pasquetta e
Ferragosto, ma ad azioni organiche che sappiano investire in primo luogo sulla
cultura: troppi beni culturali vengono restaurati e poi restano chiusi.
Chiediamo alla politica di mettersi alla
prova veramente sulle aree intense. Cominciare da qui, dal grande cantiere
della sfiducia. Se in Italia il cinquantacinque per cento delle persone sente
che la propria voce è inascoltata (la media europea è del trentasei per cento),
si può dire che nei piccoli paesi montani questa percentuale sale al novanta
per cento. Praticamente le politiche attuali è come se mettessero acqua in un
secchio rotto. Senza infierire sul fatto che molte azioni sono anche
profondamente sbagliate: che senso ha dare venti milioni di euro a un paese che
poi non sa come spenderli?
La strategia nazionale delle aree interne
aveva uno spirito diverso quando è stata concepita, era il “centro” a recarsi
nei paesi ed erano loro a disegnare il proprio futuro. Il metodo che ha provato
a introdurre era importante proprio perché le politiche hanno bisogno di
seguire un metodo, non possono essere improntate all’umore del politico di
turno.
Oggi grazie a quella strategia abbiano una
visione di come stiamo messi, abbiamo una sceneggiatura, ma è necessario
cominciare a girare il film. E bisogna prendere atto che il lavoro di
sceneggiatura è stato troppo lungo. E mentre giravano le carte, i ragazzi, cioè
gli attori possibili del film, andavano via. Tra l’altro
bisogna impedire che la strategia venga eccessivamente regionalizzata
diventando un “progetto senza strategia” e abbia come unico obiettivo la spesa
delle risorse comunitarie e del PNRR più che il ripopolamento e la
rigenerazione dei luoghi. Non serve solo tenere la gente, serve un
ripopolamento cognitivo: arieggiare i paesi con un nuovo slancio, servono
abitanti di una comunità ruscello più che di comunità pozzanghera.
È necessario a questo punto un perentorio
atto di richiamo verso le aree intense rivolto a chi ha lasciate, a chi è
rimasto e a chi non c’è mai stato: bisogna mettere all’attenzione di tutti la
sfida di rigenerare questo pezzo d’Italia che non è confinato in una provincia
o in una regione, ma è diffuso ovunque, da Nord a Sud.
La sfida deve partire dalla giusta
impostazione della strategia messa in atto a suo tempo da Fabrizio Barca: no al
localismo, no al dirigismo. Le questioni delle aree intense si affrontano con
un intreccio di intimità e distanza, serve la visione centrale e serve il
confronto acceso e sperimentale coi territori, ciò che vale per una zona non
vale per un’altra. La differenza deve stare nelle risposte non nella domanda:
da questo punto di vista le istanze che arrivano al centro dalla Val Maira o
dall’Irpinia sono le stesse, mentre sono ben diverse le istanze di Napoli o di
Milano. Da questo punto di vista la tenuta dell’unità della nazione parte
proprio dalle aree intense, ma servono politiche alte e non rimasugli
finanziari, serve investire sulle persone e non su opere, tipo rifacimento di
piazze che spesso danno l’idea di mettere un anello al dito di uno
scheletro.
Non servono solo convegni tra addetti ai
lavori, serve che ogni area abbia un gruppo di giovani allenatori, mischiando
chi è del territorio con chi viene da fuori. Questi ragazzi devono stare almeno
tre anni con la funzione di allenare letteralmente chi è fuori forma: non si
può affrontare la partita con chi non sta in piedi. Ci vuole un grande
intervento pubblico per mettere a lavoro nelle aree intense ragazzi e ragazze
italiane che spesso sono andati via, che spesso stanno all’estero. Possono
essere agronomi, biologi, architetti, urbanisti, medici, informatici, artisti.
A loro spetta il compito di mettere testa e gambe per chiamare queste aree alla
sagra del futuro: la tenuta identitaria non basta, è su un progetto di futuro
che si possono davvero ravvivare i paesi.
Lo sviluppo locale si fa in primo luogo
coi ragazzi e con chi vuole costruire un futuro, e poi con tutte le altre fasce
della popolazione. Bisogna mobilitare i cittadini e non gli esperti a
procacciarsi finanziamenti che poi non hanno ricadute reali sulla vita dei
luoghi. È chiaro che ogni politica corre dei rischi, nessuna politica ha
risultati garantiti, ma la via di mettere le aree intense in mano alla migliore
gioventù italiana può darci anche una scossa emotiva, un sussulto visionario di
cui abbiamo bisogno. Non si possono ripopolare dei territori tenendo questa
questione al margine dell’agenda politica e mediatica: non si è mai visto in
televisione un dibattito in prima serata sulla questione. Per intenderci: fino
a quando il ragionamento sui paesi è riservato a trasmissioni fatte in orari
marginali vorrà dire che non abbiamo capito l’importanza della questione.
Parlare dei servizi: scuole, trasporti, sanità, partendo dalle persone che
devono fare le cose più che dai piani che girano da un ufficio all’altro.
Parlare della filiera dello sviluppo locale puntando in primo luogo su una
nuova filiera dell’energia (dall’idrogeno alle altre energie rinnovabili,
badando alle ricadute sul territorio più che agli interessi delle
multinazionali) e su una innovativa filiera agricola (le proteste di questi
giorni sono la spia di un disagio che non è solo economico, gli agricoltori si
sentono trascurati).
Le aree intense sono anche la resistenza
dell’intelligenza artigianale all’intelligenza artificiale, il luogo
dell’intreccio tra il computer e il pero selvatico, il laboratorio di azioni
urgenti e concrete per costruire una nuova poetica dell’abitare, un nuovo
umanesimo di cui l’Italia può e deve essere punto di riferimento nel mondo. Noi
non possiamo contare tanto su quello che produciamo, ma su un’idea di un futuro
che sappia di antico e di nuovo, su un modo di fare comunità radicate e aperte
all’impensato in un mondo sempre più irreale, abitato da un’umanità ridotta a
una sommatoria di spaventi e solitudini, incapace di darsi un destino comune e
non violento.
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