Il capitalismo genocidiario si
cela dietro la cortina della società dello spettacolo - Salvatore Bravo
Capitalismo
genocidiario
Il
capitalismo non è mai sufficientemente compreso nelle sue dinamiche distruttive
e negatrici della natura umana e della vita. La sua azione globale non può che
incontrarsi e scontrarsi con i limiti delle conoscenze personali e,
specialmente, con le censure dirette e indirette a cui siamo sottoposti.
Riorientarsi in una realtà organizzata secondo la forma del capitale mediante
il “velo dell’ignoranza” è operazione non semplice. Se ci poniamo nell’ottica
del cittadino medio e delle nuove generazioni possiamo ben comprendere quanto
“il capitalismo dello spettacolo” riduca il pianeta a uno strumento da usare e
da consumare: in tal modo la vita dei popoli e la storia del capitalismo sono
obliati. Il capitalismo senza la mediazione umana della storia
può continuare la sua corsa nelle comunità e negli individui; può continuare a
bruciare vite e popoli e a percepirsi come “assoluto”.
Il
capitalismo si autopresenta come “assoluto” e costruisce di sé una immagine
ipostatizzata, in quanto coltiva l’ignoranza di sé. Le esistenze
organizzate in stile “reality” consentono ai crimini del passato e del presente
di perpetuarsi. Il capitalismo dello sfruttamento e genocidiario si cela dietro
la cortina della società dello spettacolo. Anche il linguaggio è
divenuto finzione filmica, non a caso la parola “capitalismo” è stata abilmente
sostituita con le espressioni “liberale e liberista”, le quali ammiccano alla
libertà. Si ha l’impressione di essere dalla parte giusta, e di vivere nella
libertà: naturalmente la libertà “capitalistica” deve essere intesa come la
possibilità di affermare il proprio “io” usando il mondo e riducendo ogni
incontro a mezzo per accrescere l’ego-idolatria. La storia del capitalismo
riportato alla sua verità storica e ai suoi crimini è paideutica per accrescere
qualitativamente la crescita umana e politica delle soggettività e delle comunità.
Il genocidio
dei comunisti in Indonesia
Il genocidio
dei comunisti in Indonesia, sconosciuto a molti e mai presente nelle “cronache
liberali”, dimostra quanto il sistema liberale agisca per manipolazione e
censure in modo da impedire la coscienza collettiva sulla realtà sociale ed
economica in cui viviamo. Lo sterminio del PKI, del partito comunista
indonesiano, oggi è genocidio non riconosciuto, al punto che la ricerca storica
è ancora agli albori. Il numero di questo genocidio comunista oscilla tra i
500.000 e i 3.000.000 di morti. Tra gli assassinati non pochi furono gli
esponenti di minoranze etniche, tra cui i cinesi, con cui l’Indonesia
riformista intratteneva ottimi rapporti.
Gli
assassini sono rimasti “stranamente” impuniti e sul tragico destino di tante
vittime è sceso il silenzio della storia e dei media. Se si utilizza wikipedia
si può leggere quanto segue alla voce “Responsabili” di questo genocidio:
“Esercito
indonesiano e squadroni della morte, aiutati e incoraggiati dagli Stati Uniti
d’America e da altri governi occidentali”.
Nuovo Ordine
capitalistico
Le
informazioni sono poca cosa, se non sono sostenute dalla coscienza politica ed
etica. Il nostro tempo è caratterizzato dal velo dell’ignoranza nella forma
dell’indifferenza e del narcisismo dello spettacolo che non
incoraggia la ricerca e la formazione. Le informazioni essenziali non si
trasformano in ricerca storica, non riescono a collocarsi a distanza collettiva
razionale ed empatica dalla “verità” del “sistema liberale”, in quanto il capitalismo
coltiva l’ignoranza politica e storica e insegna che la rete informatica è solo
un mezzo per il libero scambio.
Il genocidio
si consumò tra il 1965 e il 1966 prima che fosse attuata la riforma agraria già
avviata dal Presidente riformista Sukarno. In realtà le immense ricchezze
minerarie dell’Indonesia e la posizione strategica dell’isola furono la causa
del sostegno della CIA e di altri stati europei, tra cui l’Olanda,
all’eliminazione del PKI. Il Presidente degli Stati Uniti Nixon affermò:
«Con il suo
patrimonio di risorse naturali, il più ricco della regione, l’Indonesia è il
tesoro più grande del Sud-est asiatico[1]»
.
L’Indonesia
era, dunque ad un bivio, Sukarno fu rovesciato da Suharto sostenuto dalle
potenze occidentali; iniziò per l’Indonesia l’epoca del genocidio e
dell’eliminazione dell’opposizione politica:
«Nel 1965
l’Indonesia era a un bivio. La Guerra Fredda era al culmine nel Sud-Est
asiatico e sembrava essere solo questione di tempo prima che il PKI, il più
grande partito comunista del mondo al di fuori dell’URSS e della Cina
comunista, salisse al potere. L’esercito indonesiano – una forza armata
altamente politicizzata che aveva costituito parte integrante della vita
politica indonesiana sin dalla rivoluzione nazionale indonesiana – era,
tuttavia, determinato a fermare l’ascesa del PKI e a porre lo stato indonesiano
sotto la propria direzione. Dall’inizio degli anni ’60 la leadership militare
indonesiana cominciò a fare piani specifici per “riorientare” lo stato
indonesiano[2]».
Il governo
Suharto non aveva i mezzi per operare il genocidio in tempi brevissimi e
instaurare il Nuovo Ordine con cui riorientare il popolo indonesiano verso il
nuovo corso della storia, per cui le potenze occidentali organizzarono e
diedero i mezzi per procedere all’eliminazione di uno dei più grandi partiti
comunisti del mondo (il terzo al mondo). Con il riorientamento del Nuovo Ordine
le potenze europee rientravano nel mercato indonesiano e, in cambio,
appoggiarono le oligarchie indonesiane:
«Il
genocidio indonesiano ha avuto luogo nel contesto della presa di potere
militare dello stato indonesiano da parte del maggiore generale Suharto. Il
risultato fu un completo riorientamento della società indonesiana e l’ascesa di
un regime dominato dai militari autodefinito Nuovo Ordine. La leadership
anticomunista dell’esercito fu assistita durante il genocidio da sostenitori
occidentali con armi ed equipaggiamenti, e incoraggiata attraverso la
comunicazione diretta e l’assistenza con la propaganda, soprattutto da parte di
Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, a effettuare un’epurazione approfondita
delle forze armate. gruppi di sinistra nella società (Simpson,2008). Studi recenti
hanno evidenziato anche la complicità o l’indifferenza dei governi europee
dell’Unione Sovietica all’attacco al PKI e ai suoi affiliati in Indonesia,
dovuto in gran parte alla decisione del partito di schierarsi con la Cina
comunista (vedi Schaefer & Wardaya, 2013). Il nuovo regime guidato dai
militari fu accolto sulla scena politica dai paesi occidentali e presto
iniziarono i negoziati tra i leader di questi paesi e i nuovi leader militari e
tecnocrati dell’Indonesia per ripristinare l’accesso straniero ai mercati
indonesiani (Simpson, 2008)[3]».
Genocidio o
Strage?
Il genocidio
indonesiano è stato declassato a strage dalla giurisprudenza occidentale, in
quanto per “genocidio” si intende la formula adottata del 1948 dall’ONU che
esclude l’eliminazione totale di un gruppo politico avversario. La conseguenza
della formula ristretta di genocidio alla sola eliminazione etnica consente,
allora come oggi, di procedere alla eliminazione totale di un gruppo politico
avversario e non incorrere nel crimine genocidiario, il quale ha una attenzione
mediatica e giurisprudenziale maggiore rispetto alle stragi di massa; inoltre
ha una serie di implicazioni legate ai risarcimenti per i sopravvissuti e per i
discendenti:
«Quando si
considera la violenza di massa che si diffuse in tutta l’Indonesia alla fine
del 1965, c’è in gioco una questione polemica fondamentale, definitiva e
concettuale.1 Questa questione si riferisce all’identità del gruppo target che
fu sradicato in Indonesia. È stato spesso sostenuto che le vittime degli
omicidi furono prese di mira principalmente in termini di affiliazione reale o
percepita con il PKI o con una delle sue numerose organizzazioni associate
(vedi Capitolo 1 di questo volume). Come in molti di questi dibattiti
concettuali nel campo degli studi comparativi sul genocidio, la questione se un
gruppo di vittime definito dalla loro affiliazione socio-politica di per sé
possa essere vittima di genocidio deriva direttamente dalla definizione
giuridica di genocidio contenuta nella Convenzione sul genocidio, il crimine.
Come recita l’Articolo II della Convenzione, “per genocidio si intende [una
serie di] atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un
gruppo nazionale, etnico [sic], razziale o religioso, in quanto tale”
(Convenzione sulla prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio, 9 dicembre
1948, 78 UNTS a 280, Articolo II). Questa definizione esclude implicitamente i
gruppi politici dalla tutela prevista dalla Convenzione. Tuttavia, come verrà
discusso più avanti, il rifiuto automatico degli omicidi del 1965-1966 come
caso il genocidio su questa base è prematuro[4]».
Il genocidio
di un gruppo etnico o politico ha lo scopo di rinnovare completamente uno
Stato. Il genocidio sperimenta la possibilità di un Nuovo Ordine, trasforma la
nazione in un immenso laboratorio. Distruggere un gruppo umano è il mezzo
mediante il quale trasformare la totalità. Si cancella la presenza di una
prospettiva politica e culturale per realizzare una palingenesi criminale e
assoluta. Cancellare la presenza culturale o fisica è modalità efficace ed
efficiente per ottenere un “nuovo prodotto sociale”. La tecnocrazia
capitalistica può essere applicata in larga scala o in modo ridotto, ma ha
sempre la finalità di “riorientare” eliminando culture e politiche. Mutilare
per rinnovare e sterilizzare culturalmente, e non solo: conservare e preservare
gli interessi delle oligarchie è lo scopo finale. Il caso indonesiano rientra
all’interno della “distruzione creativa”, nella quale l’altro è
negato nella sua verità di soggetto umano:
«Nel caso
indonesiano, sulla scia della propaganda disumanizzante dell’esercito in cui i
sostenitori comunisti venivano descritti come nemici pericolosi e infidi, la
violenza ha funzionato sia per classificare questi pericolosi nemici interni
sia per rendere necessario lo sradicamento del PKI, riformando quindi la
politica sociale indonesiana (vedere il capitolo 1, questo volume; Pohlman,
2012). Una serie di studiosi ha evidenziato questa funzione trasformativa del
genocidio indonesiano, mostrando come non solo il sistema politico indonesiano
ma anche il suo fondamentale panorama sociale, culturale e religioso siano
stati cambiati per sempre dalla violenza (ad esempio, Dwyer & Santikarma,
2003; Hearman, questo volume; Ida Bagus, 2012). Tutsi e Hutu; turco e armeno)
ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del
genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione
della società nel suo insieme” (2013, p. 73). la società viene rifatta di nuovo
(vedi, ad esempio, Appadurai, 1998; Dunn, 2009; Mamdani, 2001). Per Feierstein,
questa concettualizzazione del genocidio come processo socialmente creativo lo
porta a rivalutare il modo in cui comprendiamo la distruzione di un gruppo
“nazionale”, il che a sua volta porta al nostro terzo argomento in questo
capitolo. In sostanza, riconsidera cosa si intendesse con il termine gruppo
“nazionale” ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione sul Genocidio nella sua
analisi della repressione contro la sinistra politica in Argentina sotto la
giunta militare. Feierstein sostiene la comprensione del genocidio come
“essenzialmente una distruzione parziale del gruppo nazionale dei perpetratori
– una distruzione intesa a trasformare i sopravvissuti attraverso
l’annientamento delle vittime” (2013, p. 68). Il caso argentino, come egli
sostiene, in cui lo sterminio di un gruppo politico era parte di un gruppo
nazionale (la sinistra nel gruppo nazionale argentino) evidenzia come il
genocidio non sia tanto il risultato di scontri tra gruppi (es. Tutsi e Hutu;
turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo
ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la
trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73)[5]».
Smembrare i
corpi per cancellare
La
cancellazione fisica deve condurre a cancellare dalla memoria “l’esperienza
comunista”. Una delle peculiarità del genocidio indonesiano fu lo smembramento
dei corpi. Il fine era disumanizzare allo sguardo dei sopravvissuti i comunisti
e rimuovere dalle coscienze la prospettiva comunista. I corpi sezionati e
smembrati riducevano i comunisti ad animali da macello, era così possibile
associare il comunista al corpo di un animale o di un oggetto infranto. Il
capitalismo agisce per cosalizzare l’altro: la punta estrema
di tale logica è svelata nel genocidio. Il vertice del dolore rivela la verità
nascosta del capitalismo:
«Ha notato
come i bambini si allineavano lungo il ponte per vedere il fiume, esortando gli
altri a unirsi, mentre gli adulti si tenevano a distanza (Juadi, comunicazione
personale, 12 agosto 2015). Nel suo studio sulla politica del ferimento e dello
smembramento dei corpi nella post-colonia più in generale, Achille Mbembe
(2003, p. 35) sostiene che tale violenza funziona “per tenere davanti agli
occhi della vittima – e delle persone intorno lui o lei: lo spettacolo morboso
della recisione”. A Surabaya, i bambini e le vittime avevano maggiori
probabilità di vedere la divisione, mentre gli adulti erano più propensi a
vedere quelle che Membe chiama le “tracce” attraverso le quali “l’integrità
corporea è stata sostituita da pezzi”. Sia che si vedessero le divisioni o i
pezzi, si vedeva una forma incarnata di comunicazione politica che formava
quella che Benedict Anderson (2004, p. 1) definì la “fase selvaggia iniziale”
del Nuovo Ordine[6] ».
La caduta
nella continuità
Nel 1998
Suharto è caduto, non serviva più. L’Unione Sovietica e il comunismo erano solo
un ricordo, ma l’Indonesia non si è confrontata con la sua memoria.
L’anticomunismo è ancora vivo, anzi i comunisti sono ancora oggetto di
violenza, in quanto il genocidio non è stato nei fatti riconosciuto e non vi
sono state reali e solide azioni giudiziarie. La memoria storica non è ancora
emersa nella sua verità:
«Sembra ora
che questa ondata di anticomunismo durante la campagna elettorale del 2014 e il
cinquantesimo anniversario delle violenze nel 2015 abbiano rappresentato
l’inizio di una nuova fase di politica anticomunista più intensa. Nel 2016, ad
esempio, l’anticomunismo si è ulteriormente intensificato (Manan et al.,
2016; Tempo, 2016; Trianita & Farmita, 2016).11 Questa
intensificazione è in parte correlata alle crescenti richieste di giustizia per
i sopravvissuti alla violenza ( vedere i capitoli 16 e 17 di questo volume).
Tuttavia non si limita alle questioni direttamente collegate alla storia
comunista o alla politica progressista in generale. Ad esempio, all’inizio del
2015 è venuto alla luce che la vincitrice del concorso Puteri
Indonesia (Miss Indonesia) del 2014 aveva in precedenza, durante una
ripresa in Vietnam, indossato innocentemente una maglietta regalatale da un
amico vietnamita che aveva un martello e simbolo della falce su di esso[7]».
Al momento
l’Indonesia è prigioniera del suo passato; ogni iniziativa legislativa per
confrontarsi con il genocidio è congelata, in quanto le attuali classi
dirigenti sono nei fatti le medesime che avviarono e realizzarono la
“distruzione creativa”. L’Occidente dei diritti tace e occulta il passato e il
presente indonesiano, in quanto sarebbe costretto a guardarsi nella sua verità:
«Ciò è reso
più chiaro in un’altra area in cui l’attuale bozza rivista della TRC avrebbe
potuto essere rafforzata rispetto alla Legge TRC del 2004, ovvero nelle
disposizioni per le misure di conciliazione. Nella Legge del 2004, le
potenziali misure di conciliazione per i sopravvissuti e le famiglie delle
vittime riguardavano: il risarcimento, fornito dallo Stato e che comprendeva disposizioni
monetarie e sanitarie; riabilitazione attraverso il ripristino del nome, della
dignità e dei diritti delle vittime; e la restituzione, che è stata definita
come “risarcimento dato dagli autori del reato o da un terzo alle vittime o
alle famiglie delle vittime” (vedi Articolo 1, Undang-Undang Nomor 27
Tahun 2004, nostra traduzione). Nella versione attuale non si fa
menzione di eventuali atti di restituzione da parte di autori o di terzi. Di
per sé, la mancanza di disposizioni specifiche per la restituzione non è così
significativa, né è probabile che abbia alcun impatto complessivo sui risultati
del risarcimento per i sopravvissuti. Ciò, tuttavia, indica ancora una volta
che, in qualsiasi TRC prevista da questa bozza attuale, gli autori e qualsiasi
ruolo che potrebbero svolgere in tale Commissione sono stati quasi
completamente rimossi. Come sottolineato in precedenza, ciò viola direttamente
i diritti delle vittime a un rimedio efficace e alla giustizia, come garantito
dall’adesione dell’Indonesia a una serie di strumenti internazionali sui
diritti umani[8]».
Uno dei
compiti dell’umanesimo comunista è rendere denunciare le pratiche
capitalistiche, in modo che “l’assoluto” del capitalismo si riveli nella sua
verità apocalittica. Il nichilismo strumentale, vero fondamento del Capitalismo,
è la verità da svelare con le sue consustanziali tragedie che minacciano i
popoli e il pianeta.
Ed ecco, in
ultimo, che le ricchezze della famiglia Suharto rimangono incalcolabili e non
sono state minimante intaccate dalla caduta: pertanto l’Indonesia vive la sua
tragica continuità, la quale è la nostra verità nascosta.
Note
[1] Citado no livro de John Pilger, «The new
rulers of the world», Verso 2002, p. 15.
[2] AA. VV., L’indonesiano genocidio del
1965, Studi Palgrave nella storia del genocidio, 2018, pag. 53.
[3] Ibidem, pp. 34-35.
[4] Ibidem, pag. 29.
[5] Ibidem, pag. 35.
[6] Ibidem, pag. 150.
[7] Ibidem, pag. 302.
[8] Ibidem, pag. 323.
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