Nei sette
anni dalla firma dell’Accordo di Parigi, le banche con sede nell’Unione Europea
hanno erogato 327,15 miliardi di dollari in prestiti e sottoscrizioni a favore
di combustibili fossili (239,63 mld) e attività agricole industriali nel Sud
globale (87,42 mld). Con una
media annuale, fra il 2016 e il 2022, di 46,74 miliardi di dollari a fronte dei
soli 11,26 miliardi di dollari (meno di un quarto) destinati alla mitigazione
della crisi climatica.
Di fatto,
mentre spergiurano in ogni spot pubblicitario di essere determinate
nell’affrontare la crisi climatica, condannano le comunità di Africa, Asia e
America Latina alla mancanza di terra, alla deforestazione, all’inquinamento
dell’acqua e alla privazione dei diritti umani fondamentali.
In questa
classifica-killer troviamo al primo posto BPN Paribas (49,55 mld di dollari), seguita da
Société Générale (41,7 mld), Crédit Agricole (37,57 mld) e ING Group (21,14
mld). Vengono subito dopo le “nostre” Unicredit (18,40 mld) e Intesa San Paolo
(11,95 mld).
È cosi che
proliferano nel mondo le cosiddette “carbon bombs”, ovvero
quei progetti di estrazione di gas, petrolio e carbone che, se avviati,
comporterebbero un aumento di gas serra superiore al miliardo di tonnellate di
CO2 equivalente (per capirci: tre volte le emissioni prodotte dall’Italia in un
intero anno).
Attualmente,
secondo una ricerca dell’Università di Leeds, pubblicata sulla rivista Energy
Police, esistono nel mondo 425 di questi progetti. Solo Deutsche Bank ne sta
finanziando, direttamente o indirettamente, ben 83, mentre 59 ricevono fondi da
BPN Paribas.
Se da chi
finanzia passiamo a chi è finanziato, il primato di chi riceve più risorse
economiche dalle banche europee è della italianissima ENI, controllata dal MEF, sia
direttamente, sia attraverso la quota di Cassa Depositi e Prestiti.
Dal 2016 al
2022, ENI ha ricevuto da UniCredit 4,01 miliardi di dollari, da Intesa Sanpaolo
3,45 miliardi di dollari, 3,19 mld da BNP Paribas e 3,03 mld da
Crédit Agricole.
Nonostante
ripeta compulsivamente di voler trasformare la propria attività per raggiungere
la “carbon neutrality entro il 2050”, in realtà ENI continua a dare
priorità agli investimenti in petrolio e gas e nel 2023 è stata uno dei
maggiori produttori al mondo, alla guida di un’ulteriore “corsa al gas” in
tutto il continente africano e in particolare in Egitto, Mozambico, Angola e
Libia.
Se questo è
il quadro, varrebbe forse la pena di sospendere tutte le infinite diatribe sui
gruppi di attiviste/i che con un po’ di vernice (lavabile) cercano di richiamare
l’attenzione sulla drammaticità della crisi climatica in atto, e porre
finalmente al centro della discussione politica e culturale una
semplice verità: per decarbonizzare la nostra economia è
fondamentale ridurre le emissioni drasticamente; per ridurre le emissioni a
sufficienza da scongiurare il superamento degli 1,5 gradi è fondamentale
mantenere sottoterra almeno il 60% del gas e del petrolio esistenti e il 90%
del carbone; per mantenere sottoterra questa quota di combustibili fossili, le
aziende del comparto dovranno rinunciare a miliardi di dollari di profitti;
perché ciò avvenga bisogna impedire alle banche di continuare a rifocillarle.
Non sembra
così difficile da capire. Né per le banche, né per le imprese, tanto meno per i
governi.Toccherà farglielo presente, smettendo di delegare il compito ai gruppi
di attiviste/i di cui sopra.
Nessun commento:
Posta un commento