Non intendo
qui riprendere ciò che è stato scritto fino ad ora, talvolta con grande
competenza, sulle proteste degli agricoltori in tutta Europa, ma
soffermarmi sul contesto in cui si sono inserite. In particolare
voglio ricordare cosa rappresenta per la comunità umana l’attività
agro-zootecnica.
L‘agricoltura,
anche se poco considerata (e proprio per questo retta in Europa
esclusivamente da cospicui e iniqui provvedimenti della Politica
Agricola Comunitaria), costituisce il settore primario dell’economia classica,
mentre l’industria ne è componente secondaria. Essa è l’unica
l’attività che, se gestita secondo i principi della agroecologia,
garantisce un’economia eterna. Oltre che produrre derrate
alimentari, poi, assicura equilibri territoriali e biodiversità così
costituendo uno dei principali ostacoli al diffondersi delle pandemie. Il
terreno agricolo assorbe, secondo l’ISPRA, 500 kg/ha/anno di CO₂ e trattiene
quasi 4 milioni di litri d’acqua per ettaro sì che l’attività
produttiva si intreccia con la riduzione dei disagi prodotti dall’ormai acclarato
cambiamento climatico: non a caso le poche figure istituzionali “illuminate”,
in Italia e nel mondo, tendono a diminuire la cementificazione del territorio.
Di più, in termini di salute, il buon cibo prodotto da un’agricoltura
naturale e sana è, insieme all’aria non inquinata, uno dei cardini della
“prevenzione primaria”: più della stessa diagnosi precoce delle malattie che,
al contrario di ciò che si pensa, è uno strumento di prevenzione
secondaria. A ciò consegue anche che adeguati investimenti nel
settore agricolo sono ampiamente compensati dai risparmi in spese per
costose e dolorose terapie.
Alla luce di
queste considerazioni vorrei formulare alcune semplici proposte di
intervento nel settore agricolo, da sempre trascurato dalla politica.
Primo. Occorre anzitutto dare
concreta applicazione alla proposta di “sovranità
alimentare” elaborata nel 1996 dall’associazione sudamericana
Via Campesina. Tale proposta afferma il diritto dei popoli a definire le
proprie politiche e strategie di produzione, distribuzione e consumo di cibo:
tutt’altra cosa, rispetto alla agrozootecnia industriale, che si caratterizza
per monocoltura (antitesi della biodiversità) e allevamenti intensivi le cui
produzioni sono destinare precipuamente alla esportazione e alla grande
distribuzione.
Secondo. Bisogna, poi,
annullare gli accordi internazionali che prevedono prezzi fissi per i
prodotti agricoli poiché, in agricoltura, le produzioni sono condizionate non
solo dalla professionalità degli agricoltori, ma soprattutto da condizioni
climatiche differenziate da paese a paese e dalla imprevedibilità delle stesse
a causa dei cambiamenti climatici.
Terzo. La razionalità indica che
l’ortofrutta, prodotto ad alto contenuto di acqua (che – come noto è il maggior
attivatore di fermentazione…), deve essere consumata quanto più possibile
vicino al luogo di produzione al fine di permetterne la raccolta a
maturazione adeguata e, conseguentemente, al massimo delle qualità
organolettiche. Al contrario, se questo alimento viene prodotto a migliaia di
km di distanza, si impongono alcuni procedimenti impropri: raccolta prematura,
trattamenti chimici per impedirne la decomposizione, confezioni più complesse
per la conservazione etc. Senza contare l’utilizzo di energia fossile per il
trasporto, alla faccia della prevenzione primaria e delle sostenibilità! Questa
forma di autarchia avrebbe anche l’effetto di consentire, nei
paesi più poveri, l’orientamento delle produzioni alimentari verso i
consumi interni e non verso il bulimico e ricco mondo occidentale.
Quarto. Occorre, infine, diminuire il
consumo di carne, come indicato dall’OMS, a 4-500 grammi pro capite alla
settimana (ovvero circa 20 kg annui). Vi sono attualmente nazioni in cui se
ne consumano oltre 100 kg all’anno (USA e Australia: dati 2020); in Italia
se ne consumano 60-70 kg annui (dati Slow Food). Una minore
ingestione di carne garantirebbe infatti, oltre a un miglioramento della salute
umana, una migliore gestione del territorio: basti considerare che la
diminuzione del carico di bestiame (bovini in primis) per
ettaro comporta minori deiezioni, con conseguente rispetto della
“Direttiva nitrati” al fine di non inquinare le falde acquifere.
In sintesi,
occorre affidarsi, in agricoltura, a un “protezionismo intelligente”. Lo
impongono, come si è visto, il mantenimento di una buona salute e il risparmio
energetico da combustibili fossili. Ciò non vuol dire negare
la possibilità di scambi internazionali. Ma devono essere ragionevoli…
P.S. A supporto di quanto esposto ricordo un articolo di una grande
femminista, saggista ed ecologista, Carla Ravaioli, dal titolo Keynes e
l’arte della vita, risalente a 20 anni fa, che cita la seguente frase dello
stesso Keynes: «Ho simpatia per coloro che vogliono minimizzare piuttosto che
massimizzare l’intreccio economico tra le nazioni. Le idee, la conoscenza,
l’arte, l’ospitalità, i viaggi, sono tutte cose che per natura sono
internazionali. Ma le merci dovrebbero essere di fabbricazione nazionale ogni
volta che ciò è possibile e comodo».
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