Il problema dell’agricoltura risiede nei passaggi di filiera, con uno sbilanciamento del guadagno per la distribuzione a discapito della produzione. E nelle scommesse dei mercati finanziari, finalizzate al guadagno e slegate dal ciclo di produzione. Nelle azioni speculative che gravano sul settore primario dell’agricoltura, non poteva quindi mancare il racconto della filiera del grano. O meglio del frumento duro. Anche questa, infatti, sottostà allo strapotere del mercato e delle multinazionali, che operano in modi alquanto discutibili.
Come tutti
sappiamo il mercato è regolato dalla legge della domanda e dell’offerta.
Maggiore è la domanda, in questo caso da parte dei molini e dei
pastai, più il prezzo tende a crescere. Maggiore è l’offerta da
parte degli agricoltori e più il prezzo scende. Questa legge dovrebbe
applicarsi in tutti gli ambiti del libero mercato, o almeno così ci raccontano.
Ma spesso e volentieri non è così. Per quello che riguarda il grano, ad
esempio, è decisiva la questione delle importazioni dall’estero,
che portano a soddisfare e volte a saturare la domanda, spingendo
inevitabilmente i prezzi verso il basso. E non riconoscendo così redditività per
la nostra cerealicoltura.
Come si
misura la qualità del grano
Valga per
tutti l’esempio della Capitanata, distretto della Puglia settentrionale.
Qui si coltiva grano duro, un grano dalle ottime qualità organolettiche: tenore
proteico, peso specifico ecc.. È un grano adatto per la produzione di semole usate
per fare la pasta di pasta. Non a caso Foggia per decenni è stata definita “il
granaio d’Italia”, e al tempo stesso ha visto la crescita di importanti pastifici.
Bene, nell’ultima stagione si profilava una buona annata per la cerealicoltura.
Una stagione climaticamente positiva e campi di grano pieni, ma purtroppo
il prezzo di ritiro, partito decente, è sceso
vertiginosamente. Guarda caso dopo l’arrivo di grano dall’estero. Vediamo
perché.
Innanzitutto
una premessa. Il prezzo di ritiro del frumento duro viene stabilito in base a
delle caratteristiche specifiche. La distinzione è in “Mercantile”,
“Buono mercantile” e “Fino”. La distinzione qualitativa consta nella
misurazione di quel parametro fondamentale che è il peso specifico.
“Fino” ha un peso specifico non inferiore a 80 kg/ettolitro. “Buono mercantile”
a 78 kg/ettolitro, e “Mercantile” a 75 kg/ettolitro. Ovviamente, onde evitare
critiche dagli specialisti, ci sono altri fattori che determinano il prezzo,
come umidità, tenore proteico, e così via.
Questa
distinzione commerciale è riportata solo per spiegare al lettore che vi è una
classificazione merceologica alla quale corrisponde un prezzo di ritiro della
materia prima. Enunciata la classificazione, proviamo a sintetizzare l’andamento
dei prezzi dal 2014 a oggi. E allo stesso tempo proviamo a rapportare il
prezzo del grano a quello della pasta per il consumatore. Con
questa analisi voglio provare a mettere in evidenza, dati alla mano, quanto sia
forte anche in questa filiera la speculazione che il mercato
determina. E di come a pagarne le conseguenze siano sia chi lavora in
agricoltura, sia chi compera i prodotti finiti.
L’andamento
dei prezzi del grano e le speculazioni
Tutte le
annualità prese a riferimento hanno una caratteristica comune. Il prezzo cresce
da gennaio fino ad aprile, inizia a scendere a maggio, si ferma a giugno (dove
spesso saltano le quotazioni settimanali). Dopodiché, se la
produzione è abbondante il prezzo tende a scendere ancora, mentre se la
produzione è scarsa riprende a salire verso luglio/agosto. Entriamo nel merito
dei prezzi prendendo come esempio solo il “Mercantile”: la qualità merceologica
più bassa.
Osservando
l’andamento negli anni presi a riferimento si registra che il minimo
storico si è avuto nella quotazione del 27 luglio 2016,
quando il grano mercantile si è ritirato a 16,5 €/q. Mentre il massimo si
è avuto nella quotazione dal 05 novembre 2014 agli inizi del
2015, quando si è arrivati a 37,5 €/q. C’è quindi un aumento considerevole del
prezzo dal 2014 al 2015. Poi un costante declino, intervallato da una tenue
ripresa. Attualmente (vedi la
quotazione 31 gennaio 2024), il prezzo è attorno a 34,5 €/q.
Voglio
sottolineare che si tratta di prezzi stabiliti dalla
Camera di Commercio e che
sono riferiti all’ingrosso. Ora va fatta una ulteriore e doverosa
precisazione. Dal grano duro si ottiene la semola, utilizzata per la pasta. E
si ottiene anche la crusca, che ha utilizzi alimentari per umani e
animali. In pratica dal grano si butta poco e niente. E dovrebbe essere logico
che dalla produzione di grano tutti possano e debbano trarre profitto.
Ma così non è. A non trarne profitto alcuno, è proprio chi il grano lo produce.
Vediamo perché.
L’andamento
del grano fluttua, mentre i prezzi della pasta aumentano: perché?
Andiamo a
vedere il prezzo all’ingrosso della pasta. Possiamo notare una cosa
simpatica: esso aumenta, passando dai 73-78 €/q agli attuali 99-104 €/q.
Prendiamo qui a riferimento il minimo (listino n° 29 del 2016) ed il massimo
(listino n° 43 del 2015). Il minimo vedeva il grano quotato
a 16,5 €/q, la semola a 28,5 €/q, la crusca a 10 €/q. E la pasta a 73-78 €/q.
Il massimo vedeva invece il grano quotato a 37,5 €/q, la
semola a 55,5 €/q, la crusca a 10 €/q. La pasta a 73-78 €/q. Andiamo adesso sulla
quotazione attuale (31/01/2024), che vede il grano quotato 34,5 /p, la semola a 59,5,
la crusca a 8,2 €/q. E la pasta a 99-104 €/q.
A mio avviso
qui vengono spontanee delle domande, e delle riflessioni. La prima è: perché il
prezzo del grano (e anche della semola e della crusca) ha variazioni annuali,
prevalentemente al ribasso, mentre la pasta negli ultimi anni aumenta
considerevolmente? Una prima spiegazione potrebbe riferirsi alla prima
regola del mercato. La domanda di pasta è pressoché standard – siamo un popolo
che basa la propria alimentazione su pasta e pane – quindi perché l’offerta
dovrebbe abbassare il prezzo di vendita? E ci può stare.
Un’altra
riflessione però potrebbe essere che i grandi gruppi industriali che
gestiscono i pastifici hanno un potere contrattuale molto forte, tale da
impedire quotazioni al ribasso. Anche perché è evidente che il mondo agricolo
da un lato non sempre riesce a programmare le produzioni e dall’altro ha
un potere contrattuale pari a zero. Ma un’altra risposta
potrebbe anche essere che il mercato viene inquinato e falsato dalle ingenti
importazione di grani esteri. Importazioni che condizionano pesantemente il
prezzo di ritiro del grano aumentando poi quelli che sono i margini di guadagno
sulla vendita della pasta al consumo.
Il problema
delle importazioni estere
Con queste
analisi voglio provare a chiarire alcuni luoghi comuni, o meglio scusanti,
che i pastai utilizzano per giustificare l’importazione di grani esteri. Se
ascoltiamo le dichiarazioni dei rappresentanti di grossi gruppi industriali
della pasta, sentiremo dire sostanzialmente due cose. La prima e che è
necessario importare grani esteri (principalmente canadesi) perché
sono più proteici dei nostri. La seconda è che in agricoltura l’utilizzo
del glifosato (diserbante) è necessario, altrimenti le
produzioni crollerebbero.
Bene
proviamo ad andare per gradi, aggiungendo anche altri elementi di valutazione.
Per ogni quintale di grano si ottengono da 65 a 80 kg di farina di
semola (questa forbice così larga dipende dalla finezza di molitura).
Ipotizziamo quindi una semola di media raffinazione (70 kg per quintale di
grano) e consideriamo anche che per produrre un chilogrammo di pasta l’80% è
semola. E il resto è acqua. Bene, già con questi dati, considerato
il prezzo del grano, esce facilmente un prezzo del singolo chilogrammo
di pasta di € 0,13 (quando il grano era pagato 16,5 €/q) e 0,27 (oggi
che il grano è pagato 34,5 €/q). Mentre il prezzo all’ingrosso – non quello al
dettaglio – è di 0,99-1,04 €/kg. C’è una bella
differenza.
Secondo
punto. Ci dicono che le importazioni sono necessarie perché i grani esteri sono
più proteici: questa favola è vera? Come dimostrato da uno
studio del Crea (il
Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) i
nostri grani non hanno nulla da invidiare ai più blasonati grani canadesi.
Infatti i nostri generalmente si attestano su un dato medio del 11-12%
(superando anche il 13%), a fronte dei 10,5 previsti per legge (tenore minimo).
A mio avviso è evidente che fino a che sul grano non verrà valorizzata la qualità,
pagandola il giusto, il mondo agricolo non avrà convenienza a fare grani di
qualità superiore.
Gli
insostenibili costi di produzione del grano
Un’ultima
considerazione sui costi di produzione e le redditività di
un’azienda agricola cerealicola. Prendiamo a esempio un’azienda agricola che si
rivolge per le operazioni colturali a contoterzisti. Le operazioni colturali
cronologicamente sono: aratura di fondo, ripasso e affinamento, semina, rullatura,
diserbo, mietitura. Il totale dei costi varia da 500 a 600 €/ha (per ogni
ettaro, ndr), ai quali vanno aggiunti: il seme del grano, 220 €/ha
circa (90 €/q); il concime 100 €/ha circa; il diserbante altri 70-80 €/ha e il
trasporto del grano al deposito pari a 1 €/q. Volendo ipotizzare una produzione
media di 30 q/ha, avremo un totale costi variabile da 920 €/ha a 1.030 €/ha.
Se
consideriamo sempre i 30 q/ha e la quotazione attuale di 34,5 €/q avremo quindi
un profitto lordo di 1.035 €/ha. Ovviamente si tratta di
profitto lordo, al quale vanno detratti tassazione e varie spese aggiuntive.
Per capirci quindi, io agricoltore semino a novembre-dicembre e dopo 7 mesi di
investimento e lavoro (con tutti gli imprevisti) avrò un profitto netto
che se va bene è di 5 euro. Sì, esatto, un profitto di 5 euro! Ecco
spiegata una delle ragioni della protesta attuale.
Fino ad oggi
i cerealicoltori riuscivano a sbarcare il lunario con i contributi
europei (chiamati comunemente integrazione). Ma adesso l’entrata in
vigore della nuova PAC 2023/2027 vede una rimodulazione consistente degli
aiuti. Per concludere, è evidente quindi che qualcosa vada fatto per tutelare
il mondo agricolo nell’avere la giusta redditività aziendale. Onde anche
evitare l’abbandono di un settore strategico per il Paese. Così come è evidente
che urge anche una tutela per i consumatori che pagano un eccessivo
sovrapprezzo per la produzione del grano. E che dovrebbero essere tutelati
rispetto con un giusto prezzo rapportato a una giusta qualità.
Daniele
Calamita è agronomo, sindacalista ed esperto di politiche sociali
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