Con tutto quello che succede! - Annamaria Manzoni
In questo mondo afflitto da terrificanti conflitti, l’allegra mattanza pasquale non può essere derubricata a fatto privo di importanza, sulla scorta del mantra “con tutto quello che succede…”. Al contrario quella strage sostiene la normalizzazione e l’ubiquità della crudeltà del più forte sul più debole, crudeltà, che non è opera di sadici o psicopatici, ma è intrinseca al tessuto stesso delle nostre società
Le ricorrenze, nel loro preciso ripetersi, tracciano punti fermi nel nostro calendario interiore, richiamando a una sorta di memento: ricordati, ricordati di ricordare qualcosa che non va dimenticato. Quelle religiose, per chi religioso si ritiene, dovrebbero anche essere un monito, un richiamo a dogmi, credenze, riferimenti che però sempre più spesso appaiono appannati nel mondo occidentale dove la tendenza in ascesa è quella del fai quello che vuoi purché ti piaccia. Tanto che dichiararsi credente per molti finisce per limitarsi a un’etichetta che risulta protettiva, pur nel materialismo dilagante, in quanto assicura nell’al di là la strada verso un’immortalità sempre agognata, ed è nel contempo garanzia, nell’al di qua, di un’accettazione sociale, basata sull’ostinata equazione religioso uguale buono, capace di fornire una sorta di pregiudizio positivo, per cui non esiste necessità di dovere argomentare: basta la fede, che per altro è dono e non merito.
Tutto bene? Non proprio. Fatto salvo il sacrosanto diritto alle proprie
credenze, esistono addentellati, accessori a queste stesse credenze che
investono un ambito che non è più quello spirituale intoccabile, ma invade vita
e morte di centinaia di migliaia di altri esseri senzienti, nello specifico,
quando si parla di Pasqua, di agnelli. La loro uccisione non conosce sosta
lungo tutto l’anno, ma, in questa ricorrenza, diventa rito, tradizione,
cultura, e rispolvera il postulato, per sua natura indimostrabile, che
l’agnello, quello di Dio, è colui che toglie i peccati dal mondo attraverso la
sua stessa morte: lui, innocente, indifeso, fragile viene allora condannato a
una morte impietosa così da redimere l’uomo dai suoi peccati. Vecchia storia
che si rifà al concetto di capro espiatorio, colui sul quale
vengono riversati i debiti umani non pagati che lui, morendo, si dice
riscatterà. Chi mai davvero può credere in questa narrazione che è l’apoteosi
dell’ingiustizia, per cui il peccatore si salva compiendo un altro peccato,
quello dell’uccisione di un innocente, di milioni di innocenti? Torna alla
mente la figura, non si sa quanto storicamente dimostrata, dell’whipping boy,
il ragazzo che, all’inizio dell’età moderna, affiancava un giovane principe in
modo che, quando questi commetteva errori, venisse frustato al posto suo,
preservando così il nobile da umiliazione e dolore. Se questa situazione lascia
noi contemporanei increduli, non riesce comunque a disappannare il nostro
sguardo davanti ad altre ingiustizie del tutto simili che continuiamo
serenamente a compiere attribuendo loro significati spirituali. In fondo, per
altro, in forme fortemente diverse, la tentazione di far pagare ad altri le
nostre colpe non ci è certo estranea, anzi esercita un’attrazione di non poco
conto, sintetizzabile nella convinzione che l’importante è il nostro benessere,
chissenefrega se pagato con miserie altrui. E questi altri, i capri espiatori,
incaricati della missione, sono sempre i più deboli, quelli privi di diritti,
incapaci di vendetta: tutto considerato, in quanto specie che teorizza e
sostiene tutto questo, non ne usciamo davvero bene e ci iscriviamo a tutto
tondo nella categoria dei codardi.
Ma all’allegra mattanza pasquale degli agnelli si unisce anche uno
stuolo di non credenti, che, per l’occasione, rispolvera un attaccamento
imprevisto alla tradizione, che incredibilmente affida all’abbacchio, il quale,
al forno o alla romana, magari con contorno di patate, dovrebbe essere il mezzo
per celebrarla. E l’abbacchio, giusto per ricordare i distratti e gli
smemorati, è l’agnello ucciso entro i primi due mesi di vita: insomma
appartiene a quello stuolo di decine di migliaia di neonati d’altra specie che
già stanno affollando le nostre strade e autostrade, stipati sui camion,
belanti di terrore e di sgomento, per arrivare ad essere macellati giusto in
tempo per le nostre tavolate.
In un mondo che ogni anno macella circa 70 miliardi di animali, limitando
la conta solo a quelli terrestri, hanno forse poco senso la rabbia e il
raccapriccio davanti alla strage di questi cuccioli, quasi le nostre reazioni
sancissero un loro diritto alla vita maggiore di quello delle vittime di altre
specie. Così non è: ma esistono particolari ragioni, o forse emozioni,
solleticate da questo scempio, in primo luogo riferite alla abitudine di
celebrare una festa, per giunta cattolica, con il massacro di altri esseri,
come in questo caso, di assoluta innocenza: quale mai logica perversa
può reggere una ingiustizia tanto conclamata?
C’è anche altro a caratterizzare l’uccisione di altri animali, ma non degli
agnelli. Uno dei tanti meccanismi messi in moto per sdoganarla è quello che si
serve della loro denigrazione: il maiale, per esemplificare, è
costantemente rappresentato come brutto, sporco, grasso, dotato di istinti
sconci, un vero maiale insomma. Il biasimo di cui lo si ricopre, e non fa nulla
se in modo etologicamente del tutto scorretto, è il lasciapassare per la sua
orrida eliminazione: uno così, in altri termini, se lo merita proprio il
trattamento che gli riserviamo.
Non va meglio a galline, oche, tacchini, la cui presunta stupidità diventa
autorizzazione al loro sfruttamento. I bovini sono invece circondati da una
narrazione mistificata che li vede quieti e miti, tanto che La vache
qui rit da oltre un secolo è costretta a guardarci felice dalla
confezione del formaggio francese, fatto con il latte sottratto al suo
vitellino mandato al macello.
Qualche problema in più lo procurano i cavalli, amati da molti quali
animali da compagnia, problemi comunque presto accantonati se è vero che
l’Italia brilla per i suoi primissimi posti nelle classifiche dei paesi
importatori di carne equina dal resto del mondo. Animali di tante altre specie,
quali i conigli, vengono semplicemente rimossi, dimenticati, resi invisibili.
Gli agnelli no: sono e restano simbolo di purezza, innocenza,
vulnerabilità. Sono bianchi come il latte, il loro vagito è simile a quello dei
bambini, sollecitano tenerezza e chiedono protezione. Celebrati nei peluches,
smuovono commozione nei bambini, che si rispecchiano nella loro fragilità.
Ecco, su di loro che sono simbolo di tutto ciò che è incontaminato dalle
brutture del mondo, si scatena la brutalità di chi, per conto terzi, vale a
dire industria e consumatori, svolge il lavoro sporco: li afferra per le zampe
e li allontana, mentre belano la loro vana richiesta di pietà, dalle loro
madri, quelle madri che, se conoscessero per intero la loro sorte ululerebbero
come lupi come racconta Josè Saramago nel suo Vangelo secondo Gesù
Cristo, quello in cui c’è posto anche per la tenerezza verso tutti gli altri
animali. Caricati sui camion della morte, spinti in enormi macelli dove
verranno accoltellati e lasciati a morire dissanguati, mentre i loro compagni
terrorizzati guardano in attesa del proprio turno, testimonieranno con la loro
morte il primato dell’homo necans, quello che afferma se stesso
uccidendo altri e che di sapiens conserva davvero poco.
La strage degli agnelli, con i suoi picchi di crudeltà, non è un fenomeno a
sé stante, ma piuttosto un tassello della geografia umana: da due anni anche il
mondo occidentale è coinvolto nei teatri bellici di Ucraina e Gaza (che per
altro sono solo la punta dell’iceberg di almeno altre 60 guerre sparse per il
mondo) che gettano davanti agli occhi di tutti l’esistenza di uno sconvolgente
potenziale umano di crudeltà: morte ovunque, distruzioni, uccisioni atroci
anche di bambini e anziani, torture irraccontabili, sadismo normalizzato. Ora bisognerà pure
arrivare a rendersi conto che la violenza è il più contagioso di tutti i virus,
che tutte le forme in cui si concretizza e si manifesta si collegano
direttamente o indirettamente l’una all’altra, che se qualche inossidabile
idealista ambisse ancora e nonostante tutto a un mondo pacificato, non potrebbe
prescindere dalla coscienza che la sua costruzione non può che passare
attraverso l’esclusione della violenza tout court: in tutti i campi, contro
chiunque diretta, da chiunque praticata.
Diceva Edmondo Marcucci, pacifista di fama internazionale, che “l’uccisione
degli animali è un esercizio di violenza che abbrevia la distanza all’uccisione
dell’uomo, alla guerra”. Mentre Aldo Capitini, filosofo della
nonviolenza, sosteneva che se si fosse imparato a non uccidere gli animali si
sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini, perché la scelta nonviolenta
avrebbe avuto ricadute sul nostro modo di essere: tanto che diventò vegetariano
negli anni ‘30, convinto che la scelta di non uccidere animali avrebbe
sostenuto il rifiuto ad uccidere gli uomini nella guerra che vedeva
minacciosamente avvicinarsi.
Era invece Edgar Kupfer-Koberwitz, dalla sua esperienza di internato a
Dachau, ad affermare “che gli uomini saranno uccisi e torturati fino a quando
gli animali saranno uccisi e torturati e che fino ad allora ci saranno guerre”.
Ora, in questo mondo afflitto dai peggio conflitti, l’attuale
strage degli agnelli non può essere derubricata a fatto privo di importanza
grazie a quel confronto vantaggioso che, mettendola a
confronto con le immani crudeltà sugli esseri umani, consenta di sminuirne il
portato, sulla scorta del mantra con tutto quello che succede…! Al
contrario sostiene pericolosamente la normalizzazione e l’ubiquità della
crudeltà del più forte sul più debole, crudeltà, è bene ricordarlo, che non è
opera di sadici o psicopatici, ma è intrinseca al tessuto stesso delle nostre
società, che lungi dal condannarla, la sostengono culturalmente, come
sostengono tutte le altre violenze legalizzate sugli animali. Fondamentale è
allora riconoscerlo il male, e smettere di confondere ciò che è lecito con ciò
che è giusto: per capire finalmente che l’uccisione di centinaia di
migliaia di cuccioli, lecita, legale, normata dalle leggi, è e resta un crimine
morale che nessuna legge morale può essere in grado di assolvere.
Agnello di Dio - Paolo D’Arpini
In tutta Italia i cristiani si stanno preparando a festeggiare la resurrezione di Gesù. Ma ho notato che ancora molte persone si predispongono a celebrarla in modo cruento. Ad esempio, ho assistito ad una conversazione fra una signora ed un pastore durante la quale la donna, ordinando un capo, si raccomandava sul giusto modo in cui l’agnello doveva essere macellato e tagliato per la cucinatura. Ed ho visto dei manifesti pubblicitari in cui si reclamizza la “vendita di agnelli puliti e pronti alla cottura (compresa la testa ed il cuore)” a prezzi stracciati.
Non so se questa usanza di mangiare l’agnello a Pasqua sia veramente una
consuetudine cristiana, forse appartiene più alla tradizione giudea e
musulmana, anche perché Gesù viene definito “agnello di Dio” e dopo il suo
sacrificio sulla croce non sono richiesti altri sacrifici di altri innocenti…
Perciò i veri cristiani dovrebbero abbandonare la cattiva abitudine di
festeggiare la Pasqua uccidendo agnelli, capretti ed altri animali.
Questa preghiera è rivolta a tutti gli uomini di buon cuore, religiosi e
non, che intendono contribuire alla santificazione della Pasqua con nobiltà
d’animo e morigeratezza.
Per santificare la memoria dell'”agnus Dei”, invece di servirlo in tavola,
il nostro invito è quello di salvarlo. Chi dispone di un terreno
potrà acquistare un agnello per tenerlo in vita, allevandolo come animale
da compagnia. Infatti l’agnello si affeziona facilmente e da grande può essere
utile a tener pulito il prato producendo inoltre dell’ottimo concime naturale…
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