I Sud Sound system avrebbero preso l’ergastolo negli anni ’90 se si contano tutte le dance-hall che organizzarono. E il Salento, dove tutti vogliono andare, di destra e di sinistra, ricchi e poveri, anziani e giovani, non sarebbe mai esistito.
Ma partiamo dagli inizi. Era il 1990 o giù di lì e io avevo 18 anni. In
Salento non c’era nulla che succedesse, eravamo una terra di frontiera, senza
turismo. Una terra di sud come tutte le altre, abbandonata dallo
Stato, con una regione allo sbando, con la Sacra Corona Unita a controllare il
territorio e la Democrazia Cristiana e la chiesa a controllare i comportamenti
collettivi e individuali.
C’era anche un altro aspetto, dalle radici più profonde: si ometteva la
storia di quel luogo, il tarantismo, il mondo rurale, la cultura orale. Tutto
doveva scomparire, perché la modernità potesse diventare imperante.
Così si cresceva senza consapevolezza, con un abusivismo diffuso, una
collusione pregnante e una smemoratezza collettiva. Era il modello
prestabilito, che funzionava in qualche altra parte di sud. Poi successe
qualcosa di inspiegabile.
Dei ragazzi di paese iniziarono a fare dei rave. In Salento si
chiamano dance-hall, anche perché la musica che si ascoltava era di origine
giamaicana. Aggiungo anche che erano rave senza scopo di lucro, non c’era
vendita di bevande alcoliche né di droghe pesanti, che poco avevano a che fare
con il ritmo in levare e con lo spirito di quelle feste.
In cosa consistevano? Si sceglieva un posto isolato, generalmente una spiaggia,
si portavano a mano e con immensa fatica le casse del sound system, si mandava
l’informazione in giro, la gente veniva e ascoltava i Sud Sound System
improvvisare in dialetto su basi giamaicane di raggamuffin.
Successe che quel gesto, deliberatamente selvaggio e illegale, fosse il più
grande gesto d’amore per la nostra terra. Perché erano parole di pace in
tempo di guerre di mafia, di rispetto della cultura tradizionale omessa
colpevolmente, era un messaggio ambientalista tra abusivismi, Ilva e Cerano.
In quel momento tutto cambiò. Cambiò l’idea stessa di identità
meridionale, quindi di cultura, di urbanismo, di turismo. Il Salento e
poi la Puglia divennero ciò che sono, uno dei casi più studiati al mondo di
marketing territoriale dal basso. Tutto grazie a un rave.
Con queste nuove leggi non sarebbe possibile immaginare una cosa del
genere. Che la ricostruzione e la rinascita di un luogo arretrato fosse
determinato dalla libera espressione giovanile, dalla ricerca musicale e il
confronto con la cultura underground mondiale, dalla necessità di conflitto con
un mondo opprimente, ingiusto, senza prospettive.
Perché in quegli anni rampanti, in cui tutto pareva andasse bene, la gente
si ammazzava per strada, l’abusivismo distruggeva le coste, e il pensiero
omologato ci faceva dimenticare radici preziose.
Forse è ciò che si vorrebbe fare ora, annichilire le energie vitali, i
pensieri ribelli, la fisiologica necessità di esprimersi. Questo è
probabilmente il dato più inquietante, forse anche più di quello prettamente
legale.
Non far credere che esista un altro modo di vivere se non quello prestabilito
dall’ordine e dalle regole sociali. Perché chi ha legiferato crede ancora che
quelle regole sociali possano essere ristabilite, come trenta, quarant’anni fa,
incuranti del fatto che il mondo sia andato avanti, le idee, le libertà, i
costumi, la musica.
La speranza è che le nuove generazioni trovino sempre il modo di
oltrepassare le consuetudini opprimenti. Il nostro dovere è vigilare, fare muro
a ogni legge ingiusta, che precluda la libertà espressiva e la libertà umana.
Che è l’unica cosa che permette a una società di progredire e come fu il caso
del Salento, di riscoprirsi piena di radici solide, grazie a dei giovani
ribelli e i loro rave.
Aggiungo, che sarebbe il caso, di fare un immenso corteo, con regolare permesso
a tutela della espressione del dissenso, con degli enormi sound system per le
strade delle nostre città.
Articolo pubblicato anche su il manifesto
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