Lavorare in un mattatoio, sotto copertura: un professore universitario, Timothy Pachirat, si è finto un operaio in un mattatoio americano: ecco la sua testimonianza shock
Ogni dodici secondi: questa è la frequenza media con cui, all’interno di
un mattatoio, il knocker, cioè l’operaio addetto
allo stordimento degli animali, spara un colpo di pistola captiva sulla
testa delle sue vittime. Ed “Every twelve seconds” è
anche il titolo del libro-documentario scritto da Timothy Pachirat, assistente professore di Politica in
quel di New York, in seguito alla sua esperienza di lavoratore in incognito
all’interno di un macello per 6 mesi. “Volevo capire come i processi
di violenza di massa divengano normali nella moderna società, e volevo farlo
dal punto di vista di chi lavora in un macello” ha dichiarato l’autore, in un’intervista per
il sito boingboing.net, per giustificare
la propria decisione.
“Come nelle sue più evidenti analogie politiche – la
prigione, l’ospedale, il reparto psichiatrico, la stanza degli interrogatori,
la camera di esecuzione – il moderno macello
industrializzato è una “zona di confinamento”, nelle parole
del sociologo Zygmunt Bauman, “del tutto inaccessibile ai membri ordinari della
società”. Ho lavorato come operaio di basso livello in un mattatoio
industrializzato, per poter capire, dalla prospettiva di chi vi partecipa
direttamente, come operano queste zone di confinamento”.
Lo “scarico di
responsabilità”
L’obiettivo di Timothy, dunque, non è la denuncia
dell’attività di un singolo mattatoio, ma piuttosto portare alla luce gli
orrori che quotidianamente hanno luogo in ogni macello del
mondo ma, soprattutto, mettere in evidenza come gli operai che eseguano
delle mansioni diverse da quelle del knoker, si sentano in realtà estranei al processo di macellazione: “Se ascoltaste
con sufficiente attenzione le centinaia di operai che eseguono le altre 120
mansioni nel piano macellazione – afferma Timothy – questo potrebbe essere il
ritornello che udireste: “Solo il knocker”. È
semplice matematica morale: il piano macellazione opera con
120+1 mansioni. E finché quell’1 esiste, finché vi è una plausibile narrativa
che concentra il più pesante e sporco dei lavori su questo 1, allora gli altri
120 operai del piano macellazione possono dire, e credere, “Io non faccio parte di questo”.
La “catena di
montaggio” dell’orrore
Senza mezzi termini l’autore ci spiega quale
trattamento sia riservato ai più di 2500 animali che
ogni giorno, nel mattatoio in cui lui ha lavorato, vengono condotti alla morte:
per prima cosa il tragitto verso il punto di macellazione,
che gli animali compiono sulle proprie zampe, del tutto coscienti e subodorando
il pericolo imminente, terrorizzati e impossibilitati a scappare. Da lì, uno
per uno, vengono condotti alla knocking box,
la stanza in cui il knocker spara
loro in testa con una pistola a proiettile captivo,
cioè un’arma provvista di una punta di ferro di 6 cm che penetra dolorosamente
nel cranio dell’animale, stordendolo senza ancora togliergli la vita.
Quindi le povere bestie cadono su un nastro
trasportatore, che le porterà al punto dove verranno incatenate e
poi sollevate da terra. Appesi per le zampe posteriori gli animali – che
ricordiamo essere ancora vivi e spesso
parzialmente coscienti – viaggiano attraverso una serie di
novanta giravolte fino ad arrivare davanti all’operaio che si occupa di recidere loro carotide e giugulare. A
questo punto le povere bestie muoiono dissanguate mentre
continuano ancora a viaggiare sulla catena sopraelevata fino al tail ripper, colui che inizia il processo
di squartamento della carcassa e di rimozione delle pelli.
“Degli oltre 800 operai nel piano macellazione,
solo quattro sono coinvolti direttamente nell’uccisione del
bestiame e meno di 20 hanno una visuale su di essa” afferma Pachirat, che
continua: “Sul posto di lavoro esiste una specie di mitologia collettiva secondo la quale solo il
knocker è coinvolto nell’uccisione, mentre il lavoro degli altri 800 operai del
macello sarebbe moralmente scollegato da essa“.
La violenza
nascosta
La domanda quindi sorge spontanea: perché la
stragrande maggioranza della popolazione non sa nulla di ciò che avviene
realmente in un mattatoio? “Negli Stati Uniti, oltre 8,5 miliardi di animali
vengono uccisi ogni anno per farne cibo, ma queste uccisioni vengono effettuate
da una piccola minoranza composta per lo più da lavoratori immigrati,
che operano dietro a mura opache, per lo più in luoghi rurali isolati, lontani dai centri urbani” afferma Pachirat. Come se
ciò non bastasse, esistono anche delle leggi molto severe che
vietano la pubblicizzazione di ciò che avviene nei macelli. “In
secondo luogo – continua Timothy – il macello, nel suo complesso, è diviso
in compartimenti. […] È del tutto possibile
trascorrere anni, lavorando nell’ufficio, nel reparto fabbricazione o al
congelatore di un mattatoio industriale che macella oltre mezzo milione di
bestiame all’anno, senza neppure incontrare un animale vivo e tanto meno
assistere ad uno che viene ucciso”.
La cosa più incredibile, comunque, è che il lavoro di uccisione è nascosto anche
laddove ci si aspetterebbe che fosse più evidente, ovvero nel luogo stesso della macellazione: la divisione
degli spazi e la struttura del macello fa sì che siano pochissimi gli operai
che entrino effettivamente in contatto con quello che, nel gergo, viene
definito “lato sporco” (ovvero, quello che viene eseguito quando le pelli
sono ancora attaccate ai corpi degli animali). Gli operai del “lato pulito”,
tra l’altro, non entrano mai in contatto con gli altri, nemmeno durante le
pause: “In questo modo, la violenza del trasformare un animale in una carcassa
viene tenuta come in quarantena tra i lavoratori del “lato sporco”, dove vi è,
anche là, un ulteriore divisione di mansioni e spazi”. Può sembrare
assurdo, ma all’interno di un mattatoio vige anche l’utilizzo di un linguaggio dissociativo, con il
solo scopo di nascondere la violenza dell’uccisione: fin dal momento in
cui gli animali arrivano al macello, per esempio, tutti gli operai devono
riferirsi a loro chiamandoli “carne”, nonostante
si tratti di animali vivi e senzienti, che ancora respirano.
I mattatoi:
violenza sistematizzata
“La lezione, qui, non è che la macellazione e i
genocidi siano moralmente e funzionalmente equivalenti, ma piuttosto che la violenza sistematica, su larga scala, resa routine, è del
tutto coerente con il genere di strutture burocratiche ed i meccanismi che associamo
tipicamente alla civiltà moderna” ha affermato Pachirat. A questo
punto, non resta da chiedersi quale sia il grado di complicità di ognuno di noi
in tutta questa violenza; l’autore, per esempio, ritiene responsabili coloro
che beneficiano della produzione di carne “a distanza” forse più di coloro che,
per necessità, sono costretti a compiere questo lavoro. Ne è l’esempio la
storia della mucca Cinci Freedom, a
cui Pachirat aveva assistito direttamente e che l’autore riporta
nell’ultimo capitolo del suo libro: l’animale era riuscito a fuggire dal
macello e, braccato dalla polizia, era stato freddato per strada con
un colpo di pistola alla testa. L’indignazione, la rabbia e il
disgusto per quanto avvenuto avevano preso il
sopravvento tra gli operai, che il giorno dopo però erano tornati alle loro
mansioni quotidiane: un esempio concreto di come, chi lavori in un macello, non
abbia la benché minima percezione di ciò che il proprio lavoro comporti
realmente.
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