In una precedente discussione su lavoro e decrescita all’incontro Venezia
2022 – Le trasformazioni del lavoro – ho insistito sull’importanza
di mantenere ferma la distinzione tra lavoro, da un lato, e lavoratori
e lavoratrici, dall’altro. Nel linguaggio sindacale e politico spesso si
usa il termine lavoro per indicare il popolo di coloro che lavorano, assegnando
al primo i meriti e la dignità che spettano solo ai lavoratori e alle
lavoratrici, termini a cui si ricorre soprattutto, o quasi esclusivamente, in
occasione di conflitti sociali o quando comunque emergono contraddizioni tra
chi lavora e i “datori” – ma meglio sarebbe chiamarli prenditori, o succhiatori
– del lavoro altrui.
Il lavoro, a partire dal suo etimo in molte lingue, è sempre stato
associato alla fatica e alla sofferenza, che non sono venute meno con l’avvento
del capitalismo, che ne ha fatto però l’oggetto di uno scambio, in modo che sia
il lavoratore stesso ad auto-infliggersele. In regime capitalistico il
lavoro non è che un “fattore della produzione”, una “risorsa” del processo
di accumulazione, come lo sono, per l’economia classica, la terra e il capitale
(la finanza), a cui in tempi recenti è stata aggiunta l’informazione. La
sua caratteristica principale è la subordinazione a una struttura gerarchica,
anche quando è mediata dal mercato nel cosiddetto lavoro autonomo; e anche
quando si svolge all’interno di un organigramma cosiddetto “piatto”, dove chi
comanda non manca mai, anche se non si fa vedere. Ma i lavoratori e le
lavoratrici non sono “risorse”, anche se è diventata consuetudine chiamarle
così, ma persone: sono esseri umani inseriti in una rete di relazioni. Non
solo: spesso è proprio il lavoro a ridurre e ostacolare molte delle relazioni
di cui si compone la personalità dei lavoratori e delle lavoratrici.
Visto sotto questa luce, il contrario del lavoro è la cura: il primo si svolge
solo nel quadro di una struttura gerarchica di comando, diretto o indiretto,
mentre la cura può svilupparsi solo in un contesto di reciprocità.
Il lavoro è finalizzato all’accumulazione del capitale e svolto per una
remunerazione, nel contesto di uno scambio di mercato. Anche l’utilità dei beni
o dei servizi prodotti è subordinata alle leggi di mercato: in regime
capitalistico si produce solo ciò che genera profitto. La cura, invece, è
contrassegnata dalla gratuità; anche quando è la componente aggiuntiva o
prevalente di un rapporto di lavoro remunerato,
come accade in (quasi) tutti i cosiddetti “lavori di cura”: dal medico al
netturbino, dall’insegnante al giardiniere, dal contadino all’assistente
sociale o familiare. La cura riguarda sia le persone, a partire da se stessi,
sia le cose, l’ambiente, gli altri esseri viventi, al pianeta; per estendersi
anche a ciò che resta al del passato e al futuro che possiamo influenzare.
Il lavoro, quando non è in tutto o in larga parte anche cura, genera
frustrazione e impoverisce la persona di chi lo fa controvoglia. La cura invece arricchisce
sia chi la riceve – esseri umani, esseri viventi o “cose” – sia
chi la presta; ed è per lo più fonte di soddisfazione personale. Un “lavoro
di cura” si può effettuare malvolentieri, ma non è cura. La cura vera è sempre
il risultato di una scelta volontaria.
Assistiamo da tempo, però, a una tendenza ad assimilare la cura al lavoro
(e non viceversa). Innanzitutto, con l’espressione “lavoro riproduttivo”, contrapposta al
“lavoro produttivo”: quello che produce reddito, merci, valore, denaro,
profitto.
Inizialmente quella espressione era riferita solo alla generazione di nuovi
esseri umani, alla loro cura e al cosiddetto lavoro domestico, quelle a cui era
tradizionalmente relegata, e lo è tuttora, la maggior parte delle donne. Ma di
recente il termine è stato esteso a ogni attività finalizzata alla
rigenerazione di una comunità, di un territorio, di una tradizione, di una
cultura, del pianeta.
L’intento è quello di attribuire alle attività di cura, a partire da quelle
più elementari, la stessa “dignità”, gli stessi “meriti” attribuiti
tradizionalmente al lavoro “produttivo” del “breadwinner”: di qui la
rivendicazione di un “salario al lavoro domestico”, che in realtà non fa che
perpetuare una divisione e una gerarchia di ruoli predeterminati. Il reddito di
base, la rivendicazione che sovvertirebbe l’ordine esistente, invece, spetta a
tutti coloro che non ne hanno un altro; non a chi fa un determinato lavoro e
per il fatto che lo fa.
Il lavoro retribuito produce profitto per il capitalista e “crescita” per
la società: cioè, in entrambi i casi, accumulazione del capitale. Il cosiddetto
lavoro riproduttivo non lo fa, se non indirettamente, come condizione
irrinunciabile del lavoro produttivo. Per questo non viene contabilizzato nel
Pil e nei bilanci aziendali, anche se è condizione di entrambi. È evidente
che un approccio che mira ad assimilare la cura al lavoro produttivo
lascia intatta una divisione dei ruoli propria del patriarcato, sancendo la
superiorità del lavoro retribuito, di qualsiasi genere esso sia, rispetto alle
attività di cura erogate a titolo gratuito.
Questo approccio ha finito per equiparare al lavoro retribuito anche tutte
le attività quotidiane oggetto di rilevazione, elaborazione e vendita di dati
da parte dei grandi player del capitalismo delle piattaforme.
Si legittima la rivendicazione di un reddito di base incondizionato non
come un diritto universale, quando ce ne siano le condizioni, ma considerandolo
la “giusta” remunerazione delle informazioni che ciascuno fornisce alla rete,
seppure involontariamente. Ora, a parte che a erogare il reddito di base
dovrebbero essere lo Stato o un’entità pubblica, mentre ad appropriarsi e a
mettere a profitto i dati che generiamo sono delle società private, questo è
solo un altro modo per equiparare la vita quotidiana al lavoro salariato, nel
quadro di un mercato, per di più immaginario, che continua ad essere il quadro
di riferimento, la gabbia, di tutta l’esistenza.
Nel quadro concettuale definito dalla filosofia e dalle pratiche della
decrescita andrebbe invece promosso il movimento inverso: cercare di ricondurre
a cura tutto ciò che del lavoro può essere salvato, eliminando progressivamente
tutte le attività caratterizzate dall’incuria per gli effetti nocivi che hanno
su chi le svolge, o sull’ambiente, o su chi compra o utilizza i prodotti
dannosi messi in circolazione.
Si tratta di mirare a una redistribuzione oltre che del reddito, di tutte
quelle attività che superino il vaglio di un giudizio di utilità condiviso dai
membri di una comunità. Comunità che è interamente da ricostruire, ma alla cui
formazione concorre proprio la lotta contro le produzioni e i lavori che fanno
danno.
Sia il lavoro che la cura non sono attività isolate dal contesto in cui si
svolgono.
Il contesto del lavoro, salariato e no, oggi è quello definito
dall’individualismo (ciascuno è “imprenditore di se stesso”), dalla
globalizzazione, dall’omogeneizzazione dei comportamenti, dalla massificazione
dei consumi, dalla de-territorializzazione del potere decisionale, dalle
concentrazioni e centralizzazioni proprie di un’economia fondata sui
combustibili fossili. Il contesto della cura, e di una società della
cura, è un itinerario conflittuale contro le opere e i lavori inutili o
dannosi, per fare spazio alle attività che preservano e migliorano la vita e le
sue condizioni: tanto degli esseri umani che del resto del “vivente”. Ma
non può essere concepito come un assetto sociale compiuto e pacificato,
ancorché futuro, ma solo come un “work in progress” continuamente esposto al
rischio di fermarsi o di tornare indietro.
È un processo che implica una deglobalizzazione dei processi e delle catene
produttive, la rilocalizzazione di molte attività sia agricole che
manifatturiere, la riterritorializzazione dei poteri decisionali, la
rivalutazione dei rapporti personali e la riconnessione di ogni comunità con le
specificità del proprio territorio.
È un processo, inoltre, che non va pensato in termini gradualistici o
omogenei: si potrà sviluppare ora qui, ora là; ora avanzando e ora arrestandosi o
facendo un passo indietro: l’importante è salvaguardare, diffondere e
sviluppare le esperienze replicabili, in modo che anche quelle temporaneamente
sospese siano “semi di germogli futuri”, come scrive il collettivo
dell’ex-Gkn. Che già oggi, dopo un anno e mezzo di lotta, con il progetto della
“fabbrica pubblica socialmente integrata” e con una pratica concreta, ha messo
in campo un modello che unisce l’esigenza di un programma di produzione – un
piano industriale – compatibile con l’esigenza di una svolta ecologica radicale
al coinvolgimento sociale del territorio – e del suo governo – attraverso
l’inclusione e lo sviluppo di iniziative mutualistiche concrete al suo servizio
e a una rete di solidarietà e di condivisione di obiettivi e pratiche di
livello nazionale che coinvolge un numero crescente di territori e di fabbriche
in crisi. È un modello di governo di una lotta destinata a durare e un assetto organizzativo che per molti versi prefigura la strada che tutte
le comunità in fieri dovranno percorrere. Ma è anche la
sostanza di ciò che occorre per avviare un processo di convergenze fattuali
fondate sulla priorità assegnata alle attività di cura.
Nessun commento:
Posta un commento