domenica 13 novembre 2022

Nel mercato più grande d’Europa - Marco Arturi

 

Questa mattina sono andato a fare la spesa nel mercato più grande d’Europa. Non che sia questa impresa, visto che ce l’ho a cinque minuti da casa. È che mentre ero lì, mentre cercavo di farmi spazio nella fiumana che scorre nelle corsie tra un banco e l’altro, ho pensato a un sacco di cose.

Guardavo i prezzi, intanto: per darvi un’idea, peperoni a 1,5 euro al chilogrammo, finocchi a 1, broccoletti a 1,5, cavolfiori a 2. Negli altri mercati della città, e pure nei supermercati, li trovi al triplo o giù di lì.
Poi ho pensato agli sguardi schifati che farebbero quelli che sanno vivere di fronte a certi prezzi: “Sei un’irresponsabile a comprare ‘sta roba, sai che qualità e poi ti rendi complice del caporalato. Un peperone a meno di 4, 5 euro al chilo non esiste”. Allora ho pensato all’inflazione al 12 per cento (13,1 nel carrello della spesa) e al fatto che tutti si lagnano ma nessuno fa nulla; in Francia arrivati al 6,5 per cento hanno dato fuoco alle polveri. Ma la verità è che l’aumento dei prezzi fa male davvero solo a chi già aveva problemi; e siamo sempre lì, parlo di quell’italiano su dieci. Gli altri nove sono partiti per il ponte, che vuoi che ne sappiano.

Poi ho visto quelli – soprattutto vecchi – che raccoglievano frutti e ortaggi che scivolavano giù dai banchi e li infilavano nella sporta: per loro niente ponte, niente vacanze, nessuna tregua mai. E poi quelli che litigavano per un euro, le donne arabe rapide e silenziose che conoscevano ogni banco a memoria, le africane brusche e abilissime nella contrattazione, e poi quelli che rovistavano negli scarti.

Poi ho pensato a quelli per i quali in questi giorni il vero problema è rappresentato dagli articoli determinativi utilizzati dal/la presidente/a del consiglio/a. E che col cazzo che siamo tutti la stessa cosa: non c’è un paese solo neanche per idea, ma a distinguerci è l’eterno muro tra chi può e chi non può, tra chi ha e chi non ha. Altro che distinzioni di razza, di nazionalità, di livello di istruzione.

Insomma alla fine stavo bene lì, tra gli arabi, i neri, i cinesi e gli italiani con le pezze al culo come me. E ho pensato che, nessuno me ne voglia, la mia razza è quella.

Quando venivo via ho incontrato due ragazzi marocchini dei tempi della fabbrica. Di mestiere pulivano i cessi, erano i proletari tra i proletari. Mi hanno fatto un sacco di feste perché si ricordavano che, anche se lavoravano in appalto e non erano italiani né sindacalizzati non ho mai fatto differenze tra loro e gli altri operai. Ce la siamo raccontata per una mezz’ora e vi garantisco che non ho ancora capito chi di noi tre sta messo peggio. Poi mentre ci salutavamo uno di loro, Hassan, mi ha stretto la spalla e mi ha detto “Non ti avvelenare fratello, non farti uccidere dalle preoccupazioni perché la vita poi si sistema sempre da sola”.

C’era un bel sole caldo, oggi, e Porta Palazzo è un posto che sa essere meraviglioso in una giornata così: la confusione, i clacson, i vaffanculo, i ragazzi che si dicono “bella zio”, le grida dei bancarellari, gli odori che si mischiano, i parcheggiatori, le ragazze che passano e tu ci lasci il cuore dietro e soprattutto il sorriso di chi è abituato a strappare la vita a morsi. La vita, dico.

da qui

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