Questa mattina sono andato a fare la spesa nel mercato più grande d’Europa. Non che sia questa impresa, visto che ce l’ho a cinque minuti da casa. È che mentre ero lì, mentre cercavo di farmi spazio nella fiumana che scorre nelle corsie tra un banco e l’altro, ho pensato a un sacco di cose.
Guardavo i prezzi, intanto: per darvi un’idea, peperoni a 1,5 euro al chilogrammo, finocchi
a 1, broccoletti a 1,5, cavolfiori a 2. Negli altri mercati della città, e pure
nei supermercati, li trovi al triplo o giù di lì.
Poi ho pensato agli sguardi schifati che farebbero quelli che sanno vivere di
fronte a certi prezzi: “Sei un’irresponsabile a comprare ‘sta roba, sai che
qualità e poi ti rendi complice del caporalato. Un peperone a meno di 4, 5 euro
al chilo non esiste”. Allora ho pensato all’inflazione al 12 per cento (13,1
nel carrello della spesa) e al fatto che tutti si lagnano ma nessuno fa nulla;
in Francia arrivati al 6,5 per cento hanno dato fuoco alle polveri. Ma la
verità è che l’aumento dei prezzi fa male davvero solo a chi già aveva
problemi; e siamo sempre lì, parlo di quell’italiano su dieci. Gli altri nove
sono partiti per il ponte, che vuoi che ne sappiano.
Poi ho visto quelli – soprattutto vecchi – che raccoglievano frutti e
ortaggi che scivolavano giù dai banchi e li infilavano nella sporta: per loro
niente ponte, niente vacanze, nessuna tregua mai. E poi quelli che litigavano
per un euro, le donne arabe rapide e silenziose che conoscevano ogni banco a
memoria, le africane brusche e abilissime nella contrattazione, e poi quelli
che rovistavano negli scarti.
Poi ho pensato a quelli per i quali in questi giorni il vero problema è rappresentato dagli articoli determinativi utilizzati dal/la presidente/a del consiglio/a. E che col cazzo che siamo tutti la stessa cosa: non c’è un paese solo neanche per idea, ma a distinguerci è l’eterno muro tra chi può e chi non può, tra chi ha e chi non ha. Altro che distinzioni di razza, di nazionalità, di livello di istruzione.
Insomma alla fine stavo bene lì, tra gli arabi, i neri, i cinesi e gli
italiani con le pezze al culo come me. E ho pensato che, nessuno me ne voglia,
la mia razza è quella.
Quando venivo via ho incontrato due ragazzi marocchini dei
tempi della fabbrica. Di mestiere pulivano i cessi, erano i proletari tra i
proletari. Mi hanno fatto un sacco di feste perché si ricordavano che, anche se
lavoravano in appalto e non erano italiani né sindacalizzati non ho mai fatto
differenze tra loro e gli altri operai. Ce la siamo raccontata per una mezz’ora
e vi garantisco che non ho ancora capito chi di noi tre sta messo peggio. Poi
mentre ci salutavamo uno di loro, Hassan, mi ha stretto la spalla e mi ha detto
“Non ti avvelenare fratello, non farti uccidere dalle preoccupazioni perché la
vita poi si sistema sempre da sola”.
C’era un bel sole caldo, oggi, e Porta Palazzo è un posto che sa essere
meraviglioso in una giornata così: la confusione, i clacson, i
vaffanculo, i ragazzi che si dicono “bella zio”, le grida dei bancarellari, gli
odori che si mischiano, i parcheggiatori, le ragazze che passano e tu ci lasci
il cuore dietro e soprattutto il sorriso di chi è abituato a strappare la vita
a morsi. La vita, dico.
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