È evidente come la cultura dominante sia una cultura
gerarchica di guerra e di violenza in cui la militarizzazione è presente in
ogni ambito, siamo in un mondo in guerra anche se alla guerra si danno nomi che
la negano come “missioni di pace” o “interventi umanitari”. Sicuramente le
cause scatenanti delle guerre sono sempre le stesse ciniche ed eterne ragioni
di interesse economico e politico, ma le radici storiche delle guerre risiedono
nell’ordine simbolico patriarcale ovvero nella costruzione storica dei modi di
essere donne e uomini, imperniata ovunque sul binarismo di genere, sulla
gerarchizzazione, sull’affermazione di una virilità aggressiva che legittima
socialmente la violenza contro le donne e i soggetti altri, codificando il
potere di un solo genere, trasformando l’altr@ in nemico e portando a percepire
come necessario e giusto l’ordine materiale e mentale della guerra. La guerra
rende così ancor più evidente – se mai ce ne fosse bisogno – l’incapacità,
intrinseca alla cultura patriarcale, di accettare l’esistenza nel mondo
dell’altr@, del diverso da sé, di più soggetti dialoganti fra loro,
sottomettendo tutte le soggettività che non siano maschi bianchi eterosessuali
perfettamente inseriti nella logica dominante. Questa incapacità di elaborare
positivamente il rapporto con l’altr@ è uno dei nodi cruciali del nostro tempo
fatto di particolarismi, nazionalismi, integralismi, separatismi, in cui la
violenza di genere è il sintomo dell’incapacità maschile di guardare in faccia
l’altr@ senza sottometterla.
Nazionalismo e sessismo. Le frontiere, come
dovrebbe essere noto, rappresentano un’astratta imposizione e il nazionalismo,
dietro la cui arcaica mitologia si continuano a trascinare interi paesi in
guerra, rappresenta in realtà la costruzione più originaria di un ordine
patriarcale e universale, fondato storicamente sull’esclusione del femminile e
sulla differenziazione rigida dei ruoli sessuali. La costruzione dell’identità
nazionale è da sempre organizzata attraverso un modello di società ordinata in
ruoli differenziati di classe, di appartenenza etnica e di sesso in uno stretto
intreccio fra patriarcato e nazionalismo, fra etnia e genere. Basti ricordare
l’ossessione demografica, tipicamente nazionalista, della supremazia del
proprio popolo affermata attraverso lo strumento della riproduzione, cosicché
il primo dovere delle donne nella nazione è la maternità. Non a caso Mussolini
sosteneva che “la guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna”. Per
non parlare del silenzio assordante sulle numerosissime violenze di genere
commesse durante il colonialismo, italiano e non solo: d’altronde, da quando
esistono le guerre, i corpi delle donne sono sempre stati “bottino di guerra”
e, come vedremo, guerra e stupro sono un binomio inscindibile, in ogni tempo e
a ogni latitudine.
Razzismo e sessismo. Il militarismo
viene spesso giustificato sulla pelle delle donne e in particolare le politiche
securitarie del nuovo millennio trovano largo consenso grazie a una fantomatica
esigenza di protezione delle donne da salvaguardare dalle cosiddette “invasioni
barbariche” dei flussi migratori. La violenza di genere è utilizzata come
dispositivo per agitare allarmi sociali, per giustificare provvedimenti
repressivi, per riprodurre retoriche emergenziali e allo stesso tempo per
costruire un ordine sociale eteronormativo, in un rinnovato nesso tra sessismo
e razzismo. È infatti evidente la tendenza a strumentalizzare i crimini di
genere, purché commessi da altri, per compiacere gli umori collettivi più
malsani e varare misure legislative di stampo razzista-securitario (operazioni
speciali, stati d’emergenza, videosorveglianza, pattuglie, esercito nelle
strade, etc.), rappresentando al contempo le donne come vittime incapaci della
propria autodifesa, come corpi la cui tutela spetta all’uomo e allo Stato.
In
realtà la violenza maschile non conosce differenze di classe, etnia, cultura,
religione o appartenenza politica: lo stupro è ovunque trasversale. La violenza
di genere continua a essere trattata come devianza di singoli o come
responsabilità da addossare alla nazionalità degli aggressori, mentre in realtà
essa è strutturata all’interno della società e della famiglia. Ricordiamoci che
lo stupro non ha nulla a che fare col desiderio sessuale e che la violenza di
genere è sempre uno strumento di potere funzionale a mantenere il dominio
storico di un genere sull’altro.
È significativo
notare come il fenomeno, persistente e strutturale, delle violenze sessuali
compiute da cittadini italiani, talvolta in divisa, non suscita alcun allarme
pubblico. Per fare solo un esempio recentissimo, pensiamo ai numerosi casi di
molestie e violenze prontamente denunciate da NonUnadiMeno durante l’ultima
adunata nazionale degli Alpini a Trento nel maggio 2018. Si continua a far
finta di non vedere che in Italia, così come nel resto del mondo, la maggior
parte delle violenze maschili sulle donne si consuma nell’ambito di relazioni
di prossimità, in ambienti intimi, familiari e amicali: l’aggressività maschile
è la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne in tutto il
mondo. Mentre le donne conquistano margini crescenti di libertà, autonomia e
consapevolezza, i meccanismi strutturali della discriminazione di genere non
mutano; anzi, proprio la conquista di quei margini di autonomia incrementa
frustrazione e rancore nei confronti delle donne in una buona parte del mondo
maschile, attraversato sempre più dalla crisi della virilità tradizionale.
Lo stupro come arma di guerra In contesti di
guerra la violenza di genere si amplifica ancor di più. È importante ricordare
che le donne rappresentano la maggioranza delle vittime civili in guerra e la
maggioranza dei profughi, sia prima, sia durante e persino dopo ogni conflitto.
Inoltre le donne – e spesso sono bambine – in contesti di guerra (ma non solo),
subiscono spesso abusi, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, stupri,
mutilazioni dei genitali, gravidanze forzate e ogni tipo di violazione dei loro
corpi e delle loro volontà, tutte azioni volte a colpire deliberatamente ed in
forma specifica la vita, i corpi e la libertà delle donne. In particolare lo
stupro, elemento chiaramente strutturale della società patriarcale, si salda
con il discorso nazionalista e militarista, diventando violenza razionale e
scientifica, affermandosi come vero e proprio strumento di guerra tramite il
quale il corpo delle donne diventa ancora di più il terreno su cui affermare il
proprio dominio assoluto.
Molte volte gli
stupri di massa sono stati usati come vera e propria arma bellica per
costruire, da un lato, odio e separazione netta fra gruppi umani, dall’altro,
per inscrivere nei corpi delle donne “altrui” il segno del disonore prodotto
dal seme del vincitore, saccheggiando i corpi femminili da sempre considerati
proprietà esclusiva del maschio. Pensiamo alla pulizia etnica nella ex
Jugoslavia, ma anche al Burundi o al Ruanda dove solo nel 1994
duecentocinquantamila donne hanno subito violenza sessuale e tra di loro il 70%
ha contratto l’Hiv con conseguenze quasi sempre mortali, alla Palestina e
all’uso politico della violenza di genere da parte del governo di Erdoğan in
Kurdistan.
È importante notare
come lo stupro accompagni tutte le guerre e come esso non sia da considerarsi,
come spesso avviene, una deplorevole ma inevitabile conseguenza secondaria
della guerra. Lo stupro in guerra rappresenta “un atto consueto con una
scusante consueta”, tanto che persino una risoluzione delle Nazioni Unite ha
dovuto riconoscere che lo stupro costituisce una vera e propria tattica di
guerra. Sono almeno 41 i Paesi dove sono avvenuti stupri di guerra a partire
dalla Seconda guerra mondiale, ma la lista ovviamente è ancora aperta alle
continue violenze sessuali che stanno accadendo a tutt’oggi nei conflitti
armati in atto. In tutto ciò, un ruolo significativo è svolto della Chiesa
cattolica che da sempre costringe le donne a maternità forzate condannando
l’aborto anche in caso di stupro: per la Chiesa infatti neanche in caso di
stupro di guerra è lecito abortire. Papa Wojtyla ad esempio ha intimato di non
abortire alle trentamila donne bosniache stuprate durante la “pulizia etnica”
sostenendo che lo stupro etnico non fa eccezione alla regola della Chiesa per
la quale l’aborto è sempre e comunque l’uccisione di una vita innocente, così
come ribadito ancora recentemente da papa Bergoglio.
Lo stupro come arma di pace. Lo stupro però non
si configura purtroppo solo come arma di guerra ma anche come arma di pace, e
in un duplice senso. Anzitutto la violenza di genere è – come purtroppo
sappiamo – decisamente comune anche nei cosiddetti tempi di pace; in secondo
luogo perché, da quando esistono le forze cosiddette di pace internazionali, vi
è una regolarità allarmante di violenze, stupri, prostituzione forzata,
sfruttamento e ricatti sessuali esercitati dai cosiddetti “portatori di pace”.
Per fare alcuni esempi, limitandoci agli anni Duemila, violenze da parte dei
Caschi Blu si sono registrate in Eritrea, Burundi, Liberia, Guinea, Sierra
Leone, Haiti, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Benin, Sud
Sudan, Repubblica Centroafricana e Somalia. Secondo un’indagine delle stesse
Nazioni Unite, nel solo periodo tra il 2008 e il 2013 i Caschi blu si sono resi
responsabili di almeno quattrocentoottanta casi di sfruttamento e violenze
sessuali, un terzo dei quali ai danni di minori. È necessario ricordare poi
come la violenza sessuale e lo stupro siano una costante nelle zone
militarizzate intorno alle basi, anche in contesti relativamente pacifici. Molto noto è il caso della base statunitense a Okinawa in Giappone, ma questo
avviene ovunque vi sia una base militare, come ad esempio a Vicenza. A ciò si
accompagna lo sviluppo di una sorta di “industria del sesso” nelle vicinanze
delle basi dove il ricatto e la violenza sessuale sono costantemente all’ordine
del giorno.
Lo stupro infine
segna purtroppo, ogni giorno, anche il percorso di molte delle donne migranti
in fuga dalle guerre. A tal proposito è significativo ricordare come la
Convenzione di Ginevra non preveda nulla in materia di asilo politico per i
maltrattamenti alle donne. L’Unione Europea, così falsamente ricca di parole e
documenti sui diritti delle donne, è totalmente sorda di fronte a una donna
migrante alla ricerca di asilo perché costretta a fuggire dalla violenza e
dalle minacce alla sua libertà; anzi numerosi sono i casi di stupro all’interno
dei centri di detenzione per migranti e molti i ricatti sessuali da parte degli
operatori umanitari, civili e militari, nei campi profughi. Solo nel 2017 e
solo in Inghilterra 120 operatori delle più grandi Ong sono stati accusati di
molestie sessuali. Proprio a fine luglio 2018 il Parlamento britannico, in un
suo rapporto, ha dovuto ammettere come gli abusi sessuali su donne e bambine da
parte di cooperanti di moltissime Ong internazionali siano “endemici”, noti da
tempo e coperti dalla complicità di numerosissime organizzazioni che operano
nel campo degli aiuti umanitari.
Conclusioni. Per
concludere, ci teniamo a sottolineare come il nostro non voglia essere in alcun
modo un discorso vittimista nei confronti delle donne, riteniamo però che, dal
momento che la guerra è intrinseca al sistema patriarcale, non si può pensare
di sconfiggerla senza sciogliere il nodo del patriarcato che sopravvive – in
modi diversi ma sempre distruttivi – in tutte le società e le religioni, e che
purtroppo è stato spesso introiettato anche dalle soggettività oppresse. Le
stesse donne talvolta si appropriano dei valori patriarcali più brutali:
pensiamo ad esempio alla recente presentazione delle prime donne celerine o
alle ormai numerose donne nell’esercito dimentiche che è stato dimostrato come
per una donna soldato il rischio di essere assaltata in missione da un proprio
commilitone sia molto più alto della probabilità di essere uccisa dal nemico in
battaglia.
La decostruzione del patriarcato è radice del femminismo e per
questo motivo è imprescindibile e necessaria una riflessione femminista (e
transfemminista) su militarismo, razzismo e nazionalismo in grado di
contribuire ad elaborare un diverso orizzonte. Il movimento femminista e
libertario ha origine proprio nel riconoscersi come fondato sulla relazione con
l’altr@, nella solidarietà e nella giustizia sociale, in una visione basata non
sulla sopraffazione ma sull’equilibrio tra gli opposti. In questo modo è
possibile forse trovare strumenti nuovi alla ricomposizione dei conflitti,
accettando l’esistenza dell’altr@ nella sua irriducibile diversità in modo da
sciogliere il nodo del militarismo.
Dal momento che la militarizzazione si
riflette anche nella separazione rigida tra i ruoli sessuali in cui le donne
sono viste spesso come madri, immagini della cura e della salvaguardia della
vita, e gli uomini come guerrieri e strateghi della distruzione, è necessario
“smilitarizzare” le menti, nelle relazioni personali così come nello spazio
pubblico. Le discriminazioni, come sappiamo, non viaggiano mai da sole:
razzismo, militarismo e sessismo sono facce diverse della stessa medaglia. Il
cambiamento deve perciò partire certamente da un sovvertimento radicale della
società, con una lotta aperta alle disuguaglianze che risolva definitivamente
la questione sociale. Ma la rivoluzione sociale, in senso anarchico e libertario,
deve accompagnarsi, sin dall’inizio, con un cambiamento profondo dell’habitus
mentale, prendendo coscienza della necessità di presa di parola da parte delle
donne e di tutte le soggettività oppresse dal momento che l’autodeterminazione
e la libertà sono gli unici strumenti validi per combattere dalle radici sia la
violenza di genere sia il militarismo insito nella società etero-patriarcale. È
necessario quindi cambiare la struttura sociale e il rapporto tra i sessi, non
dimenticando l’importanza di una riflessione – da parte di tutte e tutti – su
significati e ruoli imposti dalle contraddizioni di genere
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