Il 28 luglio 1951 l’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite adottò la Convenzione
di Ginevra sullo Status dei Rifugiati, strumento molto importante per la gestione dei
flussi migratori. Tuttavia, l’imminente anniversario di tale strumento ci
ricorda quanto, dalla sua adozione, i passi avanti siano stati ben pochi.
Infatti, a parte il Protocollo Addizionale del 1967, con il quale sono state
eliminate la clausola geografica e quella temporale, che limitavano l’applicazione
della Convenzione a fatti avvenuti in Europa prima del gennaio 1951, non è
avvenuto altro cambiamento nell’ambito di applicazione di tale strumento.
Eppure, con la crescita dei disastri
ambientali imputabili al cambiamento climatico, sempre più individui
sono soggetti a gravi danni alla loro persona e ai loro beni, e spesso sono
costretti a migrare. Migliaia rimangono all’interno del proprio Paese, andando
ad ingrandire la già enorme categoria degli sfollati interni,
che, peraltro, non è protetta dalla suddetta Convenzione. Altre migliaia
invece, abbandonano il proprio Paese per cercare rifugio in altri.
Eppure, la figura del migrante
climatico non è riconosciuta a livello internazionale, e questi
individui non ricevono adeguata protezione.
Infatti, ai sensi della Convenzione del 1951, il
rifugiato è colui che
nel giustificato timore d’essere perseguitato per la
sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un
determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello
Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole
domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e
trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non
può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.
È evidente come i migranti climatici non ricadano
sotto tale definizione. Ciò è anche dovuto al momento di stesura e adozione
della Convenzione. Risulta comunque inaccettabile come tale strumento non sia stato
modificato per permetterne una maggiore applicazione. Ciò è maggiormente
problematico in quanto difficilmente gli Stati aprono
le proprie frontiere ai migranti climatici.
La crisi climatica: un fenomeno in aumento
La grande necessità di agire nei confronti del
cambiamento climatico è enfatizzata anche dai dati scientifici, che mostrano
quante persone abbiano subito conseguenze a causa di disastri ambientali. Non
tutti sono colpiti in egual modo: i più poveri e socialmente
fragili sono maggiormente a rischio di subire le conseguenze del cambiamento
climatico.
Un grande problema però, è quello legato alla difficoltà di calcolo del numero di persone che effettivamente
migrano per problemi legati al mutamento climatico. Questa
difficoltà sorge anche perché le migrazioni non avvengono mai
per una ragione univoca.
Spesso un disastro ambientale può essere l’ultima
spinta verso tale soluzione, ma alla base della decisione di abbandonare tutto
ciò che si conosce e che si possiede, è una fitta rete di ragioni economiche,
sociali e politiche. Inoltre, i disastri ambientali non sono tutti dello stesso
tipo: alcuni sono immediati, come incendi e alluvioni, ma altri impiegano anni
per formarsi e creare problemi, come la siccità e l’aumento delle temperature.
Eppure, nonostante la grande
incertezza, i numeri indicano come le migrazioni e i disastri ambientali stiano
continuando ad aumentare. I dati presentati dall’Internal Displacement Monitoring Center (IDMC), mostrano come
nel 2020, dei 40 milioni e mezzo di nuovi sfollati interni, 30 milioni e 700
mila persone sono fuggite a causa dei disastri ambientali. Nel 2022 il numero degli sfollati interni che si è mosso a causa
di disastri ambientali è cresciuto del 45% rispetto ai dati del 2021,
mentre quello di coloro che si sono mossi a causa dei conflitti è cresciuto del
17%.
Risulta molto difficile anche fare previsioni in merito
ai numeri futuri di migranti climatici, con stime che vanno da 25 milioni a un
miliardo di persone che si sposteranno entro il 2050.
La Banca Mondiale ha provato ad evidenziare tre
differenti scenari di quella che potrebbe essere la situazione
entro il 2050. Il primo vede il movimento di 143 milioni di persone se non ci
saranno misure significative per ridurre l’emissione di gas serra e percorsi di
sviluppo migliori. Il secondo, solo con percorsi di sviluppo migliori, vede il
movimento di un numero tra 65 e 105 milioni di persone. Infine, il terzo
scenario vede un numero di migranti climatici tra i 31 e i 72 milioni di
persone nel caso in cui si intraprenda una strada significativa in modo tale
che il riscaldamento globale non oltrepassi 1.6 gradi centigradi.
Come riportato dal Global
Risk Report, per la
prima volta nel 2020 i rischi globali in cima alla lista in termini di
probabilità erano tutti riconducibili al cambiamento climatico. Il 90% dei
disastri avvenuti tra il 1995 e il 2015 sono dovuti al cambiamento climatico.
Nonostante l’aspetto naturale di tali disastri, è evidente il contributo
dell’uomo attraverso le sue azioni, quali l’eccessiva emissione di anidride
carbonica e l’estensiva deforestazione.
Il caso Teitiota v. Nuova Zelanda: un’opportunità mancata
Purtroppo, i migranti climatici non ricevono l’aiuto e
il sostegno necessari, come evidenziato dal caso Teitiota contro Nuova Zelanda. Esso è
considerato da molti studiosi come una grande opportunità (mancata) per
riconoscere maggiore protezione ai migranti climatici. Tuttavia, la decisione
del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha segnato un grande
limite, demarcando soglie di rischio e sofferenza troppo alte perché qualcuno
ottenga l’aiuto necessario in quanto migrante climatico.
Il signor Teitiota, cittadino della Repubblica di
Kiribati, lasciò il Paese in seguito ai disastri ambientali che portarono al
declino della qualità di vita. Nel 2007 si trasferì con la moglie in Nuova
Zelanda, dove restarono anche dopo la scadenza del loro visto nel 2010. Due
anni dopo, l’uomo fece richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato,
affermando di aver lasciato il proprio Paese a causa delle precarie condizioni
di vita dovute al cambiamento climatico.
Una volta esauriti i ricorsi interni, poiché tale
status non gli era stato riconosciuto, il signor Teitiota si rivolse al
Comitato per i Diritti Umani. Tale organo si espresse mediante lo strumento
delle Osservazioni nel 2019, negando di poter
affermare che il diritto alla vita del ricorrente fosse stato violato.
Tuttavia, alcuni suoi membri allegarono alle Osservazioni delle opinioni
individuali dissenzienti, evidenziando come non fossero d’accordo con la
decisione del Comitato.
In particolare, risultano importanti quelle del signor
Muhumuza, il quale sottolineò come l’approccio adottato dal Comitato avrebbe
dovuto essere più sensibile. Egli ritenne che l’organo avesse posto una soglia
troppo alta per constatare la presenza di una violazione dei diritti umani.
Inoltre, aggiunse come questo fosse controproducente allo scopo della
protezione della vita.
In effetti, tale posizione del Comitato risulta
particolarmente dibattuta, soprattutto per via delle varie prove fornite dal
Signor Teitiota in merito alle gravi condizioni di vita nella Repubblica di
Kiribati. Tra queste, la difficoltà di ottenere acqua potabile e le conseguenti
malattie, come l’avvelenamento del sangue cui uno dei figli del ricorrente fu
esposto.
Nonostante ci siano ancora molti passi avanti da fare,
si possono evidenziare alcune note positive. In alcuni Stati, come la Svezia e la Finlandia, è stato formalizzato il riconoscimento
del diritto di asilo ai migranti ambientali nella normativa nazionale. Piccoli passi che potrebbero
spianare la strada per una maggiore protezione a livello internazionale.
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