A inizio luglio un gruppo di organizzazioni ambientaliste ha scritto all’unità dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che cura i contenuti e la pubblicazione del Rapporto sul consumo di suolo lamentando il trattamento che l’Ispra riserva alla pannellizzazione solare, laddove si dice che questa consumi suolo, seppur temporaneamente e in maniera reversibile.
Circostanza che è peraltro confermata dalla recente proposta di Direttiva europea
per il monitoraggio dei suoli (COM(2023) 416 final). Le realtà
firmatarie concludono, con una certa pressione, invitando l’Ispra a non
confermare questa tesi.
Come membro del comitato scientifico del Rapporto nazionale sul consumo di
suolo mi pare corretto dare un contributo al dibatto e – lo dico subito –
confermare la posizione cauta e saggia dell’Ispra. Oltre a esprimere
fondate perplessità sulla pannellizzazione dei suoli, come peraltro ho già scritto in più occasioni. Spiego perché.
Da un lato tutti noi puntiamo a una transizione energetica verso
fonti non fossili e il solare rappresenta una chiara opportunità che, però, non
deve in nessun modo farci dimenticare che qualsiasi forma di generazione
energetica implica un impatto sull’ambiente (Tsoutsos et al., 2005).
L’Italia è evidentemente un luogo ideale per il fotovoltaico e questo fa sì che
abbia gli occhi degli sviluppatori finanziari puntati addosso. La via
più facile e redditizia è quella di installare a terra i pannelli. Di questo ne
siamo tutti consapevoli. Ma è evidente che laddove ci sono queste
infrastrutture non ci saranno altre cose, a partire dall’agricoltura e, quindi,
si ridurrà la produzione di cibo e la garanzia di soddisfare le esigenze del
fabbisogno alimentare interno e pure di esportazione.
A mitigare tale dilemma è arrivata l’invenzione dell’agrivoltaico, ovvero
l’installazione di pannelli sospesi a una certa altezza dal terreno,
immaginando così che al di sotto possano continuare coltivazioni e produzioni
agricole. Ma non è del tutto vero. E lo dimostrano, senza
volerlo, i criteri suggeriti dal fu ministero della Transizione ecologica
(Mite) per la selezione dei territori più adatti: quelli più alti
previsti si trovano a 2,1 metri dal suolo, ipotizzando che quell’altezza sia
sufficiente a garantire l’uso dei macchinari per la gestione delle colture.
Questo è vero solo in parte visto che, ad esempio, una mietitrebbia è alta
quasi il doppio (3,99 metri). Pertanto non tutte le coltivazioni (ma di qualità
agroecologica delle coltivazione non si parla in quel documento) saranno
ammissibili, e questo inizia già ad avere un peso in quanto implica un impatto
sulle pratiche agricole.
Per mitigare l’impatto sulla produzione agricola, quei criteri prevedono di
riutilizzare parzialmente i campi distanziando le fila dei pannelli così da
coltivarci in mezzo. Vero, ma anche in questo caso la produzione si ridurrebbe
visto che parte della superficie sarebbe comunque occupata dalle
infrastrutture. E non si considera che le manovre dei trattori potrebbero
danneggiarle, causando costi non indifferenti. In ogni caso la soluzione per
file distanziate implica una maggior estensione di terreno agricolo utilizzato
con il conseguente maggior impatto paesaggistico, cosa non ininfluente visto
che un pezzo importante della nostra economia si basa sulla bellezza dei nostri
paesaggi. In ogni caso quei criteri necessitano di significativi
approfondimenti: molte questioni infatti sono trascurate o affrontate troppo
superficialmente come, appunto, l’impatto sui suoli e la loro qualità
ecosistemica.
È chiaro che sui siti delle aziende produttrici, delle società di
investitori e degli installatori di pannelli solari non si parla di problemi
anzi, se ne sottolinea persino l’impatto positivo sui suoli. Ma l’argomento
a loro più congeniale, e che viene spinto con più forza, è il vantaggio
finanziario. Lo stesso che viene utilizzato abbondantemente anche dal ministero
per spiegare agli agricoltori la convenienza della pannellizzazione a terra, o
leggermente sospesa.
Tutti presi a convincere le aziende agricole che il loro reddito non
diminuirà con l’occupazione solare dei loro terreni (anzi). E quindi che
problema c’è? Il problema c’è eccome ed è ecologico-ambientale, cosa che,
purtroppo, interessa poco a investitori, finanza e rivenditori di energia.
Cercando in letteratura scientifica scopriamo innanzitutto che sono molti i
sospetti di impatto e troppo pochi gli studi per decidere con sicurezza (Lambert, 2021), il che dovrebbe indurci a non essere precipitosi
nel dire che i parchi solari sono sostenibili al 100% ed evitare di installarne
a terra prima di avere evidenze scientifiche in grado di sgombrare il campo dai
dubbi. Dubbi che, però, non mancano dal momento che gli studi indipendenti
condotti fino a oggi non eliminano affatto la tesi dell’impatto sui suoli, a
partire dalla riduzione quali-quantitativa della produzione agricola e sulle
funzioni ecosistemiche dei suoli.
Quentin Lambert, ricercatore presso l’Institut méditerranéen de
biodiversité et d’ecologie marine et continentale dell’Università di
Aix-Marseille, ha portato a termine assieme ai suoi colleghi una lunga ricerca
su diversi siti solari monitorando ben 21 parametri. Le conclusioni non
sono al 100% favorevoli alla messa a terra dei pannelli. Ci dicono che la
qualità dei suoli generalmente peggiora nei parchi solari rispetto ad aree con
coperture semi-naturali.
Certo, se compariamo i parchi solari con le peggiori agricolture
industriali e contaminate da pesticidi e fertilizzanti di sintesi,
probabilmente otterremo conclusioni confortanti, ma non è questo il modo di
verificare le cose e non è quell’agricoltura il riferimento della
sostenibilità. Tornando a Lambert (2021), i suoi studi affermano che diminuisce la
stabilità degli aggregati del suolo (si autofrantumano e perdono potere
colloidale) e l’impatto sulla funzionalità delle piante rimane ancora poco
chiaro al punto da auspicare altri e nuovi studi per acclarare la cosa.
Inoltre, la necessaria e preventiva rimozione della vegetazione nelle fasi
costruttive innesca un iniziale declino di materia organica che va a ridurre di
molto la densità microbiologica dei suoli stessi il che, come sappiamo, è
l’inizio della sofferenza ecobiologica di questo delicatissimo e non
rinnovabile ecosistema dal quale dipendiamo in tutto e per tutto.
I pannelli riducono l’insolazione dei suoli riducendo la temperatura a
terra tra i due e i cinque gradi di giorno (ma solo in primavera-estate).
Questo non è automaticamente e solo un vantaggio. Di notte quella stessa
copertura inibisce il raffrescamento e quindi il gradiente di escursione
termica nei suoli sotto i pannelli peggiora rispetto alle condizioni ottimali (Tanner et al., 2020) di un suolo con
coperture seminaturali. Idem per l’umidità poiché i pannelli
intercettano la pioggia e variano la distribuzione uniforme. Di
conseguenza possono ridurre l’acqua trattenuta in terra specialmente nelle
regioni più calde e assolate (e in Italia non mancano). Moscatelli et al. (2022) ritengono ad esempio che in soli sette
anni di presenza di queste infrastrutture si modifica la fertilità dei suoli
per via della significativa riduzione della loro capacità di trattenimento
dell’umidità e della diminuzione globale di temperatura. Lo studio è stato
condotto in Italia, a Montalto di Castro, in provincia di Viterbo. Sotto i
pannelli la componente organica collassa (-61% di carbonio organico totale-Toc
e -50% di azoto totale-TN rispetto alle aree non coperte) e questo produce una
caduta dell’attività microbica ed enzimatica nei suoli ovvero, per dirla anche
in altro modo, una riduzione dello stoccaggio di carbonio con conseguente
diminuzione della biodiversità (che è invece preziosissima).
Quindi in soli sette anni la pannellizzazione in un sito italiano
monitorato induce una sostanziale modificazione delle proprietà biofisiche e
pure chimiche del suolo. Se è pur vero che questa occupazione del suolo
è temporanea, lo studio correttamente afferma che, stante i danni al suolo
arrecati durante il suo esercizio, occorre prevedere un forte impegno e
investimento per destinare nuovamente quei terreni alla produzione agricola al
termine del ciclo produttivo dell’impianto.
A questi impatti possiamo aggiungerne altri più difficili da calcolare e
spesso trascurati, come il fatto che i parchi fotovoltaici sono tutti recintati
e questo crea una barriera ecologica non indifferente che impatta sulla
biodiversità. E poi: la fase di cantierizzazione con i suoi movimenti terra; l’apertura
di nuove strade; la pur minima realizzazione di fondazioni e di cabine o
edifici di servizio; lo scavo per la realizzazione di cavidotti; la
risagomatura di cigli e morfologie di campo; la deviazione di fossati e piccoli
scoli, e così via.
Altrettanto trascurato, ma presente, è il tema del rischio di
contaminazione visto che i pannelli vengono puliti con detergenti chimici che,
inevitabilmente, si disperdono al suolo. Inoltre alcune tipologie
contengono piccole quantità di gas tossici e sostanze contaminanti che, in caso
di incidente o incendio, andrebbero a disperdersi nell’ambiente (Various,
1996). Per non parlare degli impatti percettivi sul paesaggio e/o quelli sul
regime delle acque. Tra l’altro molti di questi impatti sono ancor più
significativi e preoccupanti nel caso proprio dei grandi impianti piuttosto che
dei piccoli e distribuiti su piccoli tetti o piccole porzioni (Tsoutsos,
2005).
Insomma, ne abbiamo abbastanza per dire che i pannelli solari non sono
affatto indolore per il suolo, gli ecosistemi di superficie, le relazioni
ecosistemiche tra suolo e vegetazione, gli equilibri ambientali, il paesaggio.
Questi primi studi dovrebbero convincerci ad avere un atteggiamento meno
trionfalistico e più cauto. Troppe voci che si levano a dare il via libera ai
pannelli solari sui suoli agricoli e naturali (anche se “abbandonati”)
accendono il sospetto che siano la fretta o il business a fare
aprire molte bocche. Farei molta attenzione a non forzare le analisi
critiche dell’Ispra ma al contrario, e con fermezza, darei il via
libera per ora alla pannelizzazione solare limitatamente a quegli ambiti
territoriali già impermeabili e non paesaggisticamente rilevanti.
Abbiamo ettari ed ettari di superfici piane cementificate che possono
essere coperte di pannelli come i lastrici solari di edifici civili, pubblici e
soprattutto industriali, agricoli, zootecnici, commerciali e logistici: Ispra stima in
questo senso una potenzialità di superfici impermeabili non vincolate e
disponibile oscillante tra i 70 e i 90mila ettari a cui si potrebbero
aggiungere parcheggi, piazzali (altri 65mila ettari), infrastrutture (oltre
mezzo milione di ettari), siti contaminati. E molte di queste aree appartengono
al Demanio o ad altri enti pubblici, garantendo così che la produzione
energetica non finisca esclusivamente nelle mani dei privati (altra questione
non trascurabile e di cui non si parla).
Fino a quando avremo tutte queste disponibilità non vedo il motivo per dare
il via libera all’installazione sui terreni agricoli, tanto più che gli studi
non sono affatto convinti che non vi siano effetti negativi. Non dobbiamo poi
dimenticare che la previsione di pannellizzazione in Italia potrebbe
rapidamente compromettere fino a 50mila ettari: una cifra enorme ed enormemente
preoccupante.
Se fossi nei panni delle organizzazioni ambientaliste che hanno firmato
quell’appello, quindi, lo ritirerei per attendere studi più confortanti e, per
non sbagliare, inviterei con forza la politica e gli investitori a fermare le
loro ambizioni sulle superfici libere. Oggi il principio di precauzione
deve dettare l’agenda delle decisioni. Ha fatto bene l’Ispra a dire
quel che ha detto.
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