venerdì 21 luglio 2023

Solare a terra e consumo di suolo - Paolo Pileri

 

A inizio luglio un gruppo di organizzazioni ambientaliste ha scritto all’unità dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che cura i contenuti e la pubblicazione del Rapporto sul consumo di suolo lamentando il trattamento che l’Ispra riserva alla pannellizzazione solare, laddove si dice che questa consumi suolo, seppur temporaneamente e in maniera reversibile.

Circostanza che è peraltro confermata dalla recente proposta di Direttiva europea per il monitoraggio dei suoli (COM(2023) 416 final). Le realtà firmatarie concludono, con una certa pressione, invitando l’Ispra a non confermare questa tesi.

Come membro del comitato scientifico del Rapporto nazionale sul consumo di suolo mi pare corretto dare un contributo al dibatto e – lo dico subito – confermare la posizione cauta e saggia dell’Ispra. Oltre a esprimere fondate perplessità sulla pannellizzazione dei suoli, come peraltro ho già scritto in più occasioni. Spiego perché.

Da un lato tutti noi puntiamo a una transizione energetica verso fonti non fossili e il solare rappresenta una chiara opportunità che, però, non deve in nessun modo farci dimenticare che qualsiasi forma di generazione energetica implica un impatto sull’ambiente (Tsoutsos et al., 2005). L’Italia è evidentemente un luogo ideale per il fotovoltaico e questo fa sì che abbia gli occhi degli sviluppatori finanziari puntati addosso. La via più facile e redditizia è quella di installare a terra i pannelli. Di questo ne siamo tutti consapevoli. Ma è evidente che laddove ci sono queste infrastrutture non ci saranno altre cose, a partire dall’agricoltura e, quindi, si ridurrà la produzione di cibo e la garanzia di soddisfare le esigenze del fabbisogno alimentare interno e pure di esportazione.

A mitigare tale dilemma è arrivata l’invenzione dell’agrivoltaico, ovvero l’installazione di pannelli sospesi a una certa altezza dal terreno, immaginando così che al di sotto possano continuare coltivazioni e produzioni agricole. Ma non è del tutto vero. E lo dimostrano, senza volerlo, i criteri suggeriti dal fu ministero della Transizione ecologica (Mite) per la selezione dei territori più adatti: quelli più alti previsti si trovano a 2,1 metri dal suolo, ipotizzando che quell’altezza sia sufficiente a garantire l’uso dei macchinari per la gestione delle colture. Questo è vero solo in parte visto che, ad esempio, una mietitrebbia è alta quasi il doppio (3,99 metri). Pertanto non tutte le coltivazioni (ma di qualità agroecologica delle coltivazione non si parla in quel documento) saranno ammissibili, e questo inizia già ad avere un peso in quanto implica un impatto sulle pratiche agricole.

Per mitigare l’impatto sulla produzione agricola, quei criteri prevedono di riutilizzare parzialmente i campi distanziando le fila dei pannelli così da coltivarci in mezzo. Vero, ma anche in questo caso la produzione si ridurrebbe visto che parte della superficie sarebbe comunque occupata dalle infrastrutture. E non si considera che le manovre dei trattori potrebbero danneggiarle, causando costi non indifferenti. In ogni caso la soluzione per file distanziate implica una maggior estensione di terreno agricolo utilizzato con il conseguente maggior impatto paesaggistico, cosa non ininfluente visto che un pezzo importante della nostra economia si basa sulla bellezza dei nostri paesaggi. In ogni caso quei criteri necessitano di significativi approfondimenti: molte questioni infatti sono trascurate o affrontate troppo superficialmente come, appunto, l’impatto sui suoli e la loro qualità ecosistemica.

È chiaro che sui siti delle aziende produttrici, delle società di investitori e degli installatori di pannelli solari non si parla di problemi anzi, se ne sottolinea persino l’impatto positivo sui suoli. Ma l’argomento a loro più congeniale, e che viene spinto con più forza, è il vantaggio finanziario. Lo stesso che viene utilizzato abbondantemente anche dal ministero per spiegare agli agricoltori la convenienza della pannellizzazione a terra, o leggermente sospesa.

Tutti presi a convincere le aziende agricole che il loro reddito non diminuirà con l’occupazione solare dei loro terreni (anzi). E quindi che problema c’è? Il problema c’è eccome ed è ecologico-ambientale, cosa che, purtroppo, interessa poco a investitori, finanza e rivenditori di energia.

Cercando in letteratura scientifica scopriamo innanzitutto che sono molti i sospetti di impatto e troppo pochi gli studi per decidere con sicurezza (Lambert, 2021), il che dovrebbe indurci a non essere precipitosi nel dire che i parchi solari sono sostenibili al 100% ed evitare di installarne a terra prima di avere evidenze scientifiche in grado di sgombrare il campo dai dubbi. Dubbi che, però, non mancano dal momento che gli studi indipendenti condotti fino a oggi non eliminano affatto la tesi dell’impatto sui suoli, a partire dalla riduzione quali-quantitativa della produzione agricola e sulle funzioni ecosistemiche dei suoli.

Quentin Lambert, ricercatore presso l’Institut méditerranéen de biodiversité et d’ecologie marine et continentale dell’Università di Aix-Marseille, ha portato a termine assieme ai suoi colleghi una lunga ricerca su diversi siti solari monitorando ben 21 parametri. Le conclusioni non sono al 100% favorevoli alla messa a terra dei pannelli. Ci dicono che la qualità dei suoli generalmente peggiora nei parchi solari rispetto ad aree con coperture semi-naturali.

Certo, se compariamo i parchi solari con le peggiori agricolture industriali e contaminate da pesticidi e fertilizzanti di sintesi, probabilmente otterremo conclusioni confortanti, ma non è questo il modo di verificare le cose e non è quell’agricoltura il riferimento della sostenibilità. Tornando a Lambert (2021), i suoi studi affermano che diminuisce la stabilità degli aggregati del suolo (si autofrantumano e perdono potere colloidale) e l’impatto sulla funzionalità delle piante rimane ancora poco chiaro al punto da auspicare altri e nuovi studi per acclarare la cosa. Inoltre, la necessaria e preventiva rimozione della vegetazione nelle fasi costruttive innesca un iniziale declino di materia organica che va a ridurre di molto la densità microbiologica dei suoli stessi il che, come sappiamo, è l’inizio della sofferenza ecobiologica di questo delicatissimo e non rinnovabile ecosistema dal quale dipendiamo in tutto e per tutto.

I pannelli riducono l’insolazione dei suoli riducendo la temperatura a terra tra i due e i cinque gradi di giorno (ma solo in primavera-estate). Questo non è automaticamente e solo un vantaggio. Di notte quella stessa copertura inibisce il raffrescamento e quindi il gradiente di escursione termica nei suoli sotto i pannelli peggiora rispetto alle condizioni ottimali (Tanner et al., 2020) di un suolo con coperture seminaturali. Idem per l’umidità poiché i pannelli intercettano la pioggia e variano la distribuzione uniforme. Di conseguenza possono ridurre l’acqua trattenuta in terra specialmente nelle regioni più calde e assolate (e in Italia non mancano). Moscatelli et al. (2022) ritengono ad esempio che in soli sette anni di presenza di queste infrastrutture si modifica la fertilità dei suoli per via della significativa riduzione della loro capacità di trattenimento dell’umidità e della diminuzione globale di temperatura. Lo studio è stato condotto in Italia, a Montalto di Castro, in provincia di Viterbo. Sotto i pannelli la componente organica collassa (-61% di carbonio organico totale-Toc e -50% di azoto totale-TN rispetto alle aree non coperte) e questo produce una caduta dell’attività microbica ed enzimatica nei suoli ovvero, per dirla anche in altro modo, una riduzione dello stoccaggio di carbonio con conseguente diminuzione della biodiversità (che è invece preziosissima).

Quindi in soli sette anni la pannellizzazione in un sito italiano monitorato induce una sostanziale modificazione delle proprietà biofisiche e pure chimiche del suolo. Se è pur vero che questa occupazione del suolo è temporanea, lo studio correttamente afferma che, stante i danni al suolo arrecati durante il suo esercizio, occorre prevedere un forte impegno e investimento per destinare nuovamente quei terreni alla produzione agricola al termine del ciclo produttivo dell’impianto.

A questi impatti possiamo aggiungerne altri più difficili da calcolare e spesso trascurati, come il fatto che i parchi fotovoltaici sono tutti recintati e questo crea una barriera ecologica non indifferente che impatta sulla biodiversità. E poi: la fase di cantierizzazione con i suoi movimenti terra; l’apertura di nuove strade; la pur minima realizzazione di fondazioni e di cabine o edifici di servizio; lo scavo per la realizzazione di cavidotti; la risagomatura di cigli e morfologie di campo; la deviazione di fossati e piccoli scoli, e così via.

Altrettanto trascurato, ma presente, è il tema del rischio di contaminazione visto che i pannelli vengono puliti con detergenti chimici che, inevitabilmente, si disperdono al suolo. Inoltre alcune tipologie contengono piccole quantità di gas tossici e sostanze contaminanti che, in caso di incidente o incendio, andrebbero a disperdersi nell’ambiente (Various, 1996). Per non parlare degli impatti percettivi sul paesaggio e/o quelli sul regime delle acque. Tra l’altro molti di questi impatti sono ancor più significativi e preoccupanti nel caso proprio dei grandi impianti piuttosto che dei piccoli e distribuiti su piccoli tetti o piccole porzioni (Tsoutsos, 2005).

Insomma, ne abbiamo abbastanza per dire che i pannelli solari non sono affatto indolore per il suolo, gli ecosistemi di superficie, le relazioni ecosistemiche tra suolo e vegetazione, gli equilibri ambientali, il paesaggio.

Questi primi studi dovrebbero convincerci ad avere un atteggiamento meno trionfalistico e più cauto. Troppe voci che si levano a dare il via libera ai pannelli solari sui suoli agricoli e naturali (anche se “abbandonati”) accendono il sospetto che siano la fretta o il business a fare aprire molte bocche. Farei molta attenzione a non forzare le analisi critiche dell’Ispra ma al contrario, e con fermezza, darei il via libera per ora alla pannelizzazione solare limitatamente a quegli ambiti territoriali già impermeabili e non paesaggisticamente rilevanti.

Abbiamo ettari ed ettari di superfici piane cementificate che possono essere coperte di pannelli come i lastrici solari di edifici civili, pubblici e soprattutto industriali, agricoli, zootecnici, commerciali e logistici: Ispra stima in questo senso una potenzialità di superfici impermeabili non vincolate e disponibile oscillante tra i 70 e i 90mila ettari a cui si potrebbero aggiungere parcheggi, piazzali (altri 65mila ettari), infrastrutture (oltre mezzo milione di ettari), siti contaminati. E molte di queste aree appartengono al Demanio o ad altri enti pubblici, garantendo così che la produzione energetica non finisca esclusivamente nelle mani dei privati (altra questione non trascurabile e di cui non si parla).

Fino a quando avremo tutte queste disponibilità non vedo il motivo per dare il via libera all’installazione sui terreni agricoli, tanto più che gli studi non sono affatto convinti che non vi siano effetti negativi. Non dobbiamo poi dimenticare che la previsione di pannellizzazione in Italia potrebbe rapidamente compromettere fino a 50mila ettari: una cifra enorme ed enormemente preoccupante.

Se fossi nei panni delle organizzazioni ambientaliste che hanno firmato quell’appello, quindi, lo ritirerei per attendere studi più confortanti e, per non sbagliare, inviterei con forza la politica e gli investitori a fermare le loro ambizioni sulle superfici libere. Oggi il principio di precauzione deve dettare l’agenda delle decisioni. Ha fatto bene l’Ispra a dire quel che ha detto.

da qui

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