(intervista
di Barnabé Binctin)
“L’urgenza che investe la vita stessa di fronte al disastro riaccende una
necessità imperiosa: quella di lottare per altri mondi”. Così i quaranta autori
del libro collettivo On ne dissout pas un soulèvement, (Non
si dissolve mai una sollevazione), riassumono nell’introduzione l’approccio
alla realtà di Les Soulèvements de la Terre. Mentre si profila una
nuova mobilitazione questo fine settimana (era quuella del 17 e 18 giugno),
nella valle della Maurienne, in opposizione al progetto ferroviario
Lione-Torino, il movimento rimane più che mai nel mirino della
repressione governativa. Senza che ciò intacchi la determinazione delle
centinaia di migliaia di sostenitori che hanno firmato l’appello solidale contro la minaccia
di scioglimento brandita da Gérald Darmanin, in primavera. Abbiamo voluto
discutere di tutto questo con Jérôme Baschet, una delle voci di questo libro
collettivo.
Come reagisce all’ondata di arresti che ha colpito il 5 giugno diversi
attivisti ambientalisti, sospettati di aver partecipato a un’azione contro il
colosso delle costruzioni Lafarge (quello che lo scorso anno si è dichiarato colpevole di sostegno
all’Isis patteggiando con il tribunale di New York una multa di 778 miliono di
dollari, ndt)? Abbiamo fatto un ulteriore passo avanti nella
criminalizzazione dei movimenti ambientalisti?
Diciamo che i fatti si sommano. La manifestazione del 25 marzo a Sainte-Soline ha
affrontato un’estrema violenza poliziesca: 5.000 granate sparate in due
ore, con persone mutilate e
gravemente ferite , tutto questo per difendere un semplice
“buco” nella terra, dove non c’era nulla che potesse essere danneggiato,
nemmeno teli di plastica. Poi c’era la minaccia di scioglimento de Les
Soulèvements de la Terre, brandita da Gérald Darmanin. Stiamo assistendo
anche a un utilizzo del tutto inappropriato e irresponsabile del termine
“ecoterrorismo”, di cui le autorità abusano come di un’etichetta infame nel
tentativo di screditare il movimento.
Ciò deriva chiaramente da una propensione a criminalizzare la protesta
sociale, come vediamo anche con l’ondata di arresti coordinati, a livello
nazionale, questo lunedì 5 giugno, o contro i militanti antifascisti italiani
venuti per partecipare a un omaggio a Clément Méric .
Quindi, sì, l’attuale governo sembra pronto a varcare nuove soglie.
Dobbiamo aspettarci un inasprimento del confronto tra lotte ambientaliste e
potere?
“Le difficoltà dell’attuale sistema economico aumenteranno, così come la
necessità vitale di un cambiamento profondo”
Questo mi sembra chiaro, e per un semplice motivo: gli effetti del
cambiamento climatico sono già drammatici, eppure siamo solo all’inizio. Nel
2040, in tutti gli scenari IPCC, la temperatura media globale sarà aumentata di
1,5° o 1,6° rispetto all’era preindustriale, a fronte di un aumento di 1,2°
odierno. Questo significa più di 2° di aumento in un Paese come la Francia, per
non parlare del +4° entro il 2100 che oggi prevede lo stesso governo. Può
sembrare astratto, ma ormai conosciamo tutte le dimensioni eminentemente
concrete implicite in tali cifre: tra 15 anni tempeste e alluvioni, come
siccità e megaincendi, già insopportabili, si saranno moltiplicate rispetto a
quanto già sappiamo, con conseguenze di ogni tipo e conflitti via via più
virulenti sull’utilizzo dell’acqua.
Per molte ragioni aumenteranno anche le difficoltà dell’attuale sistema
economico, le critiche nei suoi confronti e la vitale necessità di un
cambiamento profondo. Non si tratta solo della crisi climatica ed ecologica. Se
si vuole misurare la preoccupazione degli ambienti dirigenti mondiali, basta
leggere i tanti report preparati da diverse istituzioni sistemiche, come “The
Age of Disorder” (Deutsche Bank) del settembre 2020 o il rapporto sui rischi
globali di Davos 2023 .
Prevedono difficoltà nel mantenere la crescita globale, nel garantire un
rendimento del capitale favorevole come durante l’età d’oro della
globalizzazione neoliberista, nel far fronte alla perdita di legittimità dei
regimi rappresentativi e nel controllare una crescente rabbia sociale più ampia
e imprevedibile. Di fronte a un sistema i cui fattori di crisi si stanno
accumulando, è comprensibile che gli ambienti dirigenti mondiali contino sul
rafforzamento massiccio delle tecniche di controllo e si preparino
metodicamente a un ricorso sempre più brutale alla repressione per garantire la
difesa dei propri interessi.
Nel caso de Los Soulèvements de la Terre, questo non
riflette anche una certa preoccupazione per quanto riguarda la portata della
pericolosità del movimento? Una nota riservata dell’intelligence lo
ha presentato come “uno dei principali protagonisti della protesta
ecologica radicale” …
Quella nota fa un paradossale elogio de Les Soulèvements de la
Terre, riconoscendone anche la grande “inventiva”, una “forte influenza” e
una notevole capacità organizzativa. Nonostante questo fine sforzo di lucidità,
la visione poliziesca del mondo incontra ancora limiti evidenti. In
particolare, proietta sul movimento una struttura gerarchica, incapace di fare
a meno di fantasticare su pochi leader e una cellula centrale che arruola una
frangia di giovani al servizio dei suoi intenti occulti e malevoli. Secondo
l’autore della nota, le questioni ecologiche possono essere solo un pretesto
per azioni la cui vera ragion d’essere è la violenza e la distruzione. Questo
porta a non capire nulla della logica del movimento, perché è al contrario è da
lì che bisogna partire, da queste rivolte contro la devastazione del mondo.
Quello che è certo è che in due anni e mezzo di esistenza, i Soulèvements
de la Terre sono riusciti a creare una dinamica notevole, di cui la lotta
contro i megabacini è stata uno dei principali punti di cristallizzazione. Vedo
almeno tre caratteristiche del movimento che possono contribuire al suo
successo: in primo luogo, fa parte della continuità delle lotte territoriali contro i
grandi progetti distruttivi, ad esempio con le mobilitazioni
contro l’autostrada Toulouse-Castres, contro la circonvallazione di Rouen, o
contro l’Alta Velocità Lione-Torino. Ma les Soulèvements de la Terre aggiungono
una maglia in più a tutte queste lotte su scala nazionale, il che permette di
rafforzarne l’eco e di fornire a ciascuna un sostegno più ampio.
Storico, co-presidente dell’Association pour la défense des terres, che
sostiene anche finanziariamente il movimento Los Soulèvements de la
Terre è uno degli autori del libro collettivo On ne dissolu pas un Uprising (Seuil,
giugno 2023).
La preoccupazione per un ancoraggio territoriale delle lotte è forte già di
diversi decenni di esperienza, les Soulèvements testimoniano una nuova fase che
intende superare un’eccessiva frammentazione delle forze. Il movimento comporta
un’esigenza di organizzazione e coordinamento a scala più ampia, senza perdere
nulla della singolarità delle esperienze locali. Trasforma inoltre la
temporalità di queste lotte, strutturando le azioni in stagioni successive,
annunciate ogni sei mesi, il che consente di contrastare le tendenze
“immediatiste” dell’epoca per adattarsi meglio al lungo termine, con effetti
cumulativi rilevanti.
Quindi, les Soulèvements dispiegano un lavoro di composizione che permette
di collegare diversi ambienti e forme di lotta differenti, risultanti ad
esempio dall’attivismo del movimento per il clima, lotte contro i grandi
progetti, il sindacalismo contadino o anche correnti autonome. Particolarmente
importante è il collegamento con la Confédération paysanne, e uno dei punti di
forza dei Soulèvements è quello di legare le lotte territoriali alla questione
fondiaria, con la preoccupazione di un movimento concreto di recupero della
terra per strapparla alle grandi aziende agroindustriali e promuovere, al
contrario, un vero sviluppo dell’agricoltura contadina.
Infine, il terzo elemento riguarda il fatto di assumere modalità di azione
più “offensive”. Dopo l’ondata delle grandi marce per il clima, e mentre il
ricorso ad azioni puramente simboliche mostra i suoi limiti agli occhi di una
parte dei giovani, les Soulèvements offrono un’opzione più radicale, proponendo
di agire direttamente per bloccare quanto più possibile l’espansione di
infrastrutture e attività “ecocide”.
Non è proprio questo registro più “offensivo” che si presta alla
recrudescenza della repressione poliziesca?
Va innanzitutto sottolineato che les Soulèvements dispiegano molteplici
modalità di azione, e non solo una. Si stanno moltiplicando azioni insieme
decise e festose, come abbiamo visto, ad esempio, durante la manifestazione sul
percorso dell’autostrada contestata tra Tolosa e Castres, con una gara parodia
di “bolidi da corsa”, una più lenta dell’altra. O ancora durante la
mobilitazione contro la circonvallazione autostradale di Rouen, nella foresta
di Bord, con l’inchiodatura degli alberi per impedirne l’abbattimento, nonché
con la creazione di stagni per la riproduzione di specie protette, quella che
il filosofo Antoine Chopot descrisse come “la prima azione naturalista di
massa” .
Resta il fatto che si ipotizza il ricorso ad atti più offensivi. È stata
poi sviluppata la nozione di “disarmo”, per designare un’azione
volta a rendere inoperante un’“arma di distruzione di massa” come il cemento,
che contribuisce in larga misura alle emissioni di CO2 e al processi di rendere
artificiali i suoli. Questo termine, più che quello di “sabotaggio”, ha il
pregio di evidenziare la giustificazione di tale azione, che non è distruggere,
ma impedire la distruzione.
Così facendo, si contribuisce anche a disfare la categoria della
“violenza”, che il governo e la maggior parte dei media contribuiscono a
rendere un insieme omogeneo che permette fastidiose amalgami. La nozione di
disarmo permette di significare che la prima violenza è quella di un sistema
produttivo che espone miliardi di esseri viventi all’inquinamento mortale e alle
molteplici conseguenze del caos climatico.
La pratica del disarmo non può essere dissociata da una battaglia di senso,
che implica fondare sempre la legittimità delle azioni compiute e farla
comprendere. Questi atti di disarmo rimangono largamente proporzionati e
vengono eseguiti a bassa intensità, utilizzando strumenti semplici come
taglierini o chiavi inglesi – e non, ad esempio, gli esplosivi che sono più
direttamente associati all’immaginario del sabotaggio.
E poi, la presunta “violenza” che il governo cerca di imputare a les
Soulèvements non prende mai di mira le persone, il che non è il caso
degli “attivisti” del complesso agroindustriale che non esitano ad agire
fisicamente contro i difensori di l’ambiente, per minacciare di sequestro un
particolare sindaco o per bloccare le ruote delle auto dei giornalisti che ne
mettono in discussione le pratiche.
Qual è la vera posta in gioco in questa lotta oggi?
Bisogna ripartire, ancora una volta, dall’emergenza climatica ed ecologica.
La climatologa Valérie Masson-Delmotte, co-presidente dell’IPCC – che non
risulta affatto essere un’attivista di estrema sinistra – ha sottolineato
l’estrema gravità della situazione, durante una serata a sostegno de les
Soulèvements de la Terre il 12 aprile scorso. “Dov’è il vero pericolo?”, ha
chiesto. “È in un’inquietante protesta radicale che disturba, o nell’inerzia
climatica” di quella che ha definito “l’inadeguatezza delle risposte
istituzionali e politiche?”.
È chiaro che l’azione degli Stati, pur non essendo del tutto inesistente, è
completamente insufficiente, se non altro per raggiungere gli obiettivi
dell’Accordo di Parigi (2015). In tale situazione di emergenza vitale, quando i
poteri costituiti non riescono a dissociarsi dagli interessi privati
all’origine della catastrofe, diventa legittimo, e persino imperativo,
invocare uno stato di necessità superiore per agire.
C’è un dovere di non accettazione e di insubordinazione. Comporta di
assumere la prospettiva di un confronto più offensivo nelle sue modalità
operative e più generale nella sua stessa natura. Va da sé che il nemico non è
questo o quel governante o questo o quell’ultra-ricco, ma piuttosto la rete di
poche centinaia di imprese transnazionali, banche e fondi di investimento che
dominano l’economia mondiale. Non è difficile neppure individuare nel
produttivismo compulsivo del sistema capitalista, mosso da un imperativo di
accumulazione illimitata e vincolato da un obbligo di crescita esponenziale, la
causa fondamentale della catastrofe ecologica e climatica.
La caratteristica del nuovo periodo geologico in cui stiamo oscillando, che
la si chiami “Antropocene” o “Capitalocene”, è il degrado accelerato
dell’abitabilità della Terra, che mette a rischio molte specie viventi,
compresa quella umana. Emerge allora una nuova linea del fronte: si oppone, da
un lato, al mondo dell’Economia che, per perpetuarsi, distrugge questa
abitabilità, e dall’altro, sostiene le forze che lottano affinché la
conservazione di questa abitabilità abbia la precedenza sugli imperativi
economici. Questo non fa affatto scomparire i rapporti di classe che si instaurano
all’interno del regime di produzione, ma mette in evidenza un altro maggiore
antagonismo, che incide sul rapporto stesso con la produzione.
Hai elencato diversi territori in lotta, classificati sotto la nozione di
“spazi liberati”. La lotta contro i mega-bacini è una di queste?
Questi “spazi liberati” designano la moltitudine di luoghi e territori
collettivi dove si sperimentano altre forme di vita, che tentano di sottrarsi
alle logiche di mercato e di Stato. Non pretendono di esserne completamente
liberi; ma almeno stanno lottando per strapparsi dai loro vincoli mortali e per
delineare ora altri mondi più gioiosi e desiderabili. Devono essere concepiti
meno come isolotti conservati in mezzo alla tempesta ma come spazi di
combattimento. La loro portata può essere modesta, ad esempio nel caso di
luoghi associativi che praticano il mutuo soccorso e delineano pratiche comuni,
come nel caso delle mense di quartiere.
Anche la scelta coraggiosa di
disertare brillanti carriere, fatta da agronomi,
informatici o altri, può essere considerata come l’inizio di uno spazio
liberato. Tutto ciò che ci permette di “decapitalizzare”, vale a dire di
sciogliere dentro di noi la presa dei modi di vivere e delle soggettività
plasmate dal mondo dell’economia, va bene. Questi spazi liberati possono anche
assumere dimensioni più sostanziose, come allo Zad di Notre-Dame-des-Landes,
nel libero quartiere di Lentillères, a Dijon, con esperienze cooperative come
quella di Longo Maï o, ancora più chiaramente, con l’autonomia zapatista.
.
Tuttavia, nel caso della lotta contro i
mega-bacini , non sono sicuro che si tratti di creare nuovi
spazi liberati – anche se ogni mobilitazione collettiva crea anche nuove
relazioni tra le persone, come è avvenuto sulle rotatorie dei Gilet Gialli. Non
si è mai parlato di creare uno Zad a Sainte-Soline, contrariamente alle
affermazioni di Gérald Darmanin, che ha solo brandito questa presunta
“minaccia” per vantarsi di averne impedito la realizzazione. Direi piuttosto
che la lotta contro i megabacini, come le altre mobilitazioni di Soulèvements,
è una strategia di blocco, perché si tratta di ostacolare materialmente
l’espansione delle infrastrutture e la crescita continua della produzione.
La proposta strategica che ho sviluppato in Basculements presuppone la
combinazione di questi due registri di azione, con da un lato una dinamica
continua di affermazione degli spazi liberati, e dall’altro l’intensificarsi
della conflittualità tendente a un blocco generale dell’economia.
Le forme di blocco gioverebbero inoltre ad essere considerate in tutte le
loro possibili modalità: blocco della produzione per sciopero, interruzione dei
flussi di traffico, ostacolo ai grandi progetti infrastrutturali e disarmo
degli impianti produttivi, ma anche blocco della riproduzione – con lo sciopero
delle scuole o con gli ingegneri che non vogliono più collaborare – del mondo
della distruzione. Non si tratta certo di contrapporre i due registri di
azione. Al contrario, più spazi liberati si hanno, più può crescere la capacità
di bloccare; e più i blocchi si estendono, più promuovono l’emergere di spazi
liberati.
Diresti che lles Soulèvements de la Terre partecipano, in un certo modo, a
riconfigurare la grande ambizione rivoluzionaria?
L’utilizzo del termine “rivoluzione” è in parte intrappolato ma è ancora
oggetto di dibattito. In ogni caso si tratta di dare corpo alla possibilità di
un mondo post-capitalista, liberato dal dominio patriarcale e coloniale. Questa
prospettiva di emancipazione non può più essere pensata nella sua forma
classica, elaborata sulla base di vecchie concezioni della modernità: la
credenza nel progresso e nell’inevitabile ascesa delle forze produttive; l’idea
di un unico percorso storico di cui il mondo occidentale sarebbe il modello e
l’avanguardia; o ancora l’ontologia naturalista che dissocia l’uomo dalla
natura e lo erige a padrone e possessore delle sue risorse.
Ripensare oggi una prospettiva credibile di emancipazione – allo stesso
tempo non produttivista, non naturalista, non eurocentrica e probabilmente non
statalista – implica il fatto che ci sia una critica profonda delle esperienze
storiche, una rivoluzione antropologica e l’emergere di regimi di storicità
inediti. Comporta anche il fatto di accettare che non esiste un’unica via
d’uscita dal capitalismo, ma che si tratta di costruire “un mondo dove ci sia
spazio per molti mondi”, come dicono gli zapatisti.
Les Soulèvements de la Terre mi sembra possano stare dentro in
questa prospettiva, come molti altri movimenti nel mondo. Il nome stesso del
movimento propone un attore non umano e, di conseguenza, 100mila persone hanno
così gridato insieme: “Noi siamo la Terra che si solleva!”. La lotta non può
più essere concepita come unicamente umana. In un contesto inedito di
devastazione delle condizioni di vita su questo pianeta, è la comunità
terrestre che è chiamata ad insorgere per impedirne la distruzione, sotto le
gelide acque del calcolo egoistico o, com’è meglio forse dire oggi, sotto
l’effetto del soffio ardente quantificazione mercantile.
fonte: Basta! Versione in lingua originale
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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