Giovedì 28 luglio è stato l’Earth Overshoot Day 2022, ovvero il giorno dell’anno in cui la popolazione globale esaurisce tutte le risorse che la Terra riesce a generare. Cade ben 156 giorni prima della fine dell’anno, il che vuol dire che a fine dicembre avremo utilizzato il 74% in più di quanto gli ecosistemi riescono a rigenerare.
Il dato, tremendo in sé, assume caratteristiche ancor più drammatiche se lo
consideriamo nelle sue disparità interne: paesi come Stati Uniti, Canada,
Australia e Russia hanno iniziato l’anno già in debito ecologico, mentre il
nostro Paese ha raggiunto l’apice il 15 maggio scorso (che ne dice,
ministro Cingolani?). E, naturalmente, il dato per Paese omette di leggere le
stratificazioni interne, dalle quali ormai sappiamo con certezza matematica
come il debito ecologico sia causato in gran parte dalla classe dei ricchi e
ricchissimi (“Climate change & the global inequality of carbon
emissions, 1990-2020”).
Quindi viviamo male e mettiamo a repentaglio la sopravvivenza della vita
umana sul pianeta quasi solo per permettere ad una infima
fascia di persone di spendere, spandere e naturalmente comandare. Il
paradosso è che tutto questo ci costa infinitamente di più, sottraendo
ricchezza collettiva che potrebbe essere destinata alla giustizia sociale e
climatica.
Sono gli stessi analisti finanziari a dirlo a chiare lettere. Secondo
il “Global Turning Point Report 2022”, studio effettuato dalla
società di consulenza finanziaria Deloitte, l’inazione contro il cambiamento
climatico potrebbe costare all’economia globale 178 trilioni di dollari da qui
al 2070. Risultati analoghi riscontriamo dagli indicatori dell’”Osservatorio
Climate Finance, School of Management” del Politecnico di Milano, secondo i
quali, analizzando le attività di un 1,1 milioni di imprese in termini di
operatività in relazione ai cambiamenti climatici, si è rilevata una diretta
rispondenza fra l’aumento di un grado della temperatura e il crollo a -5,8% del
fatturato e a -3,4% della redditività. Ma già nel 2019 (ben prima di pandemia,
guerra e crisi climatica attuale), il rapporto “The Lancet Countdown”
lanciava l’allarme e prevedeva, per quanto riguarda l’Italia, un calo dell’8,5%
del Pil nei prossimi decenni, con una perdita di produttività del 13,3% nel
settore agricolo e dell’11,5 per cento del settore industriale.
Parliamo di conti perché la politica pare interessata solo a quelli, ma si
tratta di vite, persone, affetti, comunità, relazioni sociali e psicologiche.
Il fatto è che nell’economia liberista i costi globali non sono un fattore
da tenere in conto, essendo la narrazione tutta basata sull’individuo
indipendente, autonomo e tutto d’un pezzo, sull’imprenditore di se stesso
artefice del proprio destino, sull’uomo ‘che non deve chiedere mai’, meglio se
‘maschio-bianco-proprietario’.
Per un sistema siffatto, non esistono costi globali che non siano
scaricabili sulla collettività, siano questi le risorse naturali, delle quali
si presuppone la disponibilità e la predazione, siano questi gli effetti
sanitari e sociali di un modello di vita e di produzione.
In queste giornate, una nuova generazione ecologista di migliaia di ragazze
e di ragazzi è riunita a Torino: reclamano il diritto al futuro e chiedono
un’inversione radicale di rotta prima che sia troppo tardi. Affermano un noi
contro l’ipertrofia dell’io.
Può darsi che vi troviate imbottigliati sull’asfalto perché, per farsi sentire,
hanno bloccato l’autostrada. Non è detto che le urgenze delle vostre vite vi
consentano di condividere quello che stanno facendo. Basterebbe
sapeste che loro non sono il problema, semmai la soluzione.
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