È una storia emblematica, quella di Porto Giunco (Villasimius), splendido compendio di dune, mare cristallino, stagno di retro-spiaggia e formazioni di macchia evoluta di particolare pregio (ginepri) nel bel mezzo dell’Area Marina Protetta (?) di Capo Carbonara.
Emblematica
di come, anche in un territorio sulla carta super-protetto, i valori
ambientali possono allegramente (tristemente) soccombere brutalmente per
non disturbare l’interesse privato, peraltro di natura fortemente speculativa.
Ci riferiamo
al settore più meridionale della spiaggia, quello che confina con
il promontorio roccioso alla cui sommità svetta la splendida torre aragonese
del XVI secolo.
Si tratta di
una sottile striscia di arenile racchiusa tra il mare e un
costone collinare ricco di ginepri e altre essenze della macchia mediterranea.
È forse
il tratto più pregevole – ambientalmente e paesaggisticamente
– dell’intero compendio ma anche quello più fragile, la cui
esistenza si regge su delicati equilibri ecologici, che
l’hanno (avevano) finora protetto da un’erosione sempre in agguato.
Il perno
principale su cui tale equilibrio si regge è la banquette di
posidonia, il formidabile baluardo naturale che nei millenni ha protetto quella
lingua di sabbia dalle mareggiate di scirocco.
Anche
quest’anno la natura il suo dovere l’aveva fatto, tirando
su quella intricata struttura di foglie di posidonia e sabbia che
rappresenta una barriera particolarmente efficace a difesa dei sedimenti
sabbiosi.
Una tutela
ambientale degna di questo nome ne avrebbe preservato l’integrità, magari sottraendola in toto
all’utilizzo balneare (circa 100 m di arenile su un totale di oltre 850
m).
Siamo o non
siamo nel pieno di un’Area Marina Protetta?
Ma l‘interesse
privato – una concessione demaniale per uno stabilimento
incredibilmente concessa anni addietro in quell’esile lingua di sabbia – ne
avrebbe patito, perché, si sa, la posidonia accumulata sulla spiaggia non gode
di buona reputazione tra gli amanti della tintarella.
E dunque,
con un intervento di assai dubbia legittimità, si è pensato bene di rimuoverla
brutalmente, quella banquette di posidonia.
E con
essa un bel po’ di tonnellate di sabbia, di fatto operando una
vera e propria asportazione parziale della spiaggia, di cui, come dovrebbe
esser ben noto ai gestori di un’Area Marina Protetta, il mix sabbia/posidonia
è parte costitutiva.
Peraltro,
un’operazione di tal fatta non causa soltanto una mutilazione “volumetrica” ma
anche una destrutturazione del sistema arenile per cui anche i
sedimenti rimasti patiscono un’accresciuta vulnerabilità all’erosione.
I risultati
di questa brillante operazione non si sono fatti attendere,
come dimostra la drammatica riduzione della striscia di sabbia, ridotta a pochi
metri di profondità, con la conseguenza che persino il costone
collinare retrostante risulta ormai esposto al moto ondoso, fatto
certamente inedito quanto meno nell’ultimo secolo, come testimoniano gli
antichi ginepri il cui apparato radicale è ora alla mercè delle mareggiate. Un
danno ambientale pesante e probabilmente irreversibile.
E dire che
la soluzione che potesse contemperare l’interesse privato e quello
pubblico alla tutela ambientale – in teoria preminente (tanto
più in un’AMP) – era davvero a portata di mano: sarebbe stato
sufficiente traslare l’area data in concessione verso la parte
centrale dell’arenile, esente da fenomeni erosivi.
Certo, in
una porzione di spiaggia meno glamour sarebbe
stato più difficile affittare un ombrellone e due sdraio a 60 Euro al giorno e
un gazebo a 120 e allora meglio lasciar perdere. La tutela ambientale
può attendere, l’interesse privato no.
Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)
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