Fino a non molto tempo fa, sei o sette decenni addietro, l’alimentazione
della maggioranza della popolazione rurale era austera, equilibrata e soggetta
alle possibilità dei propri territori. Insieme allo sviluppismo e alla
concentrazione della popolazione nelle città, da centri di ricerca, università
e riviste prestigiose – in coordinamento con l’industria alimentare – si è
diffuso il messaggio della necessità di migliorare le abitudini alimentari,
aumentando il consumo di proteine soprattutto di quelle di origine animale.
A forza di pubblicità e propaganda, pensiamo al caso dei fast
food, il messaggio ha fatto breccia nelle culture e si è installato
nell’immaginario come il modello da seguire. Per soddisfare questa
domanda “creata”, si è giustificata, ringraziata ed elevata ai massimi livelli
l’industria alimentare capace di produrre molto latte, carne e derivati a
prezzi bassi, senza considerare né preoccuparsi delle sue smisurate
ripercussioni. Si è arrivati a disprezzare e ridicolizzare il cibo e
l’agricoltura tradizionali, danneggiando così corpi e territori. Dall’acquisto
e dalla cottura di cibi freschi, si è passati a cibi ultra-processati,
riscaldati nel microonde e il prodotto industriale è emerso chiaramente come
vincitore. Una cosa tanto intima come ciò che va sulle nostre tavole ha finito
per essere delegata a poche mega-aziende controllate da fondi di investimento.
Ora, essendo ben consapevoli di cosa sia successo, e che le tendenze del cibo
vegano stanno raggiungendo quote importanti, non possiamo non
domandarci: potrebbe essere che la storia si stia ripetendo? Quel
successo è indotto in modo culturale? E, se sì, ci sono attori nuovi o
si tratta di quelli di sempre?
Per quanto possa sembrare contraddittorio, sono proprio le principali
aziende industriali transnazionali di produzione di carne a stare dietro gli
alimenti che, a base di verdure o proteine coltivate in laboratorio, si
presentano come sostituti della carne, del pesce, delle uova e del latte. Nel rapporto Proteine
e Politiche di Ipes-Food o
sulle pagine della piattaforma scientifica ALEPH2020
si possono facilmente trovare molte informazioni su questa realtà. Ad esempio,
l’azienda Vivera, molto nota in Germania, Olanda e Regno Unito per le sue oltre
cento referenze su prodotti come il salmone vegano o il kebab di pollo vegano,
appartiene alla brasiliana JBS, il più grande produttore mondiale di pollame e
manzo e il numero due nella produzione di carne di maiale. Nel portafoglio di
JBS scopriamo poi anche che è l’azionista di maggioranza della spagnola BioTech
Foods, dedicata al settore della carne coltivata. Negli Stati Uniti, due delle
principali aziende di carne del Paese, Tyson Foods e Smithfield, hanno creato
le proprie divisioni per produrre crocchette e salsicce a base vegetale al fine
di competere con i due leader del settore, Impossible Foods (associata a Burger
King). e BeyondMeat. In Spagna troviamo lo stesso fenomeno. Il più grande
integratore del paese, leader nei macro-allevamenti di pollame e suini, Vall
Companys, ha lanciato nel 2019 il progetto imprenditoriale Zyrcular Foods per
produrre succedanei della carne a partire da piselli, grano o soia che arrivano
da lontano. Possiamo già trovarne i prodotti in diversi supermercati con la
loro etichetta bianca. L’espansione di questo business continuerà se
gli verranno assegnati i 134 milioni di euro presentati con i fondi di recupero
Next Generation per affrontare le nuove sfide in questo campo.
Se continueremo a sottovalutare il mercato vegano, finiremo per trovarvi
sempre più concentrazioni delle multinazionali che controllano il cibo mondiale
da decenni: Cargill, Nestlé, Danone, ecc. Inoltre, a fare
appena qualche facile ricerca, vedremo anche i fondi di investimento: BlackRock, il
più grande al mondo (che sostiene Tyson o JBS, tra gli altri), oppure Breakthrough
Energy Ventures, presieduto da Bill Gates (che partecipa attivamente a
Impossible Foods e Beyond Meat).
Lo sbarco delle multinazionali del cibo in questo “segmento” non poteva
essere compiuto senza la certezza di aver precedentemente sedotto la
popolazione. Come sempre accade per le imprese tanto competitive, non ci sono stati
molti problemi a trovare spazi comuni, come la piattaforma EAT, grazie alla quale –
con una “scienza” ammaestrata a dovere e grazie ai suddetti investitori – si
occupano di trasmettere e fare lobby a favore di questi nuovi modelli
alimentari. Ripetendo come un mantra le meraviglie di questa dieta
vegana per arginare la crisi climatica e garantire la salute eterna, sono
riuscite a imporre una narrazione che è penetrata facilmente tra la popolazione
come nelle amministrazioni. La verità è che ridurre la soluzione a
tutti i nostri mali al fatto di rimuovere le proteine animali dalle nostre
diete non è solo un racconto riduzionista, è anche scorretto. Perché, ad
esempio, non affrontano le differenze nei modelli di produzione di proteine
animali, conoscendo come è noto l’importanza degli erbivori nel ciclo dei
nutrienti, l’utilizzo che essi fanno degli alimenti che non sono in concorrenza
con la popolazione umana, il loro ruolo di fertilizzanti della terra
ecc.? Credete che non sappiano che una dieta a base di proteine di
piselli, soia, mais o grano possa replicare lo stesso modello di monocolture
responsabile dei problemi che dicono di voler risolvere? Perché non
riconoscono la dipendenza dal petrolio per tante delle lavorazioni, per i
trasporti e le plastiche che rivestono quegli pseudo-cibi?
Abbiamo creduto davvero che un così enorme successo del veganismo fosse frutto
del lavoro di sensibilizzazione di alcune ONG? Fatto di carne o
vegano, il capitalismo alimentare di sempre ci allontana dalla sovranità che
urge recuperare e che si può stabilire solo adattando la nostra dieta ai cicli
dell’abbondanza della terra che le contadine e i contadini e donne, i pastori e
le donne che si dedicano alla pastorizia dei nostri territori sanno gestire:
nei loro frutteti e nelle loro fattorie. È il semplice che è bello.
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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