L’idea di una società orientata alla decrescita – Serge Latouche e Maurizio Pallante sono tra i suoi promulgatori più conosciuti in Italia – sta facendosi strada anche in ambienti inaspettati. Nella seconda parte del IV Rapporto 2022 dell’Ipcc, il consesso di scienziati dell’Onu che studia il cambiamento climatico indica ai decisori politici la decrescita – correttamente intesa come decremento reale e pianificato dei flussi di materia impiegati nei cicli produttivi – come una delle vie più sicure per raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile (SDGs). L’Eeb (European Envirinmental Bureau) smaschera – letteralmente: “debunked” – la pretesa di disgiungere la crescita del Pil dall’aumento della pressione sull’ambiente naturale rimanendo all’interno della logica del sistema economico attuale regolato dal mercato. L’Eea (l’Agenzia ambientale europea) auspica una “crescita senza crescita economica” (growth without economic growth), che è un altro modo di dire che bisogna uscire dal calcolo del valore monetario delle produzioni. L’Ispra (l’Istituto superiore per la ricerca e l’ambiente) ha tenuto un incontro dal titolo significativo: Oltre la crescita.
A cinquant’anni dalla pubblicazione del famosissimo rapporto del
Massachusetts Institute of Tecnology commissionato dal Club di Roma, The
Limits of Growth, e dalla prima conferenza sull’ambiente dell’Onu a
Stoccolma, in cui già si auspicava una conversione del sistema economico nella
direzione di un “ecosviluppo”, non solo gli scienziati della terra, ma anche
economisti, antropologi, sociologi pubblicano studi e ricerche sulla
insostenibilità di un modello di sfruttamento delle risorse naturali che
compromette la capacità di rigenerazione dei cicli vitali del pianeta. Ne
ricordiamo qui alcuni: Jason Hikel (Less Is More: How Degrowth Will Save The
World. Tradotto inspiegabilmente con il titolo: Siamo ancora in
tempo! Come una nuova economia può salvare il mondo, Il Saggiatore,
2019), Giorgos Kallis (Is Green Growth Possible?, New Political Economy,
2019), Riccardo Mastini (For the Green New Deal to Work, It Has to Reject
“Growth”,2020), Escobar, Acosta, Salleh, De Maria e altri (Pluriverso.
Nuovo dizionario del post-sviluppo). Una mappatura sistematica delle
proposte di policy della decrescita è stata curata da Nick Fitzpatrick,
Timothée Parrique, Ines Cosme e pubblicata sul Journal of Cleaner Production
365 (2022) (https://www.decrescita.it/esplorando-le-proposte-politiche-della-decrescita/).
Insomma, la lungamente agognata riconciliazione tra economia e natura non
la si può raggiunge (solo) attraverso continue nuove innovazioni tecnologiche,
ma modificando strutturalmente modi di produzione e di distribuzione, sistemi
di welfare, stili di vita e rapporti di potere tra popolazioni, classi sociali,
generi, generazioni. In una parola la “sostenibilità” mette in discussione il
principale tabu su cui si è fin qui fondata la nostra idea di civilizzazione:
la crescita infinita e indefinita dei beni e dei servizi a disposizione di
individui solvibili. L’impresa capitalista che agisce sul mercato ha bisogno
continuamente di creare nuovi mercati, nuovi oggetti, nuovi bisogni. Il fine
del capitale non è il prodotto (il suo effettivo e genuino valore d’uso) ma il
profitto che ne può ricavare. E non c’è dubbio che sia riuscito con successo a
inoculare negli individui e a concretizzare il loro desiderio ad avere di più a
tutto vantaggio di alcune fasce della popolazione, ma al prezzo di impoverirne
molte alte (accumulation by dispossession, lo definisce David Harvey) e
di collassare l’ecosistema planetario portante, fonte primigenia di ogni
ricchezza. Il surriscaldamento globale è solo uno dei nove principali cicli
biogeochimici individuati dal gruppo di ricercatori svedesi guidati da
Rockström, presi a riferimento dello stato di salute della Terra. Anche altri
hanno già sfondato i “confini planetari” a partire dalla estinzione di massa
delle specie animali e vegetali, dall’inquinamento chimico dell’aria,
dall’acidificazione degli oceani, dalla perdita di fertilità dei suoli.
Ma c’è un altro limite – questa volta non fisico, ma direttamente politico
– che procede di pari passo: la sopportabilità sociale di un sistema di potere
economico che genera sofferenze, violenze congenite, diseguaglianze e ingiustizie.
Come spiega bene Marco D’Eramo (Dominio, Feltrinelli, 2021) il
dispositivo chiave del neoliberismo è la competizione tra le imprese, gli
stati, gli stessi individui resi “capitali umani”, al pari della natura,
cosificata come stock di risorse e di servizi ecosistemici mercificati, e di
tutte le attività di cura che sorreggono gratuitamente la riproduzione
allargata del ciclo di valorizzazione del capitale. Lo stesso lavoro umano è
ridotto a mero fattore di produzione, privo di valore in sé.
Comprendere questa natura plurima – l’Idra a sette teste – del capitalismo
è lo sforzo che molti analisti, teorici e movimenti “rosso-verdi” – si sarebbe
detto una volta – stanno compiendo sul campo accidentato dell’ecologia politica
e che hanno trovato le elaborazioni più compiute, da una parte,
nell’ecosocialismo di ispirazione marxiana (Johan Bellamy Foster, direttore
della Montlhly Review, Michael Lowy, autore di Ecosocialismo, ombre
corte 2020, Ian Angus, autore di Antrhropocene, Asterios 2019) e,
dall’altra, nella decrescita derivante dalla critica allo sviluppo di tipo
antropologico ed ecologico. Ha scritto Latouche: “La decrescita può essere
considerata come un «ecosocialismo», soprattutto se per socialismo si intende,
con Gorz, «la risposta positiva alla disintegrazione dei legami sociali sotto
l’effetto dei rapporti mercantili e di concorrenza, caratteristici del
capitalismo»”. Ma la strada della convergenza sembra essere ancora lunga.
Nonostante le profetiche intuizioni di Marx sulla “frattura metabolica” (la
relazione fra l’essere umano e la natura mediante il lavoro) provocato dal modo
di produzione capitalista, i marxisti fanno fatica ad accettare l’idea di un
“socialismo senza crescita”, ovvero di una (auto)limitazione delle possibilità
espansive delle forze produttive, tantomeno oggi che i bisogni primari di due
terzi dell’umanità non sono ancora stati conquistati. Dovremmo forse
condannarli alla povertà eterna? Dall’altra parte gli obiettori della crescita
– e, con essi, mi assumo l’arbitrio di includere i movimenti indigeni,
contadini, delle “altre economie” solidali e trasformative – fanno fatica a
pensare che i grandi apparati tecnoindustriali centralizzati – fossero anche
azionati da energie rinnovabili – possano essere piegati ad una logica di sostenibilità
ambientale e giustizia sociale. Il confronto non è nuovo e rimane aperto
(ricordiamo il contributo di autori militanti come Giorgio Nebbia, Laura Conti,
Virginio Bettini, oltre a Alex Langer) ma sta inevitabilmente ritornando di
grande attualità e avrà a Venezia, nella tre giorni sulla decrescita,
organizzata presso l’università di Architettura (vedi box qui sotto), dei
numerosi e promettenti “tavoli di discussione”, tra cui segnaliamo uno su Marx,
marxismi e decrescita cui parteciperanno Emanuele Leonardi, Franco ‘Bifo’
Berardi, Marino Ruzzenenti, Maria Turchetto, Maurizio Acerbo, Roberto
Musacchio. Maurizio Ruzzene, Maura Benegiamo, Antonio Pigantto e altri cultori
della materia.
BOX
DECRESCITA: SE NON ORA QUANDO? Dall’illusione della crescita verde ad una
democrazia della terra.
L’incontro si terrà dal 7 al 9 settembre presso la sede di Santa Marta,
dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e proseguirà il 10 al
Lido con il Venice Climate Camp organizzato dal Rise Up 4 Climate Justice e
Fridays For Future.
L’incontro è promosso dalle associazioni e dai movimenti per la decrescita
e l’economia solidale.
Con il patrocinio delle università di Venezia e di Udine e del Support
Group of the International Conferences on Degrowth for Ecological
Sustainability and Social Equity. Molte le associazioni partner tra cui Laudato
si’ di Milano, Tilt, Bilanci di Giustizia, Co-Energia.
L’incontro si svolgerà attorno a quattro plenarie a cui parteciperanno in
presenza Vandana Shiva, Amaia Perez Orozco, Antonia De Vita, Riccardo Mastini,
Jean Louis Aillon, Rocco Altieri, Manlio Masucci, Marco Bersani, Mario
Pansera,Luigi Pellizzoni; Viviana Asara, Marco Deriu e, da remoto, Silvi
Federici, Timothée Parrique, Serge Latouche, Helena Norberg-Hodge. La discussione
si svilupperà in parallelo su quindici tavoli di discussione preparati da
tracce di documenti di base, frutto di un lavoro collegiale, già disponibili
sul sito: www.venezia2022.it. La partecipazione è
per iscrizione fino a 250 posti disponibili.
Per informazioni:
www.venezia2022.it; info@venezia2022.it
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