Vaiolo delle scimmie. Perché nessuno vi riporta questa ricerca del New England Journal of medicine? - Francesco Santoianni
Ma perché nessuno vi dice che, secondo una ricerca pubblicata sul New England Journal of medicine, il 98% delle persone colpite in Europa dal “vaiolo delle scimmie” sono omosessuali che lo hanno, verosimilmente, contratto attraverso rapporti anali? E perché nessuno vi dice che nel maggio 2003, negli Stati Uniti, furono segnalati un centinaio di casi di questa infezione; una “epidemia” che si è estinta nel giro di qualche settimana con la completa guarigione di tutti gli infetti.
Altro che vaiolo.
Non ve lo dice nessuno. In compenso, dilagano in TV “esperti” che
terrorizzano con l’ansiogeno “Non c'è una cura specifica per il vaiolo!”. Una
mistificazione in quanto, il “vaiolo delle scimmie” pur essendo provocata da un
virus anch’esso appartenente alla famiglia dei Poxviridae, non
ha nulla a che vedere con il vaiolo umano (provocato dal virus Variola
major) che ha funestato l’Europa nei secoli passati; così come la cosiddetta
“Peste bovina” non ha nulla a che
vedere con le catastrofiche epidemie di Yersinia pestis.
Intanto l’impresentabile Direttore generale dell’OMS Tedros Ghebreyesus, nonostante il parere
contrario dell’apposito Comitato dell’OMS, dichiara lo “Stato di emergenza
sanitaria globale” che autorizzerà gli stati a imporre le peggiori infamie; e
nessuno in TV vi dice che i primi casi di “morti per il vaiolo delle scimmie”
in Europa potrebbero dipendere dallo scompaginamento del sistema immunitario
prodotto da una vaccinazione anti-covid che già sta facendo emergere numerose
infezioni, come le polmoniti, assolutamente inedite in estate.
Di fronte a questa infezione che colpisce quasi esclusivamente gli
omosessuali sarebbe stata ovvia una campagna informativa stile Aids che consigliasse
l’uso del preservativo per i rapporti anali. Ma questa non si fa. Per colpa
dell’imperante politically correct? No, per terrorizzare la
popolazione presentando il “vaiolo delle scimmie” come una imminente catastrofe
e costringerla ad una vaccinazione di massa. Che, magari, come è il caso di quella
anti-Covid scompaginando il sistema immunitario renderà una piaga infezioni
fino a ieri banali.
Quindi, altre malattie, altre vaccinazioni. Per consolidare una ipocondria
generale nata con l’emergenza Covid e diventata il principale strumento di
controllo sociale
Articolo già pubblicato in www.bastapaura.it
Il vero problema con il vaiolo delle scimmie - Massimo Sandal
Con oltre 500 casi confermati di vaiolo delle scimmie
al giorno nel mondo, il direttore generale dell’OMS, Thedos Ghebreyesus, il 23
luglio ha
dichiarato l’emergenza di salute pubblica internazionale. È
strano scrivere oggi di vaiolo: è una parola pregna di terrore antico – viene
dal latino varius, variegato, o da varus,
foruncolo – che speravamo di non dover più pronunciare. Il ritorno di una forma
di vaiolo dovrebbe angosciarci, eppure dopo due anni e mezzo di pandemia siamo stanchi;
l’idea di un altro virus di cui monitorare il contagio e per il quale prendere
provvedimenti di salute pubblica, magari invasivi, ci pare uno scherzo
grottesco.
Ci sono molte differenze rispetto al COVID-19. Sembra
abbastanza chiaro che il vaiolo delle scimmie non si possa diffondere con la
stessa rapidità; a differenza di Sars-CoV-2 inoltre il virus del vaiolo delle
scimmie è noto da decenni e abbiamo già vaccini funzionanti. Come sintomi, in
prima approssimazione, il vaiolo delle scimmie è un vaiolo lieve. Meno grave
del vaiolo umano storico, ma non è affatto un’esperienza insignificante. I
sintomi sono mal di testa, febbre, stanchezza, seguiti dalle caratteristiche
pustole vaiolose, spesso concentrate
nella zona ano-genitale e estremamente dolorose,
che in seguito seccano e possono lasciare cicatrici. A
seconda del ceppo virale la mortalità
può oscillare – nei paesi africani dove è endemico, per esempio – dall’1 al
10%. Il vaiolo vero e proprio, in confronto, aveva una mortalità del 30%.
Il vaiolo delle scimmie colpisce più gravemente bambini e immunodepressi (come
i sieropositivi all’HIV, che in Africa nel 2018 erano poco
meno di 38 milioni).
Però – dovrebbe essere ovvio, ma ovvio non sembra
– la seconda fuga e invasione planetaria di un virus nel giro di tre anni
è un segnale che dovremmo imparare a leggere: l’ennesimo sintomo del nostro
approccio problematico con la biosfera. Eppure, viceversa, il vaiolo ci
dovrebbe insegnare anche che, contro i virus, possiamo fare qualcosa che oggi,
dopo tre anni di pandemia e in mezzo a nuove varianti di Sars-CoV-2 può suonare
strano: possiamo vincere.
Da dove viene il vaiolo delle scimmie
Il 30 giugno del 1958 un macaco, che avrebbe dovuto
fare da cavia per la ricerca sui vaccini contro la poliomielite, allo Statens Serum Institut in
Danimarca, si
ammala di una curiosa eruzione cutanea molto simile a
quella del vaiolo. Nei giorni successivi altri cinque animali vengono colpiti.
A novembre un altro focolaio della stessa malattia colpisce un altro carico di
macachi; gli scienziati dello Statens Serum Institut isolano dagli animali un
nuovo virus di una malattia che chiamano monkeypox, vaiolo delle
scimmie.
In realtà il nome è parzialmente ingannevole: a
dispetto delle circostanze della sua scoperta, il virus infatti è più comune
nei roditori o nei ghiri dell’Africa, che nelle scimmie. Solo nel
1970 si registrò il primo caso di infezione
nell’essere umano: un bambino di 9 mesi nel territorio di Basankusu, una
regione quasi interamente coperta dalla foresta pluviale, nel nord della
Repubblica democratica del Congo, remotissima. Da quella prima infezione il
vaiolo delle scimmie in mezzo secolo è diventato endemico in Africa centrale e
occidentale. I numeri ufficiali non sono mai stati altissimi anche se comunque
preoccupanti (quasi 4600 casi
e 171 decessi confermati solo da gennaio a settembre 2020 in Congo, per
esempio) ma lentamente il virus estese il suo raggio d’azione, con
focolai in
Sudan e in Nigeria, lanciando anche
timidi tentacoli fuori dal continente africano, negli Stati Uniti per
esempio. Finora però gran parte dei focolai di vaiolo delle scimmie era stata limitata a
popolazioni che consumano cacciagione selvatica, la cosiddetta bushmeat,
e fuori da lì il virus era stato posto spesso rapidamente sotto controllo. È
evidente che ora invece il vaiolo delle scimmie è ben capace di sostenere la
sua diffusione da persona a persona. Finora le malattie della famiglia del
vaiolo non erano mai state considerate malattie veneree (anche se casi di
trasmissione sessuale erano noti). Ma è comunque
un’infezione che si trasmette tramite contatto stretto. Nei casi degli ultimi
mesi, sembra abbastanza chiaro che la principale via di trasmissione attuale
sia correlata ai rapporti sessuali, concentrata in particolare tra gli uomini
che fanno sesso con altri uomini.
È una situazione pericolosa, in cui rischia di
ripetersi l’errore che venne fatto per HIV/AIDS, che per un breve periodo venne chiamato dalla
comunità medica “gay-related immunodeficiency disease”, “malattia
di immunodeficienza relativa ai gay”, col duplice risultato di addossare lo
stigma alla comunità LGBT e di far sottovalutare il pericolo al resto dei
cittadini. Come ha spiegato Kai
Kupferschmidt su Science, è probabile che in questo caso il vaiolo
delle scimmie si sia diffuso accidentalmente all’interno di una sottoinsieme
della comunità gay con una rete di contatti sessuali molto fitta. È stata
questa molteplicità di partner, quindi, a favorire la diffusione del virus. Ma
il virus sta già debordando al di là di questi confini e inizia a colpire, per
esempio, anche i bambini.
Non è con lo stigma e con la buoncostume che si fermano le pandemie.
Breve storia del vaiolo
Il virus del vaiolo delle scimmie è il principale
parente del vaiolo storico ancora in circolo. Il ritratto di famiglia è però
abbastanza affollato. Vaiolo “classico” e vaiolo delle scimmie sono solo due
rappresentanti di una dozzina di virus estremamente simili tra loro, gli orthopoxvirus.
Il vaiolo delle scimmie non è l’unico vaiolo ancora esistente a colpire gli
esseri umani.
Innanzitutto c’è il virus vaiolo bovino, la cui
infezione è rara e il cui nome è, di nuovo ingannevole: ormai pressoché
inesistente tra le mucche, viene invece trasmesso alle persone dai
gatti (ha però come vera specie-riserva le arvicole,
che infettano i gatti quando le cacciano). Un altro è il cosiddetto vaccinia
virus: uno dei più noti, in quanto è il virus alla base dei vaccini per il
vaiolo, ma le cui origini in realtà sono
oscure; oggi viene trasmesso spesso proprio da persone
vaccinate contro il vaiolo con vaccinia virus infettivo, come i militari statunitensi.
In rari casi può passare all’uomo il vaiolo dei cammelli,
e vi sono inoltre virus che attaccano l’essere umano scoperti di recente,
come l’alaskapox (identificato
solo nel 2015) o il virus
Akhmeta. Nessuno di questi virus ha dato prova di essere
pericoloso, almeno finora.
È una famiglia tutto sommato giovane. Essendo capaci
di replicarsi rapidamente, l’evoluzione biologica dei virus segue le scale dei
tempi della nostra storia e preistoria, più che di quelle del tempo profondo,
di milioni di anni, che spesso attribuiamo all’evoluzione dei viventi.
Gli orthopoxvirus del Vecchio e del Nuovo mondo si sono
separati circa
42.000 anni fa, e il virus del vaiolo delle scimmie si è separato
dagli altri orthopoxvirus intorno a 3500 anni fa. Il virus del
vaiolo delle scimmie, o quantomeno la sua linea evolutiva, è dunque più antica
del virus del vaiolo umano, che invece sembra essersi
originato intorno al 280 dopo Cristo.
Questa parentela evolutiva stretta è quella che oggi
ci permette un vantaggio enorme nei confronti del vaiolo delle scimmie: un
vaccino contro un qualsiasi orthopoxvirus è estremamente
efficace anche nei confronti di tutti gli altri. I vecchi vaccini del vaiolo
(che sono a loro volta basati sul vaccinia virus, non sul virus del vaiolo in
senso stretto) hanno un’efficacia dell’85% contro il
vaiolo delle scimmie. Virus come quello dell’influenza o del COVID evolvono e
mutano molto più velocemente, e avere vaccini universali è molto più difficile.
È importante ricordare che comunque evolvono: il virus del vaiolo si è evoluto
nel tempo diventando più virulento,
non meno, a smentire definitivamente la fola secondo cui i virus diventerebbero
più “buoni” col tempo.
Viceversa, come ogni ente biologico, i virus del
vaiolo hanno comunque dietro di sé una storia remotissima. Essi sono una piccola parte di
un gruppo tra i più eccezionali della vertiginosa diversità dei virus, i
cosiddetti grandi virus a Dna citoplasmatici o NCLDV. È una
famiglia di virus probabilmente più
antica di tutti gli eucarioti (organismi con cellule
complesse) viventi, e che probabilmente ha influenzato l’evoluzione di gran
parte della vita sulla Terra. Il nostro rapporto con il vaiolo è solo un
piccolo, recentissimo capitolo di questa storia. Fedeli al nome della
categoria, i virus del vaiolo sono dei piccoli giganti: circa 220 – 450
nanometri di lunghezza, con un genoma di quasi 200.000 “lettere”.
Meno della metà di un batterio, eppure non ci sono
molti altri virus umani così massicci, tranne forse il virus dell’Ebola, la cui
lunghezza può arrivare al micrometro. Ma anche il virus del vaiolo è un nano al
confronto dei suoi parenti, tra cui ci sono i virus più grandi del pianeta,
come i mimivirus o i pandoravirus, il cui genoma è più grande e complesso di quello
di diversi batteri. Questi remoti cugini del vaiolo hanno messo in crisi l’idea
di virus come quella di semplici replicatori molecolari indegni dell’etichetta
di viventi, e li hanno avvicinati alle forme di vita vere e proprie.
Memorie di una vittoria
L’8 maggio 1980 l’OMS dichiarò il vaiolo
finalmente eradicato. “Il più terribile dei sacerdoti della morte”, secondo lo
storico Thomas Macaulay. Comparso circa 1700 anni fa (o forse anche
prima, se
venisse confermato che colpì e uccise il
faraone Ramsete V), il vaiolo solo in Europa uccideva, nel Diciottesimo
secolo, 400.000 persone all’anno, su una popolazione di 150 milioni. Era un
flagello particolarmente democratico: non si faceva scrupolo di uccidere o
colpire zar, imperatori, cesari. Il vaiolo ha ucciso l’imperatore Giuseppe I
d’Austria, re Luigi XV di Francia, lo zar Pietro II di Russia, il re Luigi I di
Spagna e la regina Ulrika Eleonora di Svezia, oltre ad aver sfigurato la regina
Elisabetta I d’Inghilterra. Fino a poco prima della sua eradicazione, mieteva
ancora migliaia di vittime: un singolo focolaio a Bihar, in India, uccise 10.000
persone nel 1974. Quando non uccideva – cosa che accadeva nel 20-30 per cento
dei casi – il vaiolo sfigurava e accecava: copriva il corpo delle vittime
di centinaia o migliaia di pustole, che lasciavano spesso cicatrici sul volto
e ulcere alle cornee.
Prima della comparsa del vaccino, il vaiolo causava un terzo dei casi di cecità
in Europa.
Sembrava impossibile liberarsi di un flagello così
endemico e letale, eppure oggi è solo un ricordo. Già eliminato dai Paesi
occidentali entro il dopoguerra (il primo Paese a eliminare il vaiolo dai
propri confini fu la Svezia nel 1895,
con l’eccezione di due focolai negli anni Trenta e negli anni Sessanta), il
vaiolo venne eradicato da tutto il globo con una campagna mondiale coordinata e
senza tregua. Questa iniziò ufficialmente nel 1958 con la risoluzione WHA11.54 dell’OMS,
su proposta del ministro della salute sovietico Viktor Zhdanov, ma il
presidente americano Thomas Jefferson aveva già espresso questa
speranza nel 1806, scrivendo a Edward Jenner, colui che mise a punto la
vaccinazione contro il vaiolo: “Avete eliminato una delle più grandi sventure
umane. […] Le nazioni del futuro sapranno solo dalla storia che il ripugnante
vaiolo è esistito”.
È stato possibile perché, nell’orrore, siamo stati
fortunati. Il vaiolo infatti aveva numerose caratteristiche che
lo rendevano un bersaglio perfetto per l’eradicazione. Non aveva casi
asintomatici, la malattia era ben riconoscibile, l’infettività era associata
all’evidente eruzione cutanea, non c’erano portatori a lungo termine, il
vaccino era estremamente efficace contro tutti i ceppi del virus (in generale,
i vaccini per il vaiolo sono efficaci contro tutti gli altri orthopoxvirus
umani) e non c’era nessun animale che potesse fare da “serbatoio” per il virus.
A differenza di quanto spesso si crede, l’eradicazione del vaiolo non è stata
raggiunta tramite una vaccinazione a tappeto: nelle fasi finali
dell’eradicazione i focolai potenziali venivano cercati ossessivamente,
meticolosamente in ogni villaggio, e poi spenti in modo mirato. Una volta
identificati i casi di infezione questi si contenevano isolandoli («quattro
guardie venivano assegnate, giorno e notte, a ciascuna abitazione
infetta», ricordava Frank Fenner,
uno dei medici leader della campagna di eradicazione) e vaccinando tutti i
possibili contatti.
L’ultimo caso naturale di variola major,
la forma più letale del vaiolo, è stato quello di Rahima Banu, in Bangladesh,
il 16 ottobre 1975; l’ultimo di variola minor colpì Ali Maow
Maalin, cuoco di un ospedale somalo, il 22 ottobre 1977. Entrambi guarirono
dalla malattia senza gravi complicazioni. Il vaiolo avrebbe però reclamato
un’ultima vittima: la fotografa medica inglese Janet Parker, l’11 settembre 1978,
infettata in seguito a un incidente di laboratorio all’Università di
Birmingham, in circostanze mai davvero chiarite, morì dopo un mese di agonia.
Fu in seguito a quell’incidente che tutti i campioni di vaiolo esistenti nei
laboratori vennero distrutti o inviati a due laboratori di massima sicurezza,
negli Stati Uniti e in Unione Sovietica. Il terrore del vaiolo resta comunque
alto, anche oltre 40 anni dopo. Nel 2018 è stato approvato il primo farmaco
contro il vaiolo, il tecovirimat, e per l’occasione la rivista Nature chiedeva di
tenere ancora alta la guardia.
Il vaiolo ha dimostrato che eliminare una malattia
infettiva dalla Terra è estremamente complesso: ha richiesto una coincidenza di
condizioni fortunate e uno sforzo collettivo ineguagliato. Oggi abbiamo
eradicato la peste bovina, e siamo vicini a eradicare altre malattie umane,
come la poliomielite o la dracunculiasi, ma non è chiaro quanti patogeni
potremo lasciarci alle spalle, ricordi nei musei della sesta estinzione insieme
a migliaia di altri viventi, ma che una volta tanto non mancheranno a nessuno.
Prendiamo il Sars-Cov-2: al contrario del vaiolo ha una diffusione aerea molto
più semplice (anche se non mancarono casi di diffusione
aerea del vaiolo, come nel focolaio di Menschede nel 1970 in
Germania), ha una fase e casi asintomatici e contagiosi, e ha serbatoi animali.
Questo rende il coronavirus un bersaglio molto più difficile del vaiolo.
Ma questo non significa neanche che dobbiamo
abbandonarci al fato. L’eradicazione del vaiolo è stata un po’ come lo sbarco
sulla Luna: ha dimostrato che un obiettivo apparentemente fantascientifico era
possibile, con uno sforzo collettivo e coordinato. Anche se non fosse stato
possibile eradicare del tutto il vaiolo, l’impresa non sarebbe stata vana:
controllare il virus il più possibile avrebbe comunque risparmiato migliaia se
non milioni di vite umane e sofferenze.
Perché il vaiolo delle scimmie arriva proprio adesso a
diffondersi nel mondo? Ci sono varie teorie – il virus potrebbe essersi evoluto per
diventare più contagioso, o la pandemia di COVID-19 potrebbe aver indebolito il
nostro sistema immunitario. Ma il fatto è che gli scienziati ci dicono che in
futuro una nuova epidemia, se non pandemia, è inevitabile. Il vaiolo delle
scimmie potrebbe non essere quella pandemia, ma è comunque un assaggio di
quanto ci aspetta.
Virus, globalizzazione e colonialismo
Una possibile chiave di lettura di quello che sta
accadendo si può andare a cercare nel rapporto tra pandemie e colonialismo. Il
vaiolo del resto fu una delle principali armi, sia pure in gran parte
involontarie, del colonialismo europeo. Nel Sedicesimo secolo annientò le
civiltà precolombiane: arrivato nelle Americhe nel 1507, massacrò interi
popoli. Un frate spagnolo, giunto in Messico nel 1525, descrisse come “quando
il vaiolo iniziò ad attaccare gli Indiani, divenne una pestilenza così grande
che nella maggior parte delle province più di metà della popolazione morì […] a
cataste, come fossero cimici. Altri morirono di fame, perché, siccome erano
tutti malati, non potevano prendersi cura l’uno dell’altra. In molte case tutti
morirono e, siccome era impossibile seppellire il gran numero di morti,
tirarono giù le case […] che diventarono le loro tombe”. L’impero Inca si
sbriciolò più a causa del vaiolo, che uccise l’imperatore Huayna
Capac e il suo erede, Ninan Cuyuchi, portando la guerra civile in un impero
sotto attacco, e ne decimò la popolazione, che delle spade di Pizarro.
Ma il rapporto tra epidemie e pandemie e
colonizzazione – sia in senso stretto, sia nel senso lato di conquista e
penetrazione di massa in habitat remoti – non si ferma qui.
Guardiamo a quanto accaduto per esempio col virus
HIV, che è entrato in contatto con la specie umana negli
anni Venti del Ventesimo secolo, e si è diffuso in seguito alla urbanizzazione
della zona di Kinshasa neli anni Sessanta. E a quello che è accaduto di nuovo
con il Sars-Cov-2, le cui origini sono ancora incerte ma in qualche modo devono
risalire al brulicare di coronavirus tra i pipistrelli dello Yunnan, in Cina, o
nel sud-est
asiatico, e con cui siamo entrati in contatto vuoi tramite
le miniere di rame,
vuoi tramite il consumo di animali selvatici.
L’HIV però è stato riconosciuto ed è diventato un
allarme solo quando è uscito dall’Africa, negli anni Ottanta, per sbarcare
negli Stati Uniti, anche se in Africa era già diffuso da decenni (e anzi,
probabilmente ce ne siamo accorti quando è uscito dal sottomondo sociale dei
tossicodipendenti per arrivare a strati meno nascosti della società, se sono
vere le testimonianze aneddotiche sulla junkie
flu negli anni Settanta). E viceversa, benché sia tuttora endemico in
Africa con enormi conseguenze di salute pubblica, in Occidente è diventato
invece ormai un fatto della vita, prevenibile con contraccettivi a portata
delle nostre tasche e trattabile con le terapie che oggi lo rendono una
malattia cronica e non una sentenza di morte.
Con il vaiolo delle scimmie stiamo ripetendo lo stesso
copione colonialista: anni di allarmi medici e scientifici sono stati ignorati.
Come per miriadi di malattie endemiche in paesi non occidentali, quali l’Ebola,
francamente ce ne siamo infischiati,
come oggi ad esempio ce ne infischiamo della rabbia.
È solo quando deborda nei nostri walled garden occidentali che
virus come il vaiolo delle scimmie diventano, di colpo, un problema di cui
parlare. Il nostro cinismo occidentale, volutamente ignorante, per cui la
realtà di interi diversissimi continenti come l’Africa o il sud-est asiatico
restano terre e popolazioni di cui non occuparsi o da respingere come un
fastidio, non è sostenibile, perché quanto accade là prima o poi riverbera
anche nelle nostre case. Ma resta una magra consolazione per quei popoli:
dimenticati prima, e che saranno dimenticati, in gran parte, dopo.
Più in generale, il nostro approccio con la biosfera è
colonialista – c’è chi fa partire l’Antropocene proprio con l’epoca coloniale.
Nella biosfera ci espandiamo, lanciando i nostri tentacoli sempre più lontano,
sfruttando zone in cui l’umanità non aveva mai messo piede o quasi, risorse
finora inaccessibili. Ma, una volta che la natura è stata penetrata, sfruttata
e divelta, facciamo di tutto per tenerla lontana, recintandola dove possibile e
controllandola altrimenti. Essere nel mondo ma non del mondo,
questa sembra la lotta costante della specie umana.
C’è motivo per questo: la natura è matrigna, come
afferma l’Islandese nel dialogo di Leopardi:
mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta
degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii
ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e
sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei
carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del
tuo sangue e delle tue viscere.
Storicamente, gran parte dell’avanzamento delle
condizioni umane di vita è coinciso con la necessità e capacità di tenere la
natura fuori. Letteralmente, costruendo abitazioni e architetture; o
respingendo i patogeni fuori dall’organismo con la medicina. Ma la natura
rientra. In realtà i termini stessi che sto usando sono menzogneri. L’idea che
la natura possa restare altrove, come un (iper)oggetto vischioso e totalizzante
ma, comunque, fuori da noi, è un’illusione. Cercare di staccarsene
è futile come un organo che cerchi di staccarsi dal corpo.
Con l’accelerazione dello sfruttamento delle risorse
naturali, tenere la natura fuori mentre ci addentriamo nel suo ventre diventa
una contraddizione insanabile. Come per Kurtz, lo spietato commerciante
d’avorio di Cuore di tenebra di Conrad, il nostro dominio
brutale è infine suicida: affondando il coltello nel cuore di tenebra della
biosfera, rischiamo di solo finire moribondi a balbettare “l’orrore, l’orrore”
senza neanche capire cosa abbiamo fatto. Anche se in realtà almeno alcuni lo
hanno compreso: che il sorgere sempre più frequente di nuove pandemie sia
una conseguenza diretta dello
sfruttamento ambientale ormai è un dato di fatto, accertato ripetutamente dalla
comunità scientifica.
Nell’aprile 2022 un modello pubblicato su Nature ha
previsto che il riscaldamento globale – che è solo uno degli stress che stiamo
imponendo all’ambiente, anche se è quello di cui parliamo di più – da
solo potrebbe
causare 4000 eventi di spillover, contatti
di virus animali che passano all’essere umano. Perfino il turismo occidentale
ha il suo ruolo: come racconta Stefania Leopardi ne L’innocenza del
pipistrello, l’epidemia di virus Marburg del 1987 in Kenya è partita da un
quindicenne danese in visita alla grotta di Kitum, mentre lo stesso virus nel
2008 fa capolino in Europa grazie a un turista olandese di ritorno dall’Uganda.
Deve essere così? Non necessariamente, o almeno non
del tutto. Come abbiamo visto, il potere globale che ora ci sta portando a
contatto con virus vecchi e nuovi è in qualche modo lo stesso che ci ha
consentito di eradicare uno dei più atroci flagelli dell’umanità, e che ci sta
portando a eliminarne altri, come la poliomielite. Lo ha fatto,
anche qui, a volte con la logica del “fardello dell’uomo bianco”, usando
coercizione e violenza in alcuni
casi; in generale tutto il modo in cui l’Occidente interviene sulle epidemie in
Africa è permeato da questa logica.
Ma al di là di questo, l’eradicazione del vaiolo ci ha insegnato che i virus
non sono inarrestabili. Oggi inoltre abbiamo un’idea di come agire a un livello
più ampio e generale rispetto alle “semplici” campagne di vaccinazione.
L’approccio One Health dell’OMS aspira a includere, nella prevenzione
e lotta a epidemie e pandemie, anche la conservazione degli
ambienti e della biosfera, cruciali per ridurre la probabilità di spillover dei
patogeni presenti e futuri.
Ciò nonostante davanti ai rischi globali, perfino
quando colpiscono l’Occidente, oggi prevale una sorta di versione collettiva di
quella ansia e impotenza – learned helplessness – che è alla base della
depressione. Dopo due anni di fronte alla pandemia ci siamo praticamente
arresi, e sembra che davanti al vaiolo delle scimmie stiamo reagendo lentamente e
con fastidio, più che con prontezza. Reagire a minacce globali come le pandemie
o la crisi ecologica sembra, semplicemente, incompatibile col nostro modello di
esistenza: richiede di guardare in faccia la realtà e agire globalmente in modo
coordinato. Il sospetto invece è che continueremo a negare
la crisi, pur di non cambiare rotta. Il principale dramma del
vaiolo delle scimmie non è tanto la malattia in sé, ma la possibile conferma
che, nonostante due anni e mezzo di pandemia, la civiltà umana abbia
disimparato a proteggere sé stessa.
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