Nel Sahel, da cui sono
tornato da qualche settimana, l’insicurezza è più cronica che da ‘cronaca’. Il
quotidiano ne è totalmente colonizzato e la sabbia, da questo punto di vista,
ne costituisce una delle metafore più convincenti. In bilico tra fragilità ed eternità, la sabbia ben rappresenta la
permanente sfida ad ogni pretesa di vana sicurezza. In quella porzione
dell’Africa tutti sono coscienti che è la precarietà a dettare il ritmo e le
stagioni del tempo. La vita, il lavoro, la pioggia, i raccolti, il cibo, i
viaggi, i matrimoni, la salute, la scuola, la politica, i progetti, la fede
religiosa, gli appuntamenti, le amicizie, la pace e gli amori. Tutto sembra
condizionato dal sapore dell’insicuro umano transitare.
La ‘sicurezza’ è un’utopia nella quale pochi hanno creduto. Naturalmente hanno
ragione loro e la sabbia, dalla quale tutti discendiamo. Ci sono momenti
storici nei quali le promesse arroganti e illusorie della
sicurezza, la greca hybris, sono
smascherate e appaiono nella loro nudità. Come tombe ricoperte di sabbia che il
vento torna a rendere visibili agli occhi distratti dei passanti, così viene a
riconfigurarsi la percezione dell’esistenza.
È bastata l’iniqua risposta ad una
malattia, né migliore né peggiore di altre che hanno caratterizzato la storia
delle epidemie, per mettere in ginocchio buona
parte del mondo ‘civilizzato’. Le telecamere della video-sorveglianza, sparse
ovunque, i tracciamenti dei movimenti delle persone e l’abusiva supervisione
del loro stato di salute non sono stati altro che tragiche cifre di una
sconfitta. Paure, di cui la storia dell’Europa è stata accompagnata
e marcata, che sono riapparse, dissepolte, riviste, corrette e pronte per
l’uso. La morte, espunta dall’immaginario come una vergognosa debolezza da cui
sfuggire, la fragilità dei corpi, le solitudini degli anziani e l’incomprensione dei giovani, hanno mostrato quanto si
teneva, volutamente, nascosto. L’uso politico della paura ha contribuito a
creare quanto fino a poco tempo fa sarebbe apparso inconcepibile: una selezione
tra i cittadini di uno stesso Paese, discriminati, eliminati, condannati e
socialmente disprezzati. L’insicurezza si è gradualmente impadronita del tessuto sociale, già sconnesso e
preparato da anni di scientifica divisione consumista.
Appare dunque particolarmente eloquente e fuorviante, per esempio, quanto letto su
uno dei vari manifesti di propaganda per la prossima campagna elettorale. ‘Stop
Sbarchi – Più Sicurezza’, la data messa bene in mostra è quella del 25
settembre prossimo. Per chi sarebbe concepita una sicurezza che scaturisce
dall’insicurezza di chi parte da lontano per sfuggirla e si
trova a ‘sbarcare’ in una società che le vicende sanitarie e belliche ha
ulteriormente reso fragile? Sarebbe più onesto riconoscerci come ‘associati’ di
un mondo che, attraversato dalla fragile precarietà del
momento, accoglie l’insicurezza come un’apocalisse che ci rivela un comune
destino.
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