martedì 30 aprile 2024

Tempesta Eolica in Sardegna: un assedio speculativo al patrimonio dell’Isola - Pino Cabras

 

La Sardegna è in pericolo. È sotto attacco, non ci sono più dubbi. Ed è la vittima della degenerazione più estrema e paradossale di un tema nato sano, ossia l’ambiente e la sostenibilità, ormai trasformato in una minaccia devastante.

Sorretto dall’ideologia “green” combinata con la dismisura delle locuste finanziarie, sta prendendo forma un assalto speculativo volto a deturpare per sempre l’intero paesaggio della Sardegna.

Navi cariche di mastodontiche turbine eoliche stanno approdando con la stessa minacciosa imponenza metallica dei carichi di missili e blindati che vediamo nei porti polacchi con destinazione Ucraina. Non è un caso: la logistica di chi vuole controllare un territorio in modo integrale tende ad assomigliarsi, e gli strateghi che la comandano hanno lo stesso set di pensiero, spesso gli stessi conti correnti. Passano per le stesse porte girevoli di Davos. Perciò i lunghi carichi di eliche e di torri d’acciaio appaiono con lo stesso lugubre impilaggio di una batteria missilistica da portare al fronte. Ma qui il fronte siamo noi. È una guerra al nostro paesaggio e al nostro respiro.

 

Sbarchi segreti e strategie occulte

Le acque del porto di Oristano in questi giorni hanno visto l’arrivo della “Uhl Frontier”, una nave che, nonostante tentasse un arrivo di soppiatto, non ha potuto nascondere la verità del suo carico: gigantesche pale eoliche, preludio di un’invasione programmata.

Le foto pubblicate da L’Unione Sarda sono molto chiare. Questo movimento non solo nasconde operazioni di grande portata, ma rappresenta la punta dell’iceberg di una strategia più ampia e inquietante.

È l’avanguardia ormai visibile di una cosa a cui forse per abitudine non volevamo credere fino in fondo, nonostante fosse annunciata nei documenti denunciati da tanti sindaci esposti alle carte del Sacco della Sardegna.

Nessuno, prima che arrivi la guerra, riesce a immaginarla davvero nella sua esatta portata. Ora è impossibile non vedere, non sapere, non sentire la minaccia con una prossimità che scandisce ormai i minuti.

 

Una disparità allarmante

La Sardegna si trova nel mirino di speculatori energetici, con progetti eolici che superano di sei volte la media nazionale in termini di richieste di connessione. A fronte di una potenza complessiva progettata di 58 Gigawatt per la sola Sardegna, l’isola si confronta con una realtà nazionale che vede regioni come la Sicilia e il Friuli Venezia Giulia fermarsi rispettivamente a 16,8 (non pochi comunque) e 1,2 gigawatt. La Lombardia (che è la regione industriale e popolosa che sappiamo) è destinataria di progetti che sono quaranta volte più piccoli dell’attacco alla Sardegna. L’Isola verrebbe trasformata in una colonia estrattiva da cui ricavare un volume di energia sufficiente a coprire i bisogni di più di 50 milioni di individui. La Spagna intera. O la Corea del Sud. O l’Argentina e l’Uruguay insieme. Una disparità che grida vendetta e solleva dubbi su chi realmente beneficerà di questa energia in surplus. Non certo la popolazione locale, che dovrebbe svendere l’intera sua storia a un brutale sfruttamento del suolo, dell’aria, delle connessioni sociali a un potere soverchiante che usa l’orripilante stile estrattivo di un qualsiasi Congo belga.

 

Violazioni e impatti irreversibili

Il caso che riguarda la Basilica di Saccargia è emblematico: turbine alte come grattacieli minacciano di deturpare il contesto di un monumento storico meraviglioso, per non parlare dello sfregio sistematico e senza remore del paesaggio nuragico, così come di ogni altro bene identitario. Centinaia di torri da duecento metri destinate a spossessare ogni pezzo dell’anima che lega insieme popolo, cultura e natura: un genocidio volto a sopprimere nel tempo brevissimo di un blitz militare qualsiasi indipendenza economica e morale di una comunità in declino, alla quale si vuole infliggere il colpo di grazia.

Un’isola come questa è un mondo, ed è un mondo che sarà presto inghiottito e dimenticato nei flussi digitali delle borse occidentali. La decisione di proseguire, nonostante i pareri contrari, è stata forzata attraverso un sistema di cavilli, società opache, scatole cinesi, che si piega inesorabilmente ai desideri delle corporazioni con sovrana indifferenza rispetto ai bisogni dei cittadini e con totale emarginazione degli enti territoriali.

 

Il profitto dietro il “progetto”

Un singolo impianto eolico da 1 megawatt può generare fino a 150.000 euro annui in incentivi. Con una capacità totale che promette ritorni finanziari superiori agli 8 miliardi di euro, è chiaro che la spinta verso l’eolico in Sardegna è solo la caricatura grottesca di un’iniziativa “verde” mentre appare più una corsa all’oro moderna, un Far West senza epica, una brutale invasione condotta a spese dell’ambiente e della collettività.

 

La ribellione dell’Isola

Siamo appena agli inizi. Le comunità sarde non staranno a guardare. La reazione popolare spinge a mobilitazioni e richieste di moratoria. La Giunta regionale intervenga decisamente per impedire che il patrimonio di questa terra sia sacrificato sull’altare della speculazione energetica. Questo è il momento di ascoltare la voce dei cittadini. Gli speculatori hanno nel frattempo mobilitato i più agguerriti studi legali. Sono preparati a ripetere anche qui le tante storie di malagiustizia in cui i padroni universali si sdraiano sulla sfera pubblica. Draghi, in nome delle semplificazioni, aveva creato il contesto giuridico per favorire lo stupro dei territori. A un tentativo di stupro si reagisce difendendo i nostri corpi. Poi andranno fatti anche i conti con le teste dei tiranni.

 

In che direzione va l’energia? Il caso Thyrrenian Link

Comitati locali e molti cittadini sardi segnalano con forza il caso del “Tyrrhenian Link”. Questo super cavo elettrico è parte di un progetto infrastrutturale che mira a migliorare la distribuzione dell’energia tra la Sardegna e il continente, in entrambe le direzioni. I comitati si sono mobilitati contro l’approdo di tale infrastruttura a Terra Mala, esprimendo timori per l’impatto ambientale e paesaggistico che potrebbe derivare dalla realizzazione di questi grandi interventi energetici. La comunità locale ha chiesto un incontro con la presidente della Regione per discutere gli sviluppi ulteriori. Il tema è chiaro: se soltanto in eolico si sta progettando una potenza che alimenterebbe una Corea, e se si uniscono i terrificanti campi fotovoltaici che sloggeranno gli agricoltori impoveriti e aggiungeranno altri stupri paesaggistici, allora la direzione dell’energia elettrica va in una sola direzione. E anche la direzione dei benefici. Il sospetto è che il cavo sia lo sbocco finale e definitivo di quella specie di sbarco militare che per ora vediamo al porto di Oristano.

 

L’equivoco di fondo sulle rinnovabili

C’è una considerazione più di fondo. I grandi campi eolici e fotovoltaici, nel funzionare come megacentrali, rischiano di centralizzare il controllo dell’energia nelle mani di pochi, allontanandosi dall’ideale di un sistema energetico democratico e accessibile a tutti. Questo modello limita la partecipazione di piccoli produttori e comunità, che invece potrebbero trarre grandi benefici da impianti di piccola e piccolissima scala, distribuiti su tutto il territorio.

I sistemi decentralizzati trasformano ogni edificio, dalle case agli uffici, in una mini-centrale energetica autonoma, riducendo la dipendenza da infrastrutture remote e massicce, oltre a minimizzare le perdite energetiche dovute al trasporto su lunghe distanze. L’integrazione con le smart grid, o reti intelligenti, potenzia ulteriormente questo approccio, ottimizzando il consumo e la condivisione di energia in base alle effettive necessità, rendendo il sistema più efficiente e sostenibile.

Abbracciare questa visione significa non solo promuovere l’efficienza, ma anche sostenere l’autosufficienza, l’innovazione locale e un futuro energetico più equo e sostenibile per tutti.

L’assalto alla Sardegna se ne frega di questo approccio autenticamente ambientalista, perché il green che si vuole imporre è quello del modello Davos, del World Economic Forum: autoritario, opaco, verticale, distruttivo. Se elimini contadini e popoli dai loro suoli, rendi vile il prezzo dei beni agricoli, ma avrai tanta energia che vanterà una falsa decarbonizzazione per produrre cibi scadenti, sbobbe per nuovi poveri. Il nuovo totalitarismo passa anche da questo.

 

Democrazia o tritolo

È imperativo che la Sardegna riscopra il potere di una pianificazione consapevole ed equilibrata. Le decisioni future devono bilanciare le possibilità della tecnologia e l’integrità del patrimonio, garantendo che l’energia prodotta serva veramente le necessità dell’isola e non quelle di entità che hanno il cuore in chissà quale fondo d’investimento. Servirà una grande forza democratica. Altrimenti vincerà il tritolo, se non saranno date altre scelte.

https://www.pinocabras.it/tempesta-eolica-in-sardegna-un-assedio-speculativo-al-patrimonio-dellisola/

lunedì 29 aprile 2024

Sardegna ciabatta energetica - Maria Antonietta Pirrigheddu

(attivista del Coordinamento Gallura contro la speculazione eolica e fotovoltaica)

Stavolta il solito ritornello “Ce lo chiede l’Europa” può andare a farsi benedire. L’Europa, infatti, ci chiede l’esatto contrario. Ma noi siamo italiani, facciamo a modo nostro e i ritornelli li usiamo quando ci conviene. Soprattutto se si tratta della Sardegna.

Già, la Sardegna, questa terra un tempo meravigliosa che nel giro di un paio d’anni probabilmente non esisterà più: l’intento è di trasformarla in un polo industriale, destinato a produrre energia elettrica da trasportare chissà dove.

Questi sono i programmi per noi, per il nostro sviluppo. E per salvare la terra dal cambiamento climatico. Eh sì, perché a quanto pare per salvare la terra è necessario smettere di coltivarla, togliercela e consegnarla alle multinazionali. Così il pianeta sarà salvo.

Per capire cosa sta accadendo dobbiamo partire dall’inizio, dalla cosiddetta Transizione energetica. Ovvero la necessità sacrosanta, che nessuno contesta, di smettere di utilizzare combustibili fossili come carbone e metano per la produzione di energia elettrica e transitare verso “fonti rinnovabili” come il sole, il vento e l’acqua.

 

L’Europa si è proposta di arrivare alla totale decarbonizzazione entro il 2050, passando per vari step. Il primo step ci attende nel 2030, quando l’Italia dovrà installare sull’intero suolo nazionale una potenza di 70 Gigawatt per la produzione da fonti rinnovabili.

Ora, 70 diviso 20 regioni fa 3,5 Gigawatt a testa… Ma siccome noi sardi siamo notoriamente generosi e avvezzi ad essere colonizzati, la bozza del decreto nazionale ce ne assegna 6. E questo nonostante produciamo già molta più energia di quanta ne consumiamo.

Però sta succedendo una cosa strana: invece di prepararci ai 6 Gigawatt per il 2030, ci ritroviamo già oggi con quasi 58 Gigawatt pronti da installare. Quasi dieci volte tanto!

Grazie al famigerato decreto Draghi e a causa di delibere indegne firmate dalla Regione Sardegna negli ultimi anni, sono arrivate qui come avvoltoi aziende e multinazionali da ogni parte del mondo, per spartirsi la nostra terra e piazzarvi i loro impianti colossali.

Si è stabilito che i due terzi della nostra Isola possano essere sventrati, perforati, riempiti di cemento, devastati, depredati. I due terzi del nostro suolo possono essere sottratti all’agricoltura, alle aziende agro-pastorali, alle aziende turistiche e agrituristiche, ai nostri progetti, al nostro futuro, a noi.

Non per darci opportunità ma per toglierci ogni opportunità.

Ad oggi le richieste di allaccio sono 809, ma crescono di giorno in giorno. Se le pratiche presentate andassero in porto, verrebbero impiantate sulla terraferma 3.000 turbine eoliche alte fino a 240 metri (da sommarsi alle 1.200 già esistenti), altre 1.300 turbine di 320 metri davanti alle spiagge, visibilissime anche a decine di km di distanza, e quasi 50 km2 di pannelli solari su campi e pascoli. A tutto ciò dobbiamo aggiungere le innumerevoli autorizzazioni già concesse!

Numeri da far accapponare la pelle. Solo per il foto e agrivoltaico, quasi 50.000 nuovi ettari verrebbero sottratti alle nostre attività e ai nostri paesaggi per riempirli di specchi di silicio, che nel giro di due decenni (o ancor prima se dovesse arrivare qualche grandinata) si trasformerebbero in sconfinate discariche a cielo aperto. Eppure l’Europa ci raccomanda di evitare ulteriore consumo di suolo, un bene primario essenziale per contrastare i cambiamenti climatici.

Su tutto questo, migliaia di tralicci alti 49 metri con infiniti km di fili sospesi.

Ora immaginatela, questa immensa landa industriale in cui saremmo costretti a vivere, con il terribile ronzio che ci accompagnerebbe giorno e notte. Immaginatevi le migliaia di luci rosse intermittenti che cancellerebbero le nostre notti stellate… Quelle notti e quel silenzio che fanno della Sardegna una terra celebrata ovunque, e che noi non avremmo più.

Se tutto ciò dovesse realizzarsi – e sta già accadendo – la Sardegna sarà irrimediabilmente sconvolta nei suoi panorami unici, nella biodiversità, nella ricchezza naturale, storica, archeologica, culturale e identitaria.

A fronte di quali vantaggi?

Per noi non è contemplato alcun risparmio in bolletta né, tanto meno, alcuna compensazione in denaro, ora vietato per legge. Sono previsti solo “interventi di miglioramento ambientale”.

Cioè?

Di solito il miglioramento consiste nel ripristino delle strade distrutte per il trasporto delle enormi pale. Talvolta i progettisti sono più premurosi, arrivando addirittura a costruire, in cambio dei territori violentati, graziose siepi oppure altalene e scivoli per bambini. O noccioleti per la produzione di nutelle. Verremo ripagati anche con “campagne di sensibilizzazione per il cittadino”, per persuaderlo della bontà degli atti speculativi.

D’altronde gli europei di un tempo, quando andavano a colonizzare l’America latina, si conquistavano la fiducia degli indigeni regalando collanine e altre cianfrusaglie. Il sistema è identico.

Per loro, invece?

Da 900.000 a 1.200.000 euro all’anno per ogni turbina eolica! Cifre anche maggiori per quelle in mare.

Oltre al danno la beffa: una parte di questo milione esce dalle nostre tasche, perché gli incentivi, magnanimamente concessi dal Governo italiano, vengono prelevati dalle bollette. In pratica lo Stato prende i nostri soldi e li dona agli speculatori che sbarcano qui, come la famosa JP Morgan. Non è fantastico?

Tra 25-30 anni questi impianti saranno già arrivati a fine vita, salvo incidenti nel frattempo. Chi provvederà allo smaltimento?

Certamente non le ditte installatrici: in molti casi si tratta di aziende con 10.000 euro di capitale sociale, magari organizzate in un sistema di scatole cinesi, che falliscono o spariscono presto. Chi subentra non si sente affatto in dovere di onorare impegni presi da altri. Perciò i rottami sono tutti nostri e dovremo occuparci noi di smaltirli. Come? Affrontando spese enormi e andando ad inquinare altri territori.

Ma i terreni che ospitano gli aerogeneratori non saranno mai più bonificati, perché il basamento (circa 1.300 metri cubi di calcestruzzo) non può essere eliminato: verrà lasciato lì, rendendo sterile il terreno in eterno. È questa l’idea comune di “energia pulita”.

Ecco perché parliamo di SPECULAZIONE. Loro si prendono la nostra terra e il nostro futuro e in cambio ci gettano qualche osso, per tenerci buoni.

Spesso, però, manco quello. Le truffe sono all’ordine del giorno, sia ai danni di privati che delle Pubbliche Amministrazioni. Sono sempre più numerosi i proprietari di terreni che si rivolgono agli avvocati, prima di firmare i contratti di concessione, perché cominciano a rendersi conto che è facilissimo cadere in trappola.

Se l’affare non dovesse andare in porto, tuttavia, si può sempre ricorrere agli espropri. Imprese private che espropriano altre imprese private: ogni infamia è concessa, in nome della pubblica utilità.

Sono molti gli amministratori che si oppongono, ricevendone addirittura minacce; altri invece ricercano il vantaggio personale. L’inerzia della Giunta Solinas, appena decaduta, ha favorito qualunque tipo di malaffare.

Ci sono soluzioni al disastro incombente?

Certo: basterebbe recepire le direttive europee. L’energia necessaria al nostro sostentamento, e anche in sovrappiù, potrebbe essere prodotta dal fotovoltaico sui tetti sia pubblici che privati, senza ulteriore consumo di suolo; dallo sviluppo dell’idroelettrico – che stranamente non viene preso in considerazione – ed eventualmente dal geotermico di bassa profondità. Si potrebbero potenziare gli impianti eolici già esistenti, sfruttando le nuove tecnologie ma rispettando l’estensione e le altezze attuali, senza altro concedere. Redigere piani energetici locali e concordati con le comunità, che non distruggano l’economia e il tessuto sociale come invece fanno questi impianti di taglia industriale. Piani che rispettino il territorio e la nostra dignità.

Sono queste le soluzioni suggerite dai 14 Comitati che si sono costituiti per difendere la Sardegna dall’assalto, riunendosi in un Coordinamento regionale. I Comitati chiedono con urgenza una moratoria, per stoppare almeno momentaneamente i progetti e avere il tempo di fare scelte migliori, una Legge regionale di recepimento delle direttive UE, la possibilità di partecipare alla redazione di un piano energetico regionale.

Si attendono i primi passi della Giunta Todde, che molto ha promesso in campagna elettorale. Si è già perso troppo tempo. Intanto gli speculatori avanzano in gran fretta e con arroganza, favoriti da vent’anni di norme nazionali che facilitano incredibilmente ogni tipo di autorizzazione, scavalcando le comunità locali.

La nuova Amministrazione Regionale verrà messa immediatamente alla prova. Alessandra Todde vorrà e sarà capace di tutelare la sua terra, pur rispettando il fine comune della transizione energetica? Sarà capace di condurci all’obiettivo senza barattare la Sardegna?

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Per contatticoordinamentogallura.stopeolico@gmail.com


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domenica 28 aprile 2024

Sussidi pubblici: l'ipocrisia occidentale verso la Cina è nuda - Pasquale Cicalese

 

Notizia del 15 aprile sia di Milano Finanza che de Il Sole 24 Ore. Il governo americano dà 6,4 miliardi di sussidi a Samsung per costruire una fabbrica di chip in Texas.

Sappiamo quanti miliardi ha avuto Stellantis dal governo italiano negli ultimi 2 anni (6 miliardi, quanto il costo del reddito di cittadinanza ora abolito) per non parlare del passato. Vi è una lunga lista di sussidi pubblici in Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Polonia ecc. ecc. Ma la Yellen accusa la Cina di sussidiare le sue industrie. Ora, a parte che almeno il 30% della produzione industriale cinese è pubblica (proprio come da noi nella Prima Repubblica, eravamo visti come un Paese "comunista", ma eravamo moderni e il benessere c'era), faccio una domanda provocatoria. Perché l'Ocse non fa uno studio comparato di quanti miliardi di sussidi pubblici concedono i paesi occidentali e quanti la Cina?

Si scoprirà che il rapporto è inverso, quindi la Cina non ci sta ad essere cornuta e mazziata e giustamente manco risponde alla Yellen o alla Von der Leyen. Semplicemente la Cina è un paese "socialista" con forte apporto di banche pubbliche, imprese pubbliche, servizi pubblici (proprio come eravamo noi, ve li ricordate gli anni settanta o ottanta, per non andare dietro ancora?). Ciò portava gettito fiscale al governo.

Cossiga nel 1969 ebbe a dire: abbiamo tanto gettito che non sappiamo come spenderlo. Ora, con le privatizzazioni che ci sono state negli anni novanta grazie a Draghi, Prodi, Amato, D'Alema, un pò Berlusconi e ora la Meloni, molte di queste imprese oligopolistiche hanno alzato le tariffe, non hanno fatto manutenzione (ogni riferimento ai Benetton è casuale) e soprattutto hanno trasferito la sede legale e fiscale nei paradisi fiscali (vedi Fiat, dopo 100 anni di sussidi pubblici).

Ecco perché la Cina può permettersi spese a favore di industria, servizi alla popolazione a prezzo basso se non politico (vi ricordate quanto costava un biglietto bus da noi negli anni settanta?). E' salario sociale globale di classe, oltre che salto tecnologico. E' questo di cui si accusa la Cina, la stessa accusa che sin dal 1917 si fece all'Urss, vale a dire che il governo controlla l'economia. In Cina ci sono miliardari. Tra i miei contatti c'è un architetto che vive in Cina. 4 anni fa, chattando mi disse: "vedi Pasquale, gli imprenditori privati, i miliardari, se il governo lo chiede (e Xi lo ha chiesto due anni e mezzo fa), danno tanti soldi alla comunità per un semplice motivo. Il governo gli ha portato benessere, competività, gli ha permesso di accumulare ricchezze".

Alibaba due anni fa diede 10 miliardi di dollari alla comunità cinese. E tante altre industrie private. Forse non sarà socialismo, ma il benessere comune, frutto del confucianesimo, lo sentono tutti, quel che i cristiani italiani definiscono distibutivismo. E allora, quanti miliardi di sussidi pubblici regala l'Occidente, e quanti ne dà la Cina? Spesso le aziende cinesi private non hanno bisogno, da almeno 15 anni, di sussidi pubblici perché sono piene di liquidità, grazie a successi imprenditoriali diffusi (i cinesi sono mercanti da millenni).

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sabato 27 aprile 2024

La Rinconada, la città estrema oltre le nuvole – Marta Zelioli

 

C’è un posto dove si vive letteralmente sopra le nuvole, a 5100 metri sul livello del mare. Descritto in questo modo potrebbe sembrare un luogo da sogno, da visitare assolutamente, poiché caratteristico e senza eguali. Le cose non stanno esattamente così (anche se, effettivamente, per essere caratteristico lo è), quindi prima di prepararvi per cercare in rete un albergo – che peraltro non esiste – e pensare a souvenir e calamite, mettetevi comodi e continuate a leggere.

 

La località in questione è considerata la più vicina allo spazio. Lì, terra e nuvole si fondono, l’atmosfera si assottiglia notevolmente, gli abitanti vivono con il 50% di ossigeno rispetto alla norma e la città è 300 metri più alta del Monte Bianco. Chi è nato in questo posto – oppure chi ha deciso di trasferirvisi – ha subìto delle vere e proprie modifiche a livello corporeo e produce il doppio delle cellule del sangue rispetto a chi abita in altri luoghi.

Questa città è nota come “la più pericolosa al mondo”, ha un aspetto triste e cupo, molto roccioso, poiché nemmeno gli alberi riescono a sopravvivere. Essendo così in disparte rispetto al resto del mondo, a farla da padroni sono la criminalità e ogni tipo di pericolo. La città in questione è La Rinconada, si trova sulle Ande peruviane, per la precisione nella regione di Puno. Vi si è avventurato uno youtuber turco, Ruhi Çenet, e ha fatto un piccolo reportage per mostrare, per sommi capi, qual è la vita in questo posto dimenticato.

Per quale motivo una persona dovrebbe pensare di andare a vivere, se non per uno smodato senso di autolesionismo, a La Rinconada? Il trasferimento viene azzardato da chi desidera andare in cerca dell’oro, oppure per fuggire alla legge. Sì, perché a La Rinconada vi sono delle miniere, gestite ovviamente da gruppi criminali, e la gente vi si reca spontaneamente pensando di poter fare fortuna. Quindi, a condurre le persone in questo terribile luogo è uno dei sette peccati capitali: l’avidità.

Più selvaggia del selvaggio West

La Rinconada si trova a sei ore di distanza da Puno e a due ore da Putina. In queste città si possono prendere dei combis (si tratta di minibus) per raggiungere la cima del mondo. Anche arrivare non è semplice, poiché con il passare dei chilometri le strade si fanno sempre più malandate e spesso, proprio percorrendo il tragitto, si è vittima di incidenti stradali. Sono infatti assenti le protezioni a bordo strada e i bus precipitano letteralmente giù dalla montagna.

 

Questo assurdo e maledetto ‘pellegrinaggio’ ha avuto inizio quasi 40 anni fa, quando gruppi criminali si sono spostati e hanno portato con sé dei minatori disperati e speranzosi di poter fare fortuna. Voler visitare La Rinconada può significare sparire nel nulla, non esiste infatti alcun registro in cui viene segnalata la vostra presenza quando siete lì. L’accostamento con la citazione di Dante – “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate” – è dunque quanto mai azzeccata. Il suo soprannome, in fondo, è “il paradiso del Diavolo”.

Se quanto appena narrato non dovesse bastarvi, se doveste avere la mala pensata di andare a visitare La Rinconada, forse attratti proprio da quest’aura misteriosa e disgraziata al tempo stesso, tenete presente che dovreste portare con voi una bombola di ossigeno per consentire al vostro corpo di abituarsi gradualmente al severo cambio di altitudine. 

In caso contrario, sarebbe molto rischioso raggiungere la vetta. Si andrebbe incontro al mal di montagna, con sintomi come emicrania, nausea, vertigini. Fondamentale, inoltre, è bere molto, poiché è importante mantenersi idratati. Ma non acqua del luogo (anche lì c’è la fregatura), quella è contaminata. Come antidoto, gli abitanti del posto propongono ai turisti le foglie di coca per poter rilassare il corpo e consentirgli di abituarsi alla differenza di altitudine e combattere quindi il mal di montagna. Un classico rimedio della nonna, insomma.

La Rinconada, “il paradiso del Diavolo”

La Rinconada è una sorta di vecchio West, la gente viene qui per un’unica ragione, come già detto, quella di trovare l’oro tramite le miniere. Del resto, in America Latina la caccia al prezioso metallo è sempre stata molto sentita, a partire dagli antichi Aztechi, passando per gli Inca, che per questo motivo schiavizzavano intere popolazioni: l’avidità che percorre i secoli. La montagna è controllata dalla Corporación Minera Ananea, che subaffitta il territorio a dei gruppi illegali.

 

Le persone vivono in baracche di metallo senza finestre. Le temperature non sono affatto miti, vista la sua altezza, infatti, fa piuttosto freddo. La notte si arriva anche a dei cali fino a -10 gradi, le estati durano poco, gli inverni anche, brevi e nevosi, ma si tratta di un luogo freddo e coperto per tutto l’anno. All’interno della miniera le temperature scendono anche a -20. Nonostante lo stile di vita sia proibitivo, la gente che vi abita ha dichiarato che chi sopravvive non è chi è dotato di un fisico resistente, ma colui che è più forte mentalmente, perché la pressione psicologica è molto più dannosa del resto, che è tutto dire.

Prodotti chimici mortali come il cianuro e il mercurio, che servono per lavorare l’oro, hanno avvelenato il suolo e l’acqua agricola. L’unica fonte di acqua potabile della città proviene dai laghi e questi sono contaminati a loro volta dal mercurio. I bambini giocano fino a tardi per le strade, hanno a disposizione sia la scuola primaria che secondaria. Per proseguire eventualmente il loro percorso di studi, poi, l’unica possibilità è trasferirsi altrove, oppure rimanere lì e lavorare nelle miniere.

A causa della corsa all’oro, al momento gli abitanti sono saliti a 50mila (numeri non ufficiali, non essendoci un censimento). Come se non bastasse, tutte queste persone depositano in mezzo alla strada i loro rifiuti creando un ambiente ulteriormente tossico, in quanto il governo non offre loro alcun servizio di smaltimento dell’immondizia. Per le vie della città sono presenti letteralmente delle montagne di pattume, una discarica a cielo aperto. Non va meglio per quanto riguarda le fogne, che sono a loro volta assenti, e le acque di scarico scorrono per le strade. Ovviamente la vita media è molto bassa: 35 anni di età. In realtà, ci si stupisce di come arrivino così lontano.

Chi vi rimane a vivere, muore a causa di malattie polmonari e infezioni respiratorie che col tempo corrodono il sistema nervoso, portando a deformazioni e a perdita di memoria, per poi far sopraggiungere paralisi e morte. E se non sei abbastanza fortunato da morire di “vecchiaia”, gli abitanti hanno dichiarato che ogni due settimane scompare qualcuno. Nel nulla.

Tra superstizione e criminalità

A troneggiare in cima alla città mineraria vi è la bella addormentata (Bella Durmiente), una montagna così chiamata perché, guardandola con attenzione, si può intuire il profilo di una donna che riposa. Per questo motivo nelle miniere non vi possono lavorare le donne, perché la leggenda dice che lei ne sarebbe gelosa e potrebbe arrabbiarsi tanto da provocare dei terremoti. La popolazione femminile quindi si arrangia cercando l’oro nelle rocce gettate fuori dalla miniera, sperando di raccogliere qualcosa tramite gli scarti.

 

Si possono notare queste piccole figure vagare intorno alle miniere nel tentativo di recuperare qualcosa in questo modo: con dei martelli spaccano le pietre e cercano di racimolare dei minerali utili. Si chiamano pallaqueras, che dal quechua significa pallay, “raccogliere da terra”.

Per rendere il tutto ancor più pittoresco, la superstizione la fa da padrona: non solo alle donne è proibito lavorare per quanto dichiarato poc’anzi, vi è anche il rischio di essere uccisi e sacrificati alla terra. Questo viene definito il “pago“, o meglio “pago a la tierra”. Si viene letteralmente seppelliti vivi dentro la miniera, una donazione alla montagna per poter trovare l’oro. Si tratta di un rituale Inca per soddisfare la Pachamama, Madre Natura, che deve essere nutrita.

I minatori non hanno naturalmente alcuna tutela e rischiano la vita molto di frequente. E quando uno di questi muore, la famiglia viene risarcita con 600 dollari. Incidenti come esplosioni e avvelenamenti da gas avvengono 25 volte più di frequente rispetto ai Paesi avanzati, ovviamente, sembra anche assurdo a questo punto specificarlo, non esiste alcun tipo di assicurazione e di pensione. Il loro sistema di lavoro peraltro è obsoleto, si chiama “Cachorreo” e consiste nell’avere un giorno a disposizione per cercare l’oro a fini personali, mentre il resto del mese lavorano gratis per l’azienda proprietaria del giacimento. Indubbiamente un affarone…

La Rinconada e i pericoli della notte

L’elettricità in città è disponibile solo in alcuni punti, nei luoghi dove non vi è luce non è consigliabile avventurarsi. Le discoteche e i bar notturni sono pericolosissimi, in città è molto diffuso il traffico di esseri umani e naturalmente la prostituzione minorile. Vengono sfruttate circa 2500 ragazzine, che si fanno pagare due dollari per soddisfare i minatori. Non è nemmeno presente una prigione, non avrebbe senso, la legge tradizionale non esiste.

 

Come unico luogo di cura vi è una clinica molto piccola, di sole due stanze. In modo del tutto inaspettato in questo luogo di perdizione vi sono molti campi da calcetto, incredibilmente ben tenuti fra l’altro. Questa è la loro unica distrazione sana e fa quasi sorridere pensare a come il calcio sia arrivato anche fin là sopra.

A La Rinconada è molto frequente subire furti, poiché la gente porta con sé l’oro. D’altronde non vi sono delle banche disponibili. In compenso, logicamente, è pieno di negozi ‘Compro Oro’. In particolare, sono pericolosi quei luoghi da loro definiti “cantinas”, dove si ritrovano per bere e se si è ubriachi si corre il serio rischio che qualcuno si approfitti della poca lucidità e che si venga quindi facilmente aggrediti.

Nelle zone più critiche, dove non vogliono che si avvicinino degli estranei, sono presenti i ronderos, delle guardie selezionate dallo stesso villaggio. Questa è la loro unica legge. Sono persone molto rispettate, hanno l’autorità di poter fare quello che vogliono: punirti, picchiarti e (perché no?) torturarti. Perfino uccidere se si fanno prendere la mano.

Naturalmente, se non sei di lì rischi ancora di più. Molti turisti inconsapevoli sono arrivati in zone vietate e non si è più saputo nulla di loro. La loro scomparsa viene coperta con le scuse più banali, come l’essere caduti in un dirupo o qualche aggressione animale. In realtà, la gente del posto sa che sono intervenuti i ronderos con la loro giustizia sommaria. In alcune zone dove sono presenti questi guardiani non entra nemmeno la polizia, che secondo quanto descritto esiste a scopo puramente decorativo e comunque, anche se volesse agire, sarebbe in netta minoranza rispetto ai criminali e avrebbe sicuramente la peggio.

La Rinconada non è solo un ambiente malsano, dove accade di tutto e dove qualsiasi tipo di nefandezza è la regola: rapine, stupri, torture, omicidi, violenza di ogni tipo e sacrifici umani. La ricerca spasmodica dell’oro ha anche portato a uccidere la stessa terra dove vivono, che cercano di omaggiare, paradossalmente, tramite i loro antichi rituali.

Un posto maledetto, senza pace e consolazione alcuna, dove domina incontrastata l’avidità che è in grado di portare solo morte e distruzione. Un circolo senza fine di brutti vizi che si rincorrono, nonostante tutti siano pienamente consapevoli di quello a cui vanno incontro, il luogo continua a vedere un riciclo continuo di presenze, il desiderio di ricchezza è più forte di qualunque altro. Forse, un giorno, la Bella Addormentata deciderà davvero di svegliarsi e di scuotersi di dosso tutto questo orrore.

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venerdì 26 aprile 2024

Alaji, la sua storia, dal mare al carcere - Federica Rossi


                                  (foto di Federica Rossi)

Alaji Diouf, arriva in Italia dal Senegal nell’ottobre 2015. Appena sbarcato viene arrestato e indicato da un testimone come il “capitano” che aveva guidato l’imbarcazione sulla rotta Mediterranea. Questo basta per farlo condannare a 7 anni di carcere. Una volta fuori però l’uomo non si arrende e insieme a Baobab Experience e l’avvocato Romeo sta tentando la strada della revisione del giudizio per dimostrare la sua innocenza. Una storia, la sua, come quella di tanti altri accusati di essere scafisti, con un tentativo, quello dell’annullamento della sentenza, che potrebbe cambiare la storia di questi processi.

“L’unica cosa che mi ha dato la forza di sopportare 7 ingiusti anni di carcere è stato pensare alla giustizia che avrei cercato una volta uscito, voglio far sentire la mia voce anche se mi prende tutto il resto della vita” dice Alaji Diouf, 34 anni di origine senegalese arrivato in Italia nell’Ottobre del 2015. Dopo l’accusa di scafismo aggravato che l’ha costretto in carcere, oggi tenta la revisione del giudizio insieme all’associazione Baobab Experience che lancia una campagna ad hoc “Capitani Coraggiosi”. Questo processo è già storico: nessuno prima in Italia aveva mai provato a contestare l’accusa di scafismo e il caso di Alaji riporta il dibattito sulla questione. “La campagna Capitani Coraggiosi nasce con un triplice intento: sensibilizzare, tentare la revisione della condanna di Alaji e far modificare l’Art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione che regola il traffico di esseri umani”, spiega Alice Basiglini, vice presidente di Baobab e responsabile dell’iniziativa.

Un falso soccorso 

Ma come arriva una persona innocente in carcere? Il percorso di Alaji parte dal Senegal, la sua terra natale. Da lì si sposta per arrivare in Europa, attraversando le zone desertiche del Mali e del Burkina Faso, “ma il viaggio in mare è stato ancora più duro. Sono rimasto in piedi tutto il tempo, non c’era spazio” spiega il giovane, che nella notte tra il 18 e 19 ottobre di nove anni fa arriva sulle coste italiane in un’imbarcazione con altre 120 persone. Il sovraffollamento infatti causerà la rottura degli assi di legno e la morte di otto persone per asfissia. Due unità della Marina Militare e una di Msf riescono a soccorrere un totale di 633 persone, tra cui Alaji. 

Una volta approdati, un uomo che non aveva viaggiato sullo stesso gommone di Alaji, né tantomeno lo conosceva, punta il dito verso di lui, pare su richiesta delle forze dell’ordine. Un gesto sufficiente per riconoscerlo come la persona che ha guidato l’imbarcazione, il cosiddetto scafista. Quel dito, tradotto a livello giuridico, costa ad Alaji l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (Art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione). Nel suo caso sarà aggravata sia per la morte delle persone, che per i “fini di profitto”. Quando viene chiamato, nello scambio di parole in italiano tra i presenti, Alaji non è consapevole e segue gli ufficiali “credevo mi portassero in bagno – ricorda – ho riconosciuto dei ragazzi che avevo incontrato in Libia e pensavo di stare nel posto giusto”. “Poi è arrivata una signora che parla francese, inglese e arabo. Dopo, anche un mediatore della lingua wolof, che comunque non è la mia”. L’idioma di Alaji infatti è il mandinga e le figure che gli parlano lo stanno interrogando. Del poco che riesce a comprendere in wolof risponde “no” quando gli viene chiesto se ha guidato il gommone. Ma il suo diritto alla difesa è comunque compromesso. “Se avessi parlato italiano non sarei finito in carcere”, commenta il giovane che oggi lavora come piastrellista per giardini.

I metodi d’identificazione dello “scafista”, indicati nel manuale di Operazione Sophia di Frontex del 2017, sono vaghi, come guardare se la persona è “eccessivamente educata e collaborativa, oppure se dimostra segnali di essere nervoso e scomodo”. Il metodo principale rimane attraverso l’uso di testimoni, come nel caso di Alaji. Un ex Capitano della Guardia Costiera racconta ad Arci Porco Rosso, circolo antirazzista attivo a Palermo, che la parola d’ordine in quei casi è “trovate un colpevole”. Alaji, nonostante abbia paura del mare, viene così condannato per scafismo con rito abbreviato (senza ascoltare altri testimoni). Nella sentenza lui e gli altri condannati saranno definiti dei “disgraziati”. “Questo passo è una singolare anomalia – dice Francesco Romeo, avvocato del giovane – sono stati condannati per aver agito a scopo di profitto e non si capisce come mai, essendo dei disgraziati, dei poveracci, dove c’è stato questo profitto”.

L’angolo buio della figura dello scafista

Alaji, come molte delle altre 3mila persone fermate negli ultimi otto anni, secondo i dati raccolti da Arci Porco Rosso nel report “Dal mare al carcere”, è stato riconosciuto come uno scafista, una figura che viene equiparata al trafficante di esseri umani. Gli esperti, come Basiglini, sottolineano la differenza tra le due: “Le persone che guidano l’imbarcazione non hanno nulla a che vedere con la criminalità organizzata. Sono persone che sono state costrette dalle stesse milizie, dagli stessi trafficanti a guidare sotto violenza, minaccia e ricatto, oppure che attraverso la disponibilità a guidare l’imbarcazione ottengono il viaggio gratis, se non possono permetterselo”. Una confusione che trova le sue radici nell’art 12 del TUI che la campagna Capitani Coraggiosi propone di modificare. Guardando l’articolo non si trova nessuna differenza tra i trafficanti e chiunque abbia favorito in modo indiretto l’arrivo di persone sul territorio nazionale. Un errore che porta l’Italia ad identificare uno scafista ogni trecento persone sbarcate secondo Arci Porco Rosso, ma anche ad accusare Baobab di traffico illecito per aver pagato il biglietto dell’autobus a 9 migranti arrivati in Italia. Effetti sproporzionati che portano molti a sostenere che il concetto stesso andrebbe ripensato. “Vogliamo modificarlo ma la modifica sarebbe così radicale che si può chiamare abrogazione” dice Basiglini. 

“Una figura polisemica”. Così Romeo definisce lo scafista: “Ha molti aspetti. Da un lato è un nemico pubblico perché nell’immaginario collettivo lo scafista sfrutta i passeggeri, allo stesso tempo è un capro espiatorio, perché è colui o coloro sui quali ricadono tutte le responsabilità”. Lo scafista diventa così il responsabile dell’intero viaggio delle persone che entrano nei confini italiani, un capro espiatorio “da cercare in tutto il globo terracqueo” secondo la Premier Meloni. 

In carcere

In questo malfunzionante sistema di identificazioni e accuse, Alaji è colpevole per la legge italiana. Glielo comunica Bakari, un altro ragazzo accusato che parla inglese e gli traduce la notizia. “Venire a conoscenza di questo è stato orribile. Non sapevo come difendermi, che strumenti usare per far capire a queste persone che sono innocente – ricorda Alaji – ho visto diventare realtà tutto ciò a cui non potevo credere”. Il giovane una volta in carcere prova a manifestare lo stato d’ingiustizia. “Mi sono levato tutti i vestiti nel cortile, volevo mettermi a nudo, per dirgli ‘se mi potete sparare, fatelo. Basta che non rimango qui’. Mi hanno calmato poi, non so neanche con cosa”. Non c’è via d’uscita dal carcere per il giovane per quasi 7 anni, di cui per i primi due non gli è permesso il contatto con nessuno all’esterno. “Un giorno volevo chiamarli per fargli sapere che ero vivo, mi hanno chiesto dei soldi, ero frustrato. Ho provato a togliermi la vita con dell’olio bollente”, una sorte da cui l’amico Bakari lo salva, e non sarà l’unica. L’amico, che parla inglese, lo aiuta anche a spiegare la situazione agli altri detenuti. Questi scrivono una lettera in italiano per aiutarlo a comunicare nei tribunali. Un diritto alla difesa che tenta di acquisire in ogni modo, ma che continua ad essergli negato. “Non prendevano la lettera neanche in considerazione, poi mi hanno proprio impedito di portarla con me”, ricorda.

Ribaltare la storia

Negli anni di carcere, la rabbia che si accumula in Alaji si trasforma in un ardente desiderio di giustizia, che ricerca fin da subito. “Quando esce dal carcere e si rivolge a noi non aveva solo un decreto di espulsione dal Paese, ma anche una grande cartella. In quegli anni infatti aveva raccolto tutti i documenti – racconta Basiglini – e quasi subito ci spiega di averli tenuti nella speranza di usarli per provare la verità”. Ora con l’aiuto di Baobab e l’avvocato Francesco Romeo tenta una revisione della sentenza alla Corte d’Appello di Potenza. “Dobbiamo fare un’indagine al contrario di quella che fa la polizia. Mettere insieme le condizioni meteorologiche di quei giorni, gli orari, le distanze, altri testimoni” spiega l’avvocato impegnato a ricostruire i fatti dalla scorsa estate. 

Baobab chiede così alla Questura e al Prefetto di Taranto un elenco delle persone sbarcate e dei rispettivi centri di accoglienza. La Prefettura di Taranto a luglio replica che la richiesta è «poco efficace» in luce degli otto anni trascorsi dall’evento. Dopo un ulteriore passaggio con il Garante per la Privacy e l’avvocatura Distrettuale di Lecce in merito alle corrette modalità di condivisione della lista richiesta dall’Ong, accade l’inaspettato: i documenti non esistono più. La Prefettura risponde che «a seguito di ripetute ricerche anche negli archivi di deposito di questa Prefettura, non sono stati rinvenuti gli atti relativi allo sbarco di migranti avvenuto a Taranto in data 20/10/2015». Tuttavia, non ci sono tracce di sparizione di quei documenti nella data dello sbarco. “Questo è un impedimento al diritto di difesa” sostiene Romeo. In ogni modo, le ricerche continuano. “Dopo il lancio della campagna qualcuno che ha fatto quel viaggio si è messo in contatto con noi e adesso stiamo cercando di tirare questo filo per vedere dove ci porta” aggiunge. 

Una revisione favorevole comporterebbe l’annullamento della sentenza di condanna e quindi la proclamazione di innocenza e il risarcimento del danno subito. Ma soprattutto“sarebbe un precedente importante per sensibilizzare sulla figura dello scafista, e mostrare come questa sia costruita a tavolino” dice Romeo.

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giovedì 25 aprile 2024

Ecco come proteggere la salute dalle microplastiche

 

Non passa giorno senza che venga pubblicato uno studio scientifico sui danni che le microplastiche provocano a diversi organi e tessuti, oltre che all’ambiente

“In un’epoca in cui la coscienza ambientale e i temi di One Health sono al centro del dibattito globale quello delle microplastiche resta un problema ancora largamente sottovalutato e misconosciuto, anche se profondamente impattante – Queste minuscole particelle di plastica (le microplastiche hanno un diametro inferiore a 5 mm e le nanoplastiche inferiore a 1 micron), in genere invisibili a occhio nudo, hanno invaso ogni angolo del nostro pianeta, comprese le acque di fiumi e oceani e rappresentano una minaccia significativa per la salute dell’uomo, degli animali e di tutto l’ambiente. È dunque urgente mettere in campo azioni di consapevolezza e prevenzione”. Le microplastiche sono particolarmente insidiose anche per la loro capacità di accumulare sostanze tossiche come pesticidi, metalli pesanti e altri inquinanti. Queste tossine inquinano l’ambiente e trovano la loro strada nella catena alimentare, venendo in questo modo a rappresentare una minaccia diretta per la salute. Studi recenti hanno confermato l’allarmante grado di contaminazione da microplastiche del cibo e dell’acqua che consumiamo ogni giorno. L’ingestione di microplastiche provoca danni a tutti gli organi e apparati, determinando disturbi gastrointestinali e del microbiota, problemi riproduttivi, effetti cancerogeni, problemi neurologici (è dimostrato che compromettono l’integrità della barriera emato-encefalica) e cardio-vascolari. Microplastiche sono state isolate persino nei vasi, all’interno delle placche di aterosclerosi e possono aumentare il rischio di infarti e di ictus. Presenti anche nell’aria che respiriamo, possono essere inalate e arrivare profondamente nei polmoni, causando problemi respiratori e aggravando condizioni come asma e bronchite. Dovremmo cercare di adottare una serie di azioni individuali volte a limitare l’esposizione alle microplastiche, anche se è chiaro che servirebbero iniziative politiche di ampio respiro, coordinate a livello internazionale. Le azioni auspicate dalla comunità scientifica internazionale vanno da regolamentazioni rigorose per limitare la produzione e l’uso di plastica monouso, a investimenti in tecnologie avanzate di filtrazione per rimuovere le microplastiche dalle acque reflue, alla promozione di pratiche sostenibili di gestione dei rifiuti. “La consapevolezza del pubblico e l’educazione giocano un ruolo cruciale nel combattere l’inquinamento da microplastica. Migliorando la cultura di tutela ambientale e la consapevolezza dei rischi, si possono prendere decisioni informate mirate a ridurre il contributo delle singole persone all’inquinamento da plastica, adottando una serie di azioni volte a mitigare l’impatto delle microplastiche sulla loro stessa salute. Mancare l’appuntamento con azioni di prevenzione e mitigazione del rischio afferma il professor Sesti – potrebbe avere conseguenze terribili per le generazioni presenti e per quelle future”. 

un decalogo UN Le raccomandazioniLe raccomandazioni della SIMI per proteggerci dalle microplastiche

Ecco dieci azioni pratiche, proposte dagli esperti della Società Italiana di Medicina Interna, che tutti possono adottare per proteggere sé stessi e l’ambiente dalle microplastiche, facendo guadagnare in salute chi vive oggi e le generazioni future.

1.       

o    Riduci il consumo di plastica monouso e optare per alternative riutilizzabili come bottiglie/borracce termiche in acciaio inossidabile, contenitori di vetro, borse della spesa (shopping) in tessuto.

o    Scegliere per l’abbigliamento le fibre naturali. Nella scelta dei vestiti e dei tessuti, preferire sempre quelli in fibre naturali come cotone, lana, viscosa e canapa, rispetto a materiali sintetici come poliestere, poliammide, polipropilene e nylon (molto diffusi soprattutto nella fast fashion perché economici), che rilasciano microplastiche durante la produzione e il lavaggio.

o    Installa filtri contro le microplastiche nelle lavatrici per catturare le microplastiche rilasciate dai tessuti durante i cicli di lavaggio, impedendo loro di entrare nel sistema idrico; così si rispetta di più l’ambiente ad ogni lavaggio.

o    Evita prodotti cosmetici contenenti microplastiche. I microgranuli in polietilene (presenti in esfolianti, dentifrici, creme da barba e scrub a risciacquo) sono vietati dal 2020, ma i cosmetici possono contenere altri polimeri insolubili. Controlla dunque sempre l’elenco degli ingredienti in etichetta per assicurarti che non contengano PE (polietilene), PMMA (polimetil metacrilato), PET (polietilene tereftalato) e PP (polipropilene).

o    Consuma acqua filtrata. Investi in un sistema di filtrazione dell’acqua di alta qualità per rimuovere le microplastiche e altri contaminanti dall’acqua di rubinetto, o scegli acqua minerale e bibite in bottiglia di vetro. Evita invece quelle in bottiglie di plastica.

o    Previeni la contaminazione dei cibi con la plastica. Riduci al minimo l’acquisto di cibi confezionati in imballaggi e contenitori di plastica, optando per alternative in vetro, acciaio inossidabile, silicone o sacchetti di carta per ridurre il rischio di ingerire microplastiche. Anche in frigorifero, ridurre o eliminare l’uso di contenitori di plastica e pellicole.

o    Mangia alimenti freschi e integrali. Scegli alimenti freschi e integrali anzichè prodotti processati e confezionati; questi ultimi, oltre ad esser meno salutari, potrebbero contenere livelli più alti di contaminazione da microplastica (per imballaggi di plastica e modalità di lavorazione).

o    Sostieni pratiche di pesca sostenibili. Acquistando prodotti ittici provenienti da fonti sostenibili, riducendo la probabilità di consumare pesce e frutti di mare contaminati da microplastiche.

o    Smaltisci correttamente i rifiuti. Pratica lo smaltimento responsabile dei rifiuti, separando la plastica quando possibile e gettandola nei bidoni designati; è un altro modo per evitare che la plastica inquini l’ambiente e contamini cibo e acqua.

o    Sii ‘ambasciatore’ del cambiamento, dando il buon esempio e sensibilizzando familiari, amici e colleghi di lavoro sugli effetti dannosi delle microplastiche per la salute dell’uomo e dell’ambiente.

Ecco come le microplastiche danneggiano la nostra salute

L’inquinamento da plastica è una delle sfide ambientali e sanitarie più urgenti e impattanti del nostro tempo. La presenza pervasiva della plastica minaccia l’integrità dei nostri ecosistemi e la salute delle generazioni attuali e future. L’impatto delle microplastiche sulla salute umana è molteplice e richiede immediata attenzione. Queste sono alcune delle principali conseguenze per la salute, associate alle microplastiche, a seconda della via di penetrazione nell’organismo.

1.       

o    Ingestione: le microplastiche possono essere ingerite attraverso cibi e fonti d’acqua contaminate. Una volta ingerite si possono accumulare nel tratto gastrointestinale, dove e causare irritazione, infiammazione e disturbi gastrointestinali.

o    Disfunzione del microbiota intestinale: le microplastiche ingerite, giunte nel tratto gastrointestinale possono alterare l’equilibrio del microbiota intestinale, essenziale per mantenere la salute digestiva e del sistema immunitario, contribuendo a causare malattie infiammatorie intestinali, obesità e disturbi metabolici.

o    Effetti sull’apparato respiratorio: le microplastiche in sospensione nell’aria, possono essere inalate e causare dunque irritazione delle vie respiratorie e infiammazione, portando ad un peggioramento di condizioni come l’asma e la bronchite. L’esposizione cronica alle microplastiche nell’aria può anche compromettere la funzionalità respiratoria e aumentare la suscettibilità alle infezioni.

o    Assorbimento di sostanze chimiche tossiche: le microplastiche possono assorbire e concentrare sostanze chimiche tossiche come pesticidi, metalli pesanti e inquinanti organici persistenti (POP) presenti nell’ambiente. Queste tossine assorbite con le microplastiche una volta ingerite possono comportare un rischio di tossicità sistemica e provocare effetti a lungo termine sulla salute.

o    Effetti sul sistema immunitario: l’esposizione alle microplastiche e alle sostanze chimiche tossiche associate può compromettere la funzione del sistema immunitario, portando ad una maggior suscettibilità alle infezioni, alle allergie e alle malattie autoimmuni.

o    Effetti neurologici: recenti ricerche suggeriscono che le microplastiche possano attraversare la barriera emato-encefalica e andare ad accumularsi nei tessuti cerebrali, dove potrebbero causare effetti neurotossici. L’esposizione prolungata alle sostanze neurotossiche rilasciate dalle microplastiche potrebbe dunque contribuire allo sviluppo di patologie neuro-degenerative quali la malattia di Alzheimer e di Parkinson e contribuire al decadimento cognitivo.

o    Effetti sull’apparato cardiovascolare: un recente studio pubblicato su The New England Journal of Medicine, a firma di ricercatori italiani, ha dimostrato la presenza di microplastiche e nanoplastiche all’interno delle placche aterosclerotiche di alcuni pazienti. I soggetti con queste caratteristiche presentavano un rischio maggiorato del 450% di incorrere in un infarto, ictus o mortalità per tutte le cause, nell’arco dei successivi 2-3 anni, rispetto alle persone che non presentano microplastiche nelle placche.

o    Interferenza endocrina (endocrine disruption): alcune sostanze chimiche presenti nelle microplastiche, come ftalati e bisfenolo A (BPA), sono degli interferenti endocrini, possono cioè interferire con i sistemi ormonali nel corpo. L’esposizione prolungata a queste sostanze può contribuire a problemi dell’apparato riproduttivo, disturbi dello sviluppo e squilibri ormonali.

o    Genotossicità: le microplastiche in esperimenti di laboratorio hanno prodotto effetti genotossici, cioè danni al DNA e mutazioni. La genotossicità può aumentare il rischio di cancro e comportare altre gravi conseguenze per la salute.

https://smips.org/2024/04/22/ecco-come-proteggere-la-salute-dalle-microplastiche/

mercoledì 24 aprile 2024

Ti ammali ? Vieni demansionato o messo a zero ore senza stipendio - Federico Giusti


Il personale dichiarato inidoneo alla funzione per motivi di salute non dorme sonni tranquilli, la inidoneità può arrivare come un fulmine a ciel sereno e distruggere ogni certezza nella nostra vita.

Oggi i diritti degli inidonei sono ridotti a carta straccia, nel settore autoferrotranviario un tempo venivano collocati in altre mansioni oggi invece rischiano di trovarsi a casa senza stipendio.

Manca in tante aziende private la possibilità di percorsi formativi per ricollocare l’inidoneo ad altre mansioni e una recente Sentenza della Corte di Cassazione consente al datore di lavoro pubblico di inquadrare il lavoratore  in mansioni inferiori specie se lo stesso non ha presentato alcuna istanza per essere adibito ad altre mansioni previste dalla normativa contrattuale. Ma questa istanza può anche non essere avanzata specie se la inidoneità arriva in un momento di crisi aziendale o se interi settori sono stati nel frattempo oggetto di esternalizzazioni.

I contratti nazionali offrono ormai scarse tutele, se nel corso della visita periodica aziendale vengono riscontrate problematiche di salute incompatibili con la mansione svolta non esiste alcun automatismo che preveda la salvaguardia dei diritti pur con mansioni diverse specie se l’azienda è piccola e non sa ove ricollocare l’inidoneo.

Dopo la visita medica arriva il documento di idoneità alla mansione, in caso contrario inizia un autentico calvario per evitare il quale si va al lavoro cercando di occultare anche uno stato di salute precario. In teoria ogni lavoratore è obbligato a rilasciare dichiarazioni non fallaci sul suo stato di salute ma davanti al rischio di essere licenziati quanti di noi sarebbero disposti a dire la verità fino in fondo?

Molte volte la patologie riscontrate sono anche conseguenza di ritmi insostenibili, si contraggono patologie proprio per la tipologia del lavoro, per lo stress psico fisico a cui veniamo sottoposti. La Sentenza di Cassazione esclude il licenziamento del dipendente per inidoneità fisica o psichica prima di aver cercato di ricollocarlo ad altra mansione, ma se queste mansioni alternative non esistono in azienda cosa succederà?

Si potrà in teoria essere adibiti a mansioni diverse, mansioni compatibili con la stessa qualifica, ma ormai è acclarato che per conservare il posto di lavoro si subisce il ricatto dell’inquadramento in qualifiche inferiori che ormai è nelle potestà datoriali. E se nel pubblico è possibile che esista anche una carenza di posti e di mansioni alle quali adibire l’inidoneo, immaginiamoci cosa potrà accadere nel privato o negli appalti, nelle cooperative e in piccole aziende.

Il diritto del lavoro è ormai diritto del più forte a solo vantaggio della parte datoriale, la salvaguardia della salute e degli stessi diritti diventano un optional.

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