“Una notte di molti, molti anni fa, ero di guardia notturna nel mio
ospedale. Mi avvisarono alle 22 dell’arrivo di un traumatizzato stradale:
condizioni disperate, dissero, stai pronto. Io sono nato pronto, risposi con la
mia deprecabile grinta giovanile.
Partii dall’ecografia nella sala trauma. Poi lo portarono in Tac. C’erano
tutti: anestesisti, ortopedici, chirurghi generali, chirurghi vascolari,
otorini. L’uomo era sfasciato dappertutto, ma proprio dappertutto. Mentre sul
monitor scorrevano le immagini della TC stavano tutti dietro di me, zitti, ad
ascoltare la litania di accidenti che poi, di lì a poco, avrei trascritto nel
mio referto. Ma a quel punto il referto sarebbe stato inutile: avevamo già
fatto il punto della situazione, ci eravamo parlati. Ognuno di noi adesso
sapeva cosa fare. Eravamo una squadra, un gruppo di persone che si fidavano gli
uni degli altri, ciecamente. Quell’uomo era nelle migliori mani possibili, ve
lo giuro su quello che ho di più caro al mondo.
Il Paziente andò in sala. Gli passarono sopra tutti, a turno: chirurghi,
ortopedici, otorini. Gli anestesisti in seconda fila, a tenerlo vivo. Intorno
alle cinque della mattina il lavoro grosso era stato fatto. Mi chiamarono per
dare un’ultima occhiata in ecografia: in sala operatoria c’era sangue ovunque,
sembrava ci fosse appena transitata Beatrix Kiddo di Kill Bill. L’uomo, l’omone
anzi, perché era grosso come un armadio a tre ante, era disteso ancora sul
letto operatorio. Sembrava che dormisse.
La mattina, alle otto, il momento dello smonto, telefonai in terapia
intensiva. Mi rispose la collega della notte, con la voce stravolta dalla
stanchezza. Disse: È vivo, è stabile, abbiamo fatto un buon lavoro. Tornai a
casa carico di adrenalina: i bambini erano all’asilo, mia moglie al lavoro,
avevo tutta la mattina per me. Non riuscii a prendere sonno: tutta
quell’adrenalina accumulata mi girava ancora in corpo, vorticosamente.
Quell’uomo era vivo grazie all’equipe di medici che avevano passato la notte in
bianco per lui. È poco, dite? Può essere. Ma se quell’uomo fosse stato vostro
marito, vostro figlio, vostro padre, allora sì che avrebbe fatto la differenza.
Tutta la differenza di questo mondo.
Da quella notte sono passati vent’anni ed è cambiato quasi tutto nel modo
di intendere la vita ospedaliera. I medici sono diventati carne da macello. La
sanità si è trasformata in un’azienda che deve fabbricare utili, dividendi e
consenso elettorale. Però, siccome costa troppo, deve anche tramutarsi in
qualche altra cosa, lasciare spazi, cedere terreno. Mutare natura. Ma in
silenzio, senza fare troppo rumore.
E di quel gruppo di medici cosa è rimasto? Qualcuno è andato in pensione,
qualcun altro è rimasto dov’era, a svolgere il suo ottimo lavoro, qualcun altro
ancora ha avuto il privilegio di trovarsi a dirigere un reparto tutto suo nella
pia illusione di costruire qualcosa di buono. Nel mentre, dicevo, è cambiato
quasi tutto. La politica ha preso il sopravvento e tirato i cordoni della
borsa. Ai nuovi medici, giunti via via a sostituire i vecchi, non piace passare
le notti in bianco nel pronto soccorso o nelle sale operatorie. Meglio un
lavoro impiegatizio. Meglio un lavoro da casa, se possibile. Meno
responsabilità, meno rotture di scatole, più soldi in tasca. Chi è rimasto
delega: meglio una Tac in più, anche se non necessaria, che una in meno.
Pazienza se tra vent’anni quella Tac causerà un tumore da qualche parte. La
medicina ha smesso di essere un’arte, insomma, e le manca ancora troppo per
diventare una scienza esatta. Meglio non rischiare. Meglio farsi i fatti
propri.
Così, adesso io mi ritrovo in piena notte con un’urgenza addominale, e
spesso sono da solo. Io, il tecnico e la Tac, nel silenzio più attonito che si
possa immaginare. E non dovrei nemmeno essere lì, in quel momento, perché non è
più il mio ruolo, quello. Così, mentre attendo le immagini sul monitor, mi
domando perché quasi tutto è cambiato, perché certa politica ha fatto fuggire i
medici dagli ospedali, cosa ha fatto perdere loro la passione, l’entusiasmo
divorante, il ricordo dei validi motivi per cui, molti anni prima, hanno scelto
quella professione e non un’altra. Cosa li spinge a essere indifferenti verso i
Pazienti, verso colleghi che in loro assenza dovranno svolgere il lavoro che
per qualche futile motivo non hanno voluto portare a termine. Cosa spinga loro,
ma alla fine spinga tutti, in senso generale, senza distinzione di sesso, età,
censo, lavoro, a credere di essere in perenne credito col mondo. Di essere
dalla parte della ragione, sempre e comunque.
Ve lo dico subito: non trovo la risposta, e a questo punto credo che non la
troverò mai. La risposta forse verrà fuori quando vi recherete in ospedale e
troverete solo medici pagati a cottimo, gente che quella notte è lì e la
prossima chissà dove, a quante centinaia di chilometri di distanza. Quando non
esisterà più un gruppo, un’equipe affiatata pronta a passare la notte in bianco
per salvare una vita, una sola: quella di vostro marito, vostro padre, o vostro
figlio. Oppure la risposta andrete a chiederla a certa politica: la quale
risponderà che non è sua responsabilità, e che gli errori di programmazione, il
numero chiuso a medicina, l’imbuto di ingresso nelle specialità, sono colpa di
quelli di prima. Di quelli che hanno governato, male, prima.
Ma quelli di prima eravamo anche noi: il radiologo, l’anestesista, il
chirurgo, l’ortopedico, il maxillo-facciale. Quella fantastica squadra di bravi
medici, ognuno dei quali si fidava ciecamente dell’altro. Ci rimpiangerete,
certo. Come ci rimpiangiamo già noi stessi, ogni giorno, ogni santo giorno di
lavoro, finché durerà ancora.”
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