La libertà non sta nello scegliere tra
bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta - Theodor W. Adorno
Nel dibattito sulla carne coltivata sembrano esserci solo due possibili
risposte: favorevoli o contrari. Ogni narrazione alternativa, come quella
proposta da Adriano Fragano in questo articolo viene presa come atto di lesa
maestà, accompagnato dal ricatto morale: non ci pensi a tutte le vite che
potresti salvare?
Eppure trattandosi di un’innovazione importante il discorso merita di essere
approfondito sotto tantissimi aspetti, in particolare quello antispecista
perché in quanto persone umane attiviste per la liberazione animale dovremmo
innanzitutto avere non solo sempre presente l’obiettivo che ci prefiggiamo, ma
anche essere in grado analizzare ogni campagna, progetto o invenzione alla luce
di quest’ultimo.
In questo articolo vorrei provare a fare un discorso ampio in cui la carne
coltivata non è tanto l’oggetto principale, semmai il pretesto.
L’antispecismo (analogamente all’anarchismo), non è una teoria finalizzata a
riformare l’esistente – la nostra società, la politica, l’economia, il sistema
culturale, simbolico e materiale, entro cui viviamo e di cui assorbiamo e
interiorizziamo schemi di pensiero, di valori e morale –, ma a cambiarlo radicalmente.
Uno dei capisaldi del nostro attuale sistema è il dominio: sulla Natura in
senso ampio, ossia i territori, le foreste, i fiumi, i mari, le montagne, ecc.,
le mappe geopolitiche (che vengono ridefinite continuamente in base a interessi
economici o di controllo delle risorse) e su tutti i viventi del pianeta, in
particolare le minoranze, i più fragili e soprattutto sugli altri Animali. Per
giustificare questo dominio la nostra specie nel corso dei secoli ha elaborato
ideologie diverse usando di volta in volta le narrazioni più efficaci in base
al contesto: razzismo, specismo, sessismo, motivazioni economiche, equilibri
politici, per citarne alcune.
Lo specismo, che è quello che ci interessa in questa trattazione, è appunto
un’ideologia finalizzata a giustificare, normalizzare e naturalizzare il
trattamento di assoluto dominio che riserviamo agli Animali di altre specie; la
loro esclusione morale da cui ne consegue la definizione di un sistema di
valori del vivente, gerarchico e autoreferenziale, o meglio, autoriferito.
Dentro questo sistema specista prendono vita alcune vie di fuga che risultano
però illusorie. E lo sono, non tanto perché non vanno dritte al punto, ma
perché da questo punto ideale, che nel nostro caso è la liberazione animale
(materiale e simbolica) deviano in maniera pericolosa; il problema infatti,
metaforicamente parlando, non è il passo intermedio o la deviazione in sé, ma
il tipo di deviazione o di strategia attuate.
Immaginare una società antispecista significa immaginare una società come
finora non è mai stata realizzata ed è in tal senso che, seppur tra mille
difficoltà, impedimenti, ostacoli – anche proprio nella definizione di un
orizzonte ideale – dovremmo muoverci. L’antispecismo, l’abbiamo sempre detto, è
una teoria e una prassi in costruzione, non una soluzione immediata che si può
pensare di raggiungere con qualche innovazione tecnologica, ma lasciando
intatto il concetto di dominio; sarebbe come pensare che l’invenzione della
lavatrice e della lavastoviglie abbiano potuto liberare le donne dal
patriarcato. Indubbiamente sono state invenzioni utili che hanno di parecchio
migliorato e alleggerito il lavoro delle donne, ma non sono servite a
scardinare i ruoli di genere associati ai sessi che tutt’oggi perdurano
(secondo i quali sono le donne a dover lavare i panni e i piatti), tanto meno
la violenza di cui le donne sono ancora vittime. Allo stesso modo non può
bastare un’innovazione come la carne coltivata a scardinare il ruolo entro cui
da sempre releghiamo gli altri Animali.
Ciò che facciamo, compreso ciò che mangiamo e le nostre scelte in generale,
definiscono anche il nostro cervello, nel senso proprio di modificazione
materiale, in quanto il cervello è un organo plastico. Gli atti, ciò che
apprendiamo per imitazione, plasmano il pensiero. Ed è per questo che si
continua a restare affezionati al mito della carne, anche se
sappiamo bene che non abbiamo bisogno di mangiare Animali per stare in salute.
Mangiare carne di Animali significa mangiare corpi di Animali, quindi considerarli
alla stregua di prodotto, non di soggetti senzienti paritari, e questo a
prescindere da come tale carne sia ottenuta.
Le persone umane speciste chiedono la carne e noi gli diamo la carne, anziché
proporgli alternative.
Possiamo davvero parlare di innovazione?
Ancora: l’antispecismo non contempla semplicemente la fine della sofferenza
degli Animali, ma la fine del nostro dominio sugli Animali e in generale
l’affrancamento dal concetto di dominio stesso, compreso quello intraspecie. In
questo senso l’antispecismo implica una ridefinizione anche dell’Umano e di
quella rete di significati e significanti che chiamiamo lingua, atti, politica,
etica, morale, quindi cultura in senso ampio, intesa come tutto ciò che la
nostra specie produce, sia di materiale, che di intellettuale; senza questa
rete di significanti e significati non esisterebbe la ben nota opposizione tra
umanità ed animalità ed è proprio dal tentativo di conciliare e sanare questa
cesura che l’antispecismo dovrebbe partire. Ridefinire questo universo entro
cui ci muoviamo e agiamo è un compito arduo ed è compito dell’antispecismo
perché la liberazione animale non può che esigere un cambiamento radicale di
pensiero e di atti. Gli Animal Studies oggi sono materia di
ricerca, approfondimento e studio, non solo passatempo di gente annoiata che
ama gli Animali.
Se questo dominio da cui dobbiamo affrancarci sia solo socio-culturale o anche
biologico è ancora da appurare. Sono fermamente convinta che tutto ciò che
l’Animale umano pensi possa prima o poi essere realizzato, per il solo fatto
che l’abbia pensato. Finora la Storia ci ha dimostrato che tutti i sogni
tecnologici dei decenni passati sono o stanno per essere realizzati, purtroppo
non in maniera orizzontale e includente per tutti i viventi. La tecnologia
infatti ha migliorato le sorti di una percentuale minima di popolazione umana
(anzi, il gap tra soggetti ricchi e poveri negli ultimi
decenni sta aumentando) e di certo ha peggiorato quella degli Animali.
Allevamenti intensivi, mattatoi automatizzati gestiti da robot (se ne parla
ormai da un po’), allevamenti-grattacielo, Animali modificati geneticamente
così da avere carni più magre o ridurre l’impatto ecologico delle loro
deiezioni, tanto per fare qualche esempio. L’ultima trovata ingegneristica è la
carne coltivata.
Premetto subito che nei confronti della carne coltivata mantengo comunque
un atteggiamento non del tutto negativo (anche se come idea in
sé la trovo abbastanza aberrante), anzi, ne vedo almeno un utilizzo positivo
(che dirò tra poco), ma assolutamente non la considero un passo avanti nella
realizzazione di una società antispecista, né argomento che dovrebbe essere
incluso negli Animal studies o nell’attivismo, dal momento che
non mette in discussione il concetto del nostro dominio sugli altri Animali, né
l’opposizione umanità vs animalità, né ci dice nulla di nuovo
sugli Animali (che continuano a essere considerati risorse rinnovabili).
La carne coltivata, esattamente come il neowelfarismo, rientra
infatti nel campo delle riforme del reale all’interno di un paradigma di
pensiero ancora specista, in cui il nostro rapporto con gli Animali non solo
non viene minimamente intaccato (figuriamoci radicalmente), ma addirittura ne
riconferma l’impronta al dominio.
La premessa errata di chi obietta dicendo che intanto risparmieremmo molte vite
animali, a parte il ricatto morale, è che ci si continua a muovere nel campo
del reale così com’è, abbandonando ogni proposito di cambiamento radicale. Il
fine di chi per motivi etici appoggia la carne coltivata infatti non è
evidentemente l’antispecismo, né il cambiamento del nostro rapporto con gli
Animali, bensì il riduzionismo, ossia la riduzione della sofferenza e del
numero degli Animali ammazzati. Provvedimento questo assai analogo a quello
delle riforme sul benessere animale, che difatti mirano a ridurre
un poco la sofferenza degli Animali allevati e a migliorare le pratiche di
uccisione; analogo anche alle campagna, sempre riduzioniste, questa volta del
consumo di carne, che fanno uso degli argomenti indiretti e che invitano a
ridurre il consumo di carne perché è cancerogena, è causa di malattie
cardiovascolari, o perché gli allevamenti inquinano, o ancora perché (come in
una abbastanza recente campagna della LAV uscita durante la pandemia da
Covid-19), gli allevamenti possono portare al verificarsi di zoonosi.
Il concetto di lotta all’ingiustizia nell’obiettivo del riduzionismo è
totalmente espunto. Come se un’ingiustizia dovesse sparire nella misura in cui
ne diminuiscono i soggetti oppressi. Quindi per un mero motivo di calcolo,
quantitativo. Da notare che nessuna lotta contro altre ingiustizie propone una
riduzione della violenza, bensì la sua abolizione. Nessuno direbbe mai che
dovremmo ridurre la violenza sulle donne o i crimini omofobici. Che poi di
fatto non sarà mai possibile abolire in toto la violenza umana, non
significa che non dovremmo combattere quella che ha motivazioni ideologiche
specifiche (patriarcato, eteronormatività, specismo, razzismo, ecc.).
La carne coltivata ridurrà l’uccisione di un gran numero di Animali? Sì. Ma
ridurrà ciò che è alla base del nostro dominio sugli Animali? No. L’ingiustizia
dell’uccisione del numero restante, anche se piccolo, e di quelli allevati e
trattati come mero magazzino di materia organica su cui fare biopsie sparirà?
No. Come non spariscono le ingiustizie delle minoranze etniche o delle comunità
in cui le donne sono totalmente sottomesse, anche se nel resto del mondo stiamo
messe meglio di decenni fa (almeno sulla carta).
Non si può inoltre fare a meno di notare l’incongruenza di chi lamenta l’orrore
della realtà così com’è, della società in cui si vive, salvo poi appellarsi a
questo reale ogni qual volta sembra troppo faticoso, anche solo mentalmente,
provare a cambiarlo. Se il reale non ci piace, dovremmo provare a cambiarlo.
Siamo diventati antispecisti proprio perché non ci piaceva la realtà dello
sfruttamento animale ora vorremmo fare spallucce affermando che il
reale è quello che è, la gente vuole mangiare carne? La carne coltivata
anche se ne riduce la sofferenza e il numero degli individui uccisi, non va
evidentemente nella direzione della liberazione animale.
L’obiezione che viene mossa più di frequente a chi si sforza di immaginare
soluzioni che possano realmente andare in direzione della costruzione di un
mondo nuovo (non quello distopico immaginato da Aldous Huxley ne Il
Mondo Nuovo, ma uno antispecista, anarchico, non gerarchico, dove tutti i
viventi hanno pari accesso alle risorse e cooperano per una felicità condivisa)
è che si tratterebbe di utopia perché “Il mondo è quello che è e non diventerà
mai vegano”. Questa frase mi è stata detta, negli anni e in ordine sparso, da
attiviste a attivisti di Greenpeace che fanno propaganda di pesca sostenibile mentre
vogliono salvare le Balene, da allevatori a favore del benessere
animale, quindi con ovvi interessi economici, da persone umane ovviamente
speciste che tarano la loro morale non sull’idea di giusto e sbagliato (inteso
nell’accezione laica di beneficio o danno a qualcuno), ma su ciò che viene
considerato normale dalla maggioranza, da persone umane che, come diceva
Adorno, non hanno capito che la libertà, a volte, non è scegliere tra due
posizioni offerte dal sistema (conservativo e conservatore), ma saper
immaginare una via di fuga totalmente estranea all’agire corrente.
Partire dalla premessa che il mondo è quello che è e non cambierà mai significa
non provare nemmeno a cambiarlo, significa tirare i remi in barca e al massimo
muovere la manina per far oscillare appena la barchetta su cui ci troviamo,
senza spostarci di un millimetro verso l’orizzonte di una terra diversa, nuova,
ancora da scoprire e dove, chissà, davvero potrebbe essere possibile un vivere
più armonioso tra tutti i viventi; allora l’unica scelta sensata potrebbe
essere proprio quella di scendere da quella barchetta e imparare a nuotare.
Senz’altro più faticosa, ma l’antispecismo e l’attivismo non sono un hobby per
passare il tempo.
Ci si aggrappa a tutte quelle riforme illusorie come l’abolizione delle gabbie
(End the Cage Age, sottoscritta da allevatori e associazioni animaliste
insieme), la riduzione del consumo di carne (flexitarismo, che è un modo
diverso per dire onnivorismo, ossia mangiare anche corpi di Animali) promossa
sempre anche da associazioni animaliste, battaglie giuridiche per decidere se
uccidere un’Orsa sottratta ai suoi boschi e ai suoi figli o spostarla in
un’altra prigione, solo un po’ più grande; e ora la carne coltivata.
Partire dall’assunto che il mondo non diventerà mai vegano (tradotto: non si
smetterà mai di mangiare Animali) significa sostenere e rafforzare proprio il
consumo dei corpi Animali; significa propinare agli interlocutori di una
società malata lo stesso veleno che l’ha fatta ammalare, solo ottenuto in modo
diverso. Quel veleno è il dominio, corredato o meno da violenza fisica (e se
non fisica, psicologica).
“Il mondo non cambierà mai” è l’aforisma dei poveri di immaginazione.
L’antispecismo invece è una teoria seria, rivoluzionaria, una teoria che si
sposa per passione, per volontà, per desiderio di giustizia; non un termine da
tradire continuamente nella pratica e nei pensieri.
Per quanto detto sopra, a mio avviso la carne coltivata non è argomento di
cui si dovrebbe occupare l’antispecismo, nel senso della sua promozione e
divulgazione, esattamente come le associazioni animaliste non dovrebbero
aderire a riforme sul benessere animale: non dovrebbero spendere
denaro ed energie in campagne che da una parte dichiarano di voler migliorare
le sorti degli Animali, dall’altra non ne rinnovano nemmeno lo status apparente,
figuriamoci quello ontologico, continuando persino a chiamarli “carne”,
“prodotti alimentari”, solo più salubri dal punto di vista della salute umana.
Ci pensa già il sistema a proporre e portare avanti – e con mezzi e risorse
economiche ben più ingenti delle nostre –, a diffondere e promuovere queste
campagne o innovazioni tecnologiche, nate in seno di una società specista.
La carne coltivata è carne del corpo di individui senzienti che continueranno a
essere visti, pensati, immaginati, usati e mangiati in quanto cibo. La
differenza è certamente nel modo di far arrivare sul piatto questa carne e
certamente non è una differenza da poco, eppure poco cambia in un’ottica
antispecista perché non contempla nessun cambiamento, né simbolico, né reale,
del nostro rapporto con gli Animali. Gli Animali continueranno a essere
allevati, anche se in misura minore, per essere sottoposti a biopsie. E, dato
che rimarranno Animali, il loro corpo verrà usato SENZA IL LORO CONSENSO.
Continueranno a essere i consumati e noi i consumatori: si potranno uccidere
quando non serviranno più o comunque usare in tutti gli altri modi possibili
che conosciamo.
Se una pratica è ingiusta questa va abolita alla radice, non riformata in
alcuni suoi aspetti. L’antispecismo, come già affermato, non mira a eliminare
la sofferenza, ma a cambiare il nostro rapporto con i viventi di altre specie e
anche l’idea stessa di Umano e di umanità.
Un’umanità e animalità senza sofferenza è già stata immaginata e descritta
tante volte in letteratura e nel cinema: basta assopire le emozioni, le
sensazioni, anche tramite l’assunzione di droghe o panacee: del resto è quello
che il sistema ci propone da sempre, stordimenti vari che siano alcol, sostanze
stupefacenti, televisione, mito del lavoro e della produzione (sei felice se
produci e consumi), religioni, ecc. (suggerisco la visione di un bellissimo
film degli anni Settanta, Rollerball).
L’antispecismo invece non è assopimento o eliminazione del dolore, giacché non
prevede l’eliminazione della sofferenza, ma delle ingiustizie e soprusi a danno
di altri esseri senzienti.
Il dolore e la sofferenza, quando non provocati intenzionalmente a causa di soprusi
e ingiustizie, fanno parte della vita.
Detto ciò, la carne coltivata potrebbe avere indubbiamente almeno un enorme
lato positivo: nutrire tutti quegli Animali carnivori obbligati che per qualche
ragione hanno bisogno del nostro aiuto, magari perché feriti e quindi in
momentanea cattività in un rifugio o CRAS o anche in condizione di cattività a
lungo termine poiché impossibilitati a essere reimmessi in Natura (gravemente
disabili, bisognosi di cure continue, ecc.). Da persona vegana e antispecista, nonché
anche gattara, ho sempre vissuto con molto dolore la contraddizione di dover
dare carne ai Gatti che vivono con me e a quelli di cui in passato mi sono
occupata in colonie urbane; inoltre talvolta mi è capitato di dover soccorrere
e accudire per qualche giorno o anche solo una notte Uccelli carnivori. Ora,
premettendo che sulla questione “Gatti come Animali domestici” ci
sarebbe da fare un discorso a parte, rimane aperta la questione “come aiutare
un carnivoro senza per questo dover causare la morte di altri Animali?”. La
carne coltivata potrebbe essere la risposta. Pensiamo anche alle cliniche
veterinarie che hanno necessità di tenere a disposizione grossi quantitativi di
carne per nutrire i loro pazienti.
Ovviamente da persone umane antispeciste è giusto che includiamo nella nostra
considerazione morale tutti gli Animali bisognosi di aiuto, carnivori compresi,
ma non è giusto che per aiutarli si contribuisca allo sfruttamento e uccisione
di altri Animali. La carne coltivata ovvierebbe a questo enorme dilemma morale.
Questa per me è l’unica propaganda che dovremmo fare noi antispecisti riguardo
la carne coltivata: cibo per gli Animali carnivori.
Chi ha a cuore la vita degli Animali prigionieri degli allevamenti, invece
di appoggiare la carne coltivata, potrebbe agire in favore dell’abolizione dei
sussidi europei agli allevamenti. Certo, nemmeno questa è una richiesta
antispecista, ma perlomeno va nella direzione giusta perché mira a creare danni
economici alla filiera della zootecnia (persino nel manifesto dell’Animal
Liberation Front c’è come obiettivo quello di danneggiare e sabotare
le strutture che sfruttano e uccidono gli Animali).
La liberazione animale non è un processo che si possa ottenere nell’immediato
ed è evidente che necessiti di passi intermedi, ma questi passi devono essere
compiuti nella direzione giusta (quella di un cambiamento radicale) e si devono
avvalere di strumenti adeguati, che non siano le, seppur invitanti, innovazioni
tecnologiche proposte da un sistema che comunque non ha nessuna intenzione di
rinunciare al dominio sui viventi.
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