La risposta alla crisi ecologica non può essere delegata alle Istituzioni che in questi anni l'hanno prodotta. Le comunità locali devono riprendersi il diritto di scrivere la propria storia
Di fronte alle devastanti conseguenze della crisi climatica, denunciata da
anni da scienziati, scienziate e movimenti sociali, si è andata diffondendo una
narrazione, squisitamente ideologica, che ritiene possibile sfidare l’attuale
crisi solo attraverso la cooperazione di istituzioni nazionali/transnazionali,
aziende e cittadini. Come argomentato dal sociologo Razmig Keucheyan in La natura è un campo di battaglia, questa narrazione
appiattisce gli antagonismi esistenti e ignora che questa devastazione
ambientale, per quanto di ampie dimensioni, ha dei responsabili ben definiti e
delle vittime predestinate e si incrocia con altre dimensioni di oppressione
(di classe, di razza, di genere e di specie) che ne rafforzano l’impatto.
Raccontare la sfida al cambiamento climatico come processo che può darsi
tramite l’impegno congiunto di istituzioni, aziende e cittadini significa
rimuovere una questione centrale: che la crisi ecologica è intrinsecamente
legata al fallimento del modello della democrazia rappresentativa che, pur
proponendosi come l’unico capace di mediare tra i diversi interessi presenti
nella società, si è invece rivelato una stampella per chi ha l’interesse del
profitto.
Il caso italiano ne è un esempio. Le mobilitazioni che da anni attraversano
lo stivale per difendere i territori dalla costruzione di grandi opere inutili
e dalla devastazione ambientale hanno svelato le contraddizioni
dell’ambientalismo istituzionale che, da un lato, omaggia Greta Thunberg e,
dall’altro, non perde occasione per rilanciare il Tav Torino-Lione come
opportunità di crescita economica, misurata ancora una volta in termini di Pil
e non di benessere delle comunità.
La lotta a difesa della terra si è presto estesa a una lotta contro i
governi che, pur cambiando nel corso degli anni, hanno mantenuto continuità nel
rapporto col dissenso espresso dai territori proseguendo su due linee di
azione: la militarizzazione e l’accentramento dei poteri decisionali. All’interno
di questi conflitti, la tensione tra democrazia top down e
democrazia bottom up, tra locale e nazionale, tra necessità dei
territori e interessi speculativi di pochi, si è inasprita sino a divenire
centrale nel dibattito dei movimenti contro le grandi opere.
Intorno ai conflitti ambientali si è plasmato in quest’ultimo decennio un
modello di gestione del dissenso e si è ridefinita una visione alternativa di
democrazia. Se la Valsusa in questo senso ha fatto scuola, mettendo in atto
pratiche di resistenza capaci di porre al centro del dibattito la questione
centrale del «chi decide sui territori», anche la controparte ha sperimentato
proprio in questa valle dei modelli repressivi poi diventati un esempio da
perseguire altrove.
Sebbene inizialmente i tentativi di dialogo tra istituzioni e oppositori
del Tav vi siano stati, si sono rivelati inutili nel momento in cui è emerso
che si poteva discutere del tracciato ma non dell’opportunità di costruire
l’opera. Ed è qui che si annida la questione centrale: ciò su cui non vi può
essere confronto è sul rifiuto totale di un progetto. La macchina del progresso
deve andare avanti.
Per ovviare le tensioni che sempre più frequentemente si sono generate e
continuano a generarsi intorno all’uso del territorio, mercificato e messo a
profitto da un galoppante e insaziabile neoliberismo, si è costituito nel 2004
l’osservatorio Nimby Forum che, attraverso attività di «informazione» e
coinvolgimento dei cittadini, ha l’obiettivo di rendere accettabili agli occhi
delle comunità locali opere e attività estremamente discutibili puntando sul
rilancio occupazionale ed economico di territori che il mercato ha depredato e
ora vorrebbe salvare. Questo osservatorio, finanziato da istituzioni politiche
e da aziende coinvolte nella costruzione stessa delle opere contestate,
rappresenta in modo chiaro l’idea di coinvolgimento e partecipazione delle
élites politiche ed economiche. Una partecipazione che non può mettere in
discussione il dogma del progresso, non può esprimere il proprio radicale
dissenso, ma deve essere ricondotta nell’alveo del buon cittadino, passivo e
conciliante.
Dati i numerosi attriti tra locale e nazionale in merito ai progetti
infrastrutturali, il partito trasversale
del cemento ha deciso di accentrare i poteri in poche mani. Si tratta di un
processo inaugurato con la Legge Obiettivo del 2001 del governo Berlusconi e
proseguito nel 2014 con lo Sblocca Italia del governo Renzi. Esautorando i
livelli di governo locali delle loro competenze in materia si è cercato di
velocizzare l’iter decisionale vanificando i tentativi delle comunità locali di
fare pressioni sui livelli governativi a loro più vicini. Lo Sblocca Italia, in
questo senso, ha rappresentato un ulteriore step nel processo di involuzione
autoritaria nella gestione del dissenso proveniente dai territori, prevedendo
procedure semplificate e in deroga al codice degli appalti che, tradotto,
significa riportare competenze prima concorrenti tra Stato e Regioni nelle mani
del primo e con maggiori rischi di corruzione nella costruzione di opere
pubbliche. Inoltre, con lo Sblocca Italia, vengono dichiarate opere di
«interesse strategico» nazionale tutte le infrastrutture legate all’uso di
petrolio e di gas, come il Tap, con conseguenze in termini di potere
decisionale riconosciuto allo Stato e di misure emergenziali a cui ricorrere a
difesa dell’interesse strategico. È, ad esempio, appellandosi a quest’ultima
ragione che nel 2017 ancora il governo a guida Pd decide l’istituzione di una
zona rossa nei pressi del cantiere di Melendugno per difendere la
multinazionale azero-svizzera Tap dalle contestazioni della popolazione che si
stava opponendo all’eradicazione degli ulivi per far spazio al cantiere.
L’incapacità delle istituzioni di dialogare con gli oppositori, o forse
l’interesse delle élites politiche a difendere gli interessi speculativi, ha
inevitabilmente spostato lo scontro dalle istituzioni alle piazze o, per meglio
dire, ai territori, e la repressione spesso è sembrata essere l’unica risposta.
Dai Daspo alle zone rosse, dai processi alle manganellate, vi è stato un
tentativo capillare di disincentivare ogni forma di protesta limitando, tra
l’altro, la libertà di circolazione degli abitanti.
La risposta muscolare dello Stato tramite la militarizzazione, in Valsusa
come a Chiaiano, a Melendugno come a Niscemi, mostra essenzialmente la volontà
delle istituzioni di rifuggire da un confronto politico trattando la protesta
come una questione meramente di ordine pubblico e criminalizzando il dissenso.
In numerose occasioni il conflitto è stato spostato nelle aule dei tribunali,
arrivando al punto di sventolare l’accusa di terrorismo contro gli attivisti,
come si è tentato spesso di fare con il movimento No Tav e più recentemente con
gli attivisti sardi di A Foras contro le basi militari nell’isola. I recenti
decreti sicurezza emanati dal passato governo giallo-verde sono andati nella
stessa direzione, reintroducendo il reato di blocco stradale, depenalizzato nel
1999, e così criminalizzando una delle pratiche di resistenza più comuni tra i
movimenti a difesa della terra.
Sarebbe fuorviante pensare questi casi come delle eccezioni. Queste lotte,
piuttosto, hanno messo in evidenza il modo in cui ordinariamente il sistema
interagisce col dissenso.
Il merito dei numerosi movimenti che negli ultimi vent’anni hanno animato
il paese, è quello di essere riusciti a intrecciare in modo indissolubile la
dimensione ecologica e quella democratica svelando le dinamiche di potere in un
conflitto evidentemente asimmetrico e sollevando con irruenza un interrogativo:
chi ha diritto a decidere sulle nostre vite e sui nostri territori? Perché
delegare la decisione a chi difende gli interessi privati di pochi a danno
delle collettività?
Questo breve excursus di atti e decreti, più che restituire una cronistoria
del rapporto tra governi e istanze ambientaliste nel contesto italiano, serve a
ragionare sulla retorica dominante nell’attuale fase politica. Questa
narrazione tende a indicare l’umanità tutta – indistintamente da classe, razza
e genere – come responsabile dei catastrofici stravolgimenti del pianeta che
hanno condotto a una nuova era geologica (antropocene) e come protagonista,
oggi, di una sfida che ci vede tutti alleati.
Questa alleanza tuttavia non è possibile nella misura in cui i politici
italiani – e non solo – continuano a investire in opere anacronistiche ed
energivore basate ancora sui combustili fossili, come Tap, Rete Adriatica o
Galsi, pur riempiendosi la bocca di parole e promesse di un futuro ecologico.
L’idea di «green» che mercati e Stati vorrebbero attuare l’abbiamo conosciuta
alle numerose Conferenze per il Clima e ai vertici internazionali. Ma anche a
Milano, nel 2015, con Expo, dove dietro allo slogan «Nutrire il Pianeta,
Energia per la Vita» si è consumato l’ennesimo mega-evento fatto di debito,
cemento e precarietà ma anche di corruzione e di redditizie opportunità per i
grandi brand come Nestlè, Coca Cola, Enel o McDonald di presentarsi con un
nuovo volto e per altre, come Eataly o Slow Food, di accaparrarsi una fetta di
mercato costruito sulla strumentalizzazione delle istanze green.
Tenendo conto dell’intersezione tra questi aspetti, è evidente che la risposta
alla crisi ecologica non può essere delegata a chi l’ha prodotta imponendosi
sulle comunità, quelle che per prime hanno pagato il conto di un mercato
predatorio che considera la deturpazione dell’ambiente, con tutto ciò che ne
consegue, come esternalità negative da mettere a valore. La ricerca di una
soluzione non può essere consegnata nelle stesse mani che hanno avvelenato e
saccheggiato il pianeta e che hanno represso fisicamente e giudiziariamente chi
ha provato a smascherare questo sistema e a difendere il diritto, individuale e
collettivo, a vivere sul proprio territorio.
Questa sfida è stata già colta da anni dai movimenti contro le grandi opere
inutili e imposte e oggi assunta dai Fridays For Future che sono stati capaci
di legare, con efficacia locale e globale, lotta sui territori e lotta al
cambiamento climatico. La rotta può essere invertita solo accogliendo la
proposta proveniente da questi soggetti di ripensare radicalmente modelli
decisionali e organizzativi che partano dalle necessità delle comunità di poter
decidere per il proprio futuro e per il proprio presente. Questo significa
anche disinnescare il processo individualizzante e atomizzante che caratterizza
il sistema capitalista e ripensarci come comunità, ricomponendo quella tensione
individuo-collettivo, termini che appaiono nel nostro tempo antitetici a causa
di una retorica incentrata sulla competizione e sul darwinismo sociale.
Le lotte di cui parliamo sono state e sono tutt’ora fondamentali laboratori
politici dove queste riflessioni sono maturate e hanno messo radici, e dove le
comunità, basate su una comunione di intenti piuttosto che su un senso
identitario escludente, si sono ricostruite e hanno posto in modo
incontrovertibile la rivendicazione dell’autodeterminazione. Del diritto, per
dirla con le parole usate dal movimento No Tav, di scrivere la propria storia.
*Paola Imperatore è dottoranda presso il Dipartimento di Scienze Politiche
dell’Università di Pisa, membro dell’Opi (Osservatorio su
Politica e Istituzioni) e del PoliCom.
Attivista di Non una di meno Pisa, ha scritto per Gaia, Commonware, Il
Ponte e altre riviste.
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