giovedì 24 agosto 2023

In Ecuador un referendum lascia il petrolio sotto terra – Marina Forti

 

Lasciate il petrolio sottoterra. La maggioranza degli ecuadoriani si è espressa così, nel referendum popolare tenuto il 20 agosto in concomitanza con le elezioni politiche: quasi il 60 per cento degli elettori ha votato per mettere fine alle attività petrolifere nella zona di foresta amazzonica chiamata Blocco 43. La zona, nota anche come ITT perché include i giacimenti di Ishpingo, Tambococha e Tiputini, si trova all’interno del Parco nazionale di Yasunì, riserva naturale di oltre 900 mila chilometri quadrati di foresta pluviale considerata tra le più ricche al mondo di biodiversità. Il parco Yasuni e il “Territorio ancestrale Huaorani” adiacente, sono riconosciuti dall’Unesco come “riserva della biosfera” dal 1989.

Il quesito in effetti era molto semplice: “Lei è d’accordo che il governo del Ecuador lasci indefinitamente sottoterra il petrolio greggio contenuto nel ITT, conosciuto come Blocco 43?”. Per volere popolare dunque i pozzi petroliferi attivi in quella zona dal 2016 saranno smantellati. È una svolta storica per la regione del Yasunì e per le popolazioni indigene che vi abitano. E non solo per loro: mentre il mondo discute di cambiamento climatico, un voto popolare per chiudere dei pozzi di petrolio “è un esempio mondiale”, ha commentato Antonella Calle, portavoce della rete Yasunidos che ha promosso il referendum.

La battaglia per il Yasunì ha una lunga storia. Si può far cominciare nel 2007, quando l’allora presidente Rafael Correa ha lanciato la «Iniziativa Yasunì ITT», facendo proprio uno dei progetti più ambiziosi mai avanzati dai movimenti per la giustizia ambientale: l’Ecuador si impegnava a non estrarre il petrolio nella zona di Ishpingo-Tambococha-Tiputini, quindi a non mettere sul mercato un combustibile fossile che – si calcolava – avrebbe prodotto oltre 4 milioni di tonnellate di anidride carbonica, gas «di serra» responsabile del riscaldamento del clima. Ma il petrolio era (ed è) la seconda voce delle entrate nazionali, e l’Ecuador chiedeva alle economie ricche di farsi carico di parte del mancato reddito: quantificato il valore del greggio giacente nel Yasuni in circa 7,2 miliardi di dollari, l’Ecuador chiedeva di sottoscrivere 3 miliardi e 600 milioni (la metà) in «certificati di garanzia» corrispondenti alle tonnellate di anidride carbonica che non andranno nell’atmosfera. Il progetto sembrava decollare nel 2010, quando il Programma dell’Onu per lo sviluppo (Undp) ha accettato di gestire un fondo fiduciario. Tre anni dopo però erano stati effettivamente sottoscritti certificati per appena 13 milioni di dollari, una briciola.

Così il progetto Yasunì ITT è fallito. Nell’agosto 2013 il governo dell’Ecuador ha sciolto il fondo fiduciario («Le nazioni ricche non hanno appoggiato il piano», aveva dichiarato Correa). Lo stesso anno il presidente ha ottenuto che il parlamento dichiarasse il Blocco 43 zona di “interesse strategico nazionale”, così da poter autorizzare attività estrattive: a chi lo accusava del voltafaccia diceva che il paese ha bisogno del reddito petrolifero “per combattere la povertà”.

È allora che una rete di organizzazioni sociali, ambientaliste e di popoli indigeni raccolta sotto il nome Yasunidos ha proposto un referendum: sostenevano che il paese ha interesse a proteggere il suo patrimonio naturale anche senza l’appoggio di altre nazioni. A sostegno della consultazione popolare avevano raccolto 850 mila firme, ben oltre la quota necessaria. La Commissione elettorale però ne ha considerate valide meno della metà; il quesito stesso era stato respinto, con un atto che solo più tardi è stato riconosciuto illegale. Prima ci sono stati dieci anni di ricorsi alla Corte Costituzionale, una vicenda legale tortuosa che ha attraversato tre diversi governi.

Durante i dibattiti che hanno preceduto il voto, il presidente uscente Guillermo Lasso ha sostenuto che rinunciare al blocco ITT farà perdere allo stato 1.200 milioni di dollari all’anno – tale è stato il reddito generato nel 2022. L’amministratore dell’ente nazionale PetroEcuador, Ramon Correa, ha rincarato: in vent’anni la perdita sarà di oltre 16 mila milioni di dollari, sommando il mancato reddito (13.800 milioni) alle spese per l’abbandono, per smantellare infrastrutture e pozzi, e 251 milioni di compensazioni sociali.

I promotori controbattono. L’economista Carlos Larrea, membro di Yasunidos, sostiene che il calcolo del governo è fuorviante: quei 1200 dollari sono calcolati su un prezzo di 60 dollari al barile per 55 mila barile al giorno per 365 giorni – che però è irreale. Inoltre sarebbe il ricavato delle esportazioni, non ciò che entra nelle casse dello stato, e nel conto non sono incluse le spese di estrazione. Soprattutto, non considera il fatto che il greggio estratto nel ITT è intriso d’acqua (si parla di 11 barili d’acqua per barile di greggio), cosa che fa salire i costi e la difficoltà dell’estrazione, e ne riduce la qualità. Tanto che il ministro dell’energia Francisco Santos aveva detto tempo fa che quel petrolio è stato “una delusione” per tutta l’acqua che “annega i pozzi” (riprendo queste dichiarazioni dal quotidiano spagnolo El Pais).

Nella sua campagna, la rete Yasunidos ha puntato sulla difesa delle risorse naturali, la biodiversità, l’Amazzonia e i suoi popoli. Ha indicato altre vie per compensare la fine delle estrazioni nel Blocco 43: abrogare alcune delle esenzioni fiscali per i super-ricchi nel paese (da sole farebbero 6.300 milioni di dollari in un anno, secondo dati dell’agenzia delle entrate ecuadoriana); magari introdurre una tassa dell’uno per cento sulle super-fortune. Ma questo richiederà un governo orientato alla redistribuzione – cosa per nulla scontata neppure se a vincere il ballottaggio del 15 ottobre fosse Luisa Gonzales, la candidata “correista” (attualmente favorita sul giovane imprenditore Daniel Noboa, conservatore).

Secondo la legge ora PetroEcuador ha tempo un anno per ritirarsi dal Yasunì, anche se l’azienda ha già fatto sapere che smantellare i circa 230 pozzi in attività richiederà almeno cinque anni di lavoro. “Ci assicureremo che i petrolieri se ne vadano quanto prima dalla nostra foresta” ha commentato Nemonte Nenquimo, leader indigena della nazionalità Hoaorani (e vincitrice nel 2020 del premio ambientale Goldman, detto “Nobel alternativo”). “Condivideremo questo modello di azione diretta per il clima con tutti i popoli e paesi, perché la crisi climatica nel mondo ha bisogno di modelli di lotta che mettano il potere nelle mani dei popoli”.

(Un altro esempio del resto viene dallo stesso Ecuador: dove gli abitanti del Distretto metropolitano di Quito, la capitale, hanno votato al 68 per cento contro nuove concessioni minerarie nel territorio chiamato Choco Andino, anche questo considerato Riserva della biosfera dall’Unesco (in questo caso però non saranno chiuse le miniere già esistenti). Anche qui il referendum è stato promosso da una rete popolare, chiamata Quito sin mineria: e ha vinto.

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