I negazionisti di fatto sono quelli che riconoscono l’imminenza, la gravità e le dimensioni della crisi ecologica e ambientale (ormai sono la maggioranza, soprattutto tra le élite dirigenti e le forze al governo di tutto il mondo), ma che poi continuano ad agire come se nulla fosse. Anzi peggio. Alle grandi opere infrastrutturali pensate per una crescita che non ci sarà mai più, si aggiungono ora guerra, produzione e uso di armi che accelerano la resa dei conti con la crisi climatica, disputandosi, con il sangue di centinaia di migliaia di infelici, territori che stanno devastando con bombe, proiettili e mine seminate a milioni, con allagamenti, inquinamenti e distruzioni che li renderanno inabitabili e sterili per decenni se non per secoli. Una prova generale di come si apprestano a ridurre tutta la Terra.
Ma anche i negazionisti veri, quelli che si ostinano a sostenere che i cambiamenti climatici non ci sono o non sono di origine antropica, sanno benissimo che la catastrofe incombe, anche se lo negano. La prova? La loro ostilità verso i profughi. Percepiscono, forse anche inconsapevolmente, che continuando così non ci sarà più posto per tutti su questo mondo. E meno che mai, quindi, nel loro Paese, nella loro città, nel loro quartiere.
Gaia Vince (Il pianeta nomade, Bollati Boringhieri, 2023) sostiene che entro pochi decenni solo la metà del pianeta, per lo più nell’emisfero settentrionale, sarà ancora abitabile dall’uomo. Il resto sarà sommerso dai mari o reso invivibile dal calore; per lo meno fino a che la geo-ingegneria, in cui lei ha fiducia, non lo riporterà, nel corso di alcuni secoli, alle condizioni di prima. Ma questo non succederà mai e non solo perché la geo-ingegneria aggiunge danno a danno, ma perché ghiacciai, permafrost e calotte polari non si riformeranno più, i fiumi non scorreranno mai più come prima, le acque dei mari non si ritireranno, gli incendi continueranno a bruciare i boschi, ecc.
Per Gaia Vince la soluzione è semplice: metà dell’umanità, e forse più (perché di questo si tratta: miliardi di esseri umani), migrerà verso le terre dell’emisfero nord, rese più fertili dal loro nuovo clima. Le migrazioni, sostiene, portano vantaggi sia a chi parte che a chi accoglie. Non ha fatto i conti con il vento anti-profughi che spira ormai fortissimo in tutto il mondo; né con quello che i (finti) negazionisti vogliono evitare e intendono impedire. Oggi, affidando al mare, al deserto e alle barriere l’eliminazione di quelle che per loro sono eccedenze umane a cui negano l’accoglienza; domani, con vere e proprie guerre di sterminio di cui queste misure sono la prova generale.
Per i primi, i negazionisti di fatto, il problema è troppo grande per affrontarlo. Per i secondi, i falsi negazionisti, occorre nasconderne l’entità e abituare poco per volta la popolazione ad accettarne la soluzione obbligata. Nel frattempo la vita può continuare come sempre. Per questo le destre razziste e nemiche dei migranti sono ovunque vincenti: le mezze misure prospettate e mai messe in atto dai loro avversari creano solo insofferenza senza cambiare prospettiva. D’altronde è chiaro che anche se l’Unione Europea (10 per cento delle emissioni mondiali) o l’Italia (1 per cento) o la nostra città (? per cento) adottassero misure più stringenti contro emissioni e distruzione di suolo e biodiversità, ci saranno comunque nel mondo grandi “attori” – Stati, imprese, città – che continueranno a non farlo, portandoci ben oltre la soglia dell’irreversibilità, che riguarda tutto il pianeta. Un argomento forte a favore del non agire. Che fare, allora? Intanto, accanto alle misure di una vera mitigazione, continuamente rimandate, vanno sviluppate quelle di adattamento, per rendere vivibili i territori che abitiamo anche in condizioni molto più ostiche.
E qui incontriamo una discriminante radicale tra le generazioni. I giovani sanno, o percepiscono, anche solo vedendo quanto poco ci curiamo del loro futuro – lavoro, casa, salute, istruzione, socialità – che gli stiamo preparando l’inferno. Non si fidano e non possono fidarsi né di quello che diciamo né di quello che facciamo. Votano poco, non frequentano riunioni politiche, non guardano TV e giornali, vivono dentro le loro bolle social (che non sono le nostre), disprezzano sia chi li governa sia chi li vorrebbe governare. Ovunque.
Vorrebbero cambiare il mondo anche in maniera radicale (avevano risposto a milioni agli appelli di Greta Thunberg) e sarebbero molti di più se sapessero come farlo, ma nessuno gli ha messo in mano gli strumenti per capirlo: non le precedenti generazioni, incistate nelle loro abitudini, anche se misere e senza gioia. Non i governanti, che hanno tutti perso la capacità di guardare lontano. Non gli scienziati a cui i più coscienti dicono di ispirarsi. Perché la scienza documenta sempre meglio l’imminenza del disastro (che d’altronde è sotto gli occhi di tutti), ma non indica la strada per sventarlo. Né potrebbe farlo. Perché quella strada va costruita dal basso, col concorso (esperienze, conoscenze, volontà, impegno diretto) di tutti e non può essere calata dall’alto.
Lo si vede bene con NextgenerationEu: un programma varato per “mettere in sicurezza” le prossime generazioni, presto sommerso dalle deroghe (come quelle per gas, nucleare e armi) e tradotto in Pnrr, cioè in una accozzaglia di (Grandi) opere e interventi, nessuno dei quali mirato realmente a veri obiettivi climatici e ambientali. Ma soprattutto senza il minimo coinvolgimento delle popolazioni nelle scelte e neppure nelle informazioni, mentre è ovvio che un piano per affrontare la crisi ambientale dovrebbe partire, investendo molte risorse a tutti i livelli, da una campagna per informare e coinvolgere l’intera popolazione. Invece a nessuno, giovani o adulti, è dato di sapere qualcosa di quella montagna di denaro (a debito) destinata comunque a venir sprecata per la gloria di qualche ministro o cacicco locale.
Dalle generazioni oggi al governo (e, dietro di loro, da quelle al potere, quello vero), non c’è niente da aspettarsi. Alcuni di loro potrebbero sì mettere a disposizione la propria esperienza e le proprie competenze, ma a livello decisionale non sono in grado neanche di concepire un vero cambio di rotta. Ad afferrare le redini deve essere una generazione completamente nuova, resa consapevole (in gran parte lo è già) della necessità, ma anche delle opportunità, di una svolta – produzioni, consumi, azioni, progetti, distribuzione del potere – fondata sul rifiuto radicale di trattare la Terra e tutto ciò che su di essa e dentro di essa vive e si muove come “materia prima” a disposizione di uno sviluppo senza prospettive, se non quella della distruzione.
Da dove partire? Dagli insediamenti naturali del movimento mondiale che ha capito la necessità di questa svolta, che è un movimento di studenti. Dunque, dalle scuole e dalle università: per aprirle al “territorio” e renderle punto di attrazione e di costruzione di comunità. Imponendo e costruendo un cambio dei programmi scolatici e disciplinari, per integrare la nostra appartenenza alla Terra in tutte le materie curriculari, per mettere gli edifici a norma dal punto di vista energetico, per creare orti sociali che illustrino le opportunità di un’alimentazione sostenibile, per creare poli di riorganizzazione della mobilità, luoghi di socializzazione, di apprendimento e anche di divertimento per tutti, strutture aperte giorno e sera. Perché senza comunità e reti di comunità, cioè senza contatto diretto, “amicizia sociale”, fiducia reciproca, fratellanza e sorellanza, non si possono mettere a punto obiettivi condivisi né aprire vertenze e conflitto con chi ne ostacola la realizzazione. Ce lo insegnano le esperienze dei NoTav, della ex Gkn e di molte altre situazioni di lotta.
Per capire l’inadeguatezza del nostro ceto dirigente basta ricordare che di fronte alla resistenza, allora ventennale, oggi trentennale, del movimento NoTav, Luigi Bersani esclamò: “Ma come è possibile! E’ solo un treno”. Non era e non è solo un treno. Era ed è rifiuto di spese, consumi di energia e produzione di CO2 e altri inquinanti inutili e dannosi; difesa di un territorio senza il quale non è possibile costruire comunità; salvaguardia della bellezza aperta alla fruizione di tutti; realizzazione di un saldatura permanente tra generazioni, generi, condizioni e background culturali diversi; sviluppo di una cultura alternativa di respiro planetario (“Il Grande Cortile”), costruzione di un punto di riferimento per tutte le altre lotte per il clima, l’ambiente, la salute e l’occupazione presenti e future, dove le bandiere NoTav sono sempre presenti. Tutte cose replicabili, in un grande processo di “globalizzazione dal basso” per salvare la vita della specie uomo. Non solo un treno, dunque. Ma questo Bersani e i suoi amici come i suoi avversari non lo possono capire.
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