Le vacche “da latte” sono destinate a vivere di solito 5 anni, prima di venire abbattute. Se non venissero sottoposte alle “superiori” necessità della produzione, arriverebbero a viverne bene fino a 20. Le industrie di sfruttamento dei non-umani, non parlano più da tempo soltanto di riproduzione bensì di produzione dell’animale. Un animale che, per essere consumato, non deve essere considerato “vero” – come dice alla mamma, con illuminante semplicità, il bambino Luiz nel video che mostriamo qui sotto – altrimenti quando lo mangiamo morirebbe. È così che si innesca il concetto di reificazione che ci induce a ridurre la vita di soggetti diversi da “noi” a oggetti inerti e poi a merci. In questo nuovo articolo, Annamaria Rivera parte dalla riduzione degli animali a cose per sviluppare, con il consueto rigore e da diverse prospettive, la ben nota critica alla negazione dell’altro-da-sé legata al dominio sulla natura, per dirla con Adorno, e alla mercificazione di massa che segna in profondità gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati propri delle società industriali-capitalistiche. Se le ragioni della propensione a cibarsi di «carne» vanno ricercate soprattutto sul versante del mercato e degli interessi dell’industria zootecnica, aggiunge però Annamaria, non va trascurata l’importanza della ragione simbolica. Fino a quando ci saranno macelli, avremo anche campi di battaglia, pare dicesse Tolstoj, che considerava l’associazione tra carne e guerra un inesorabile automatismo della storia.
Per affrontare, sia pur sinteticamente, un tema come quello che propongo,
penso convenga esordire con il concetto di reificazione. In
estrema sintesi, si può dire che essa è una postura, una disposizione, una
pratica sociale routinaria che induce a trattare soggetti diversi dal noi non
già in modo conforme alle loro qualità di esseri sensibili, ma come oggetti
inerti o perfino come cose o merci.
Un’altra linea di pensiero che ho cercato di rendere operante è quella che
banalmente potrebbe definirsi animalista: è, in realtà, una riflessione sulla
continuità dei processi di dominazione e di reificazione. La dialettica
negativa proposta da Theodor W. Adorno, secondo il quale il sé dell’umano
si produce per mezzo dell’attiva negazione dell’altro-da-sé,
legata al dominio sulla natura, non riguarda solo il rapporto uomini/donne e
noi/altri, ma anche quello umani/animali.
Nel caso degli animali la mercificazione è davvero totale, al punto che le
industrie di sfruttamento dei non-umani, “non parlano più soltanto di riproduzione bensì
di produzione dell’animale: come se gli animali fossero solo
materiale corporeo che è compito del lavoro umano formare, strumentalizzare e
riprodurre”, nonché uccidere (Melanie Bujok, 2008, Materialità
corporea, ‘materiale-corpo’. Pensieri sull’appropriazione del corpo di animali
e donne).
Se abshlachten («macellare») era il verbo usato dagli
esecutori nazisti per nominare il massacro dei prigionieri nei lager, programmato e
attuato secondo una rigorosa logica industriale, oggi allevare,
torturare e macellare animali si dice «produrre della carne»
Per sovvertire questo modello occorre anzitutto mostrarne la parzialità: per quanto si sia
diffuso in aree disparate, esso è nato da una piccola frazione di
pensiero filosofico -l’occidentale-moderno- che tende a pensare secondo
polarità contrapposte il rapporto fra natura e cultura, che separa, culturalmente
e moralmente, gli umani dai non-umani, che istituisce una
frattura insanabile fra soggetti umani e oggetti animali,
negando a questi ultimi la qualità di soggetti, per l’appunto,
dotati di sensibilità, biografie, mondi, culture, storie.
Questa frazione di pensiero ha prodotto un’ontologia del tutto particolare,
che, a sua volta, ha generato una cosmologia e un’etica fra le
tante. Per coglierne appieno l’arbitrarietà, la peculiarità, dunque la
non-universalità, basta considerare che questo modello dualistico è privo di
senso per buona parte delle tradizioni culturali non-occidentali. Delle quali
numerose hanno fatto giusto della continuità fra i viventi il paradigma
costitutivo delle proprie ontologie e cosmologie.
La reificazione dei non-umani è divenuta mercificazione massiva
con gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati, propri delle società
industriali-capitalistiche: strutture concentrazionarie, si potrebbe dire, che,
favorendo il “salto di specie”, rappresentano, fra l’altro, una delle cause che
hanno provocato la pandemia più recente, al pari di non poche altre
precedenti.
Basta citare la Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»), che si diffuse
tra il 2002 e il 2003, ugualmente provocata da un coronavirus. Ma conviene
tener conto del fatto che di origine zoonotica sono anche l’Ebola, l’Aids,
l’influenza aviaria.
Tutto ciò è dialetticamente connesso con i processi, rapidi e sempre più
dilaganti, di deforestazione, urbanizzazione, industrializzazione, anche
dell’agricoltura, che sottraggono progressive porzioni di habitat agli
animali detti selvatici. I quali, se mai sopravvivono, non possono che
approssimarsi agli insediamenti umani e quindi anche agli animali detti «da
allevamento», tra i più vulnerabili poiché immunologicamente depressi a causa
delle condizioni e del trattamento estremi cui sono sottoposti: fra l’altro, la
somministrazione di dosi abnormi di antibiotici, per non dire delle pratiche di
autentica tortura.
In Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il
mondo animale, un volume collettaneo, da me curato, pubblicato dalla casa
editrice Dedalo nel lontano 2000, eppure tragicamente attuale, scrivevo,
tra l’altro, che chi acquista, per esempio, «carne di vitello ignora o vuole
ignorare che la chiarezza di quella chair divenuta viande è
ottenuta costringendo il cucciolo di bovino a vivere la sua breve vita
nell’immobilità assoluta, imbottito di ogni genere di farmaci che ne
invecchiano rapidamente gli organi, nonché imprigionato in spazi angusti
e bui”.
Quel volume, cui parteciparono, oltre me, Mondher Kilani, Roberto
Marchesini, Luisella Battaglia, era, soprattutto nel caso del mio contributo,
in buona parte ispirato dal grande antropologo Philippe Descola (Oltre natura e
cultura, Raffaello Cortina, 2021), anche se non vi mancavano espliciti
riferimenti ad altri/e studiosi/e importanti quale Jacques Derrida (L’animale
che dunque sono, Rusconi 2021).
Se le ragioni della propensione a cibarsi di «carne» vanno ricercate
soprattutto sul versante del mercato e degli interessi dell’industria
zootecnica, non va trascurata l’importanza della ragione simbolica: già nel
1992, Derrida in Points de suspension (Galilée,
1992) aveva delineato la figura di una soggettività «carneo-fallogocentrica»,
propria del soggetto maschile, detentore del logos e, per
l’appunto, carnivoro. Si aggiunga la crudele manipolazione di viventi che si
compie con gli esperimenti di transgenesi, clonazione e così via.
Con gli animali-laboratorio, il ciclo maledetto tocca il
culmine. Sicché non è troppo azzardata l’analogia con le pratiche naziste di
riduzione di corpi umani a manichini, strumenti, cavie per la realizzazione di
atroci esperimenti detti «scientifici».
La reificazione dei non-umani è divenuta mercificazione massiva
con gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati, propri delle società
industriali-capitalistiche: strutture concentrazionarie che, favorendo il
“salto di specie”, rappresentano una delle cause che hanno provocato la
pandemia attuale, al pari di non poche altre precedenti. Basta citare la
Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»), che si diffuse tra il 2002 e il
2003, ugualmente provocata da un coronavirus.
E tuttavia, in piena crisi pandemica, quella più recente, allorché la
consapevolezza della centralità del tema del nostro rapporto perverso con gli
ecosistemi e con i non-umani avrebbe dovuto essere largamente condivisa, tanto
più da dotti, proprio allora qualcuno di loro si lasciava andare ad
affermazioni sconcertanti. Alludo al virologo Roberto Burioni, il
quale, in tv, si augurava che anche «i nostri amici a quattro zampe»
potessero contrarre il Covid-19 perché questo «ci permetterà di avere un
notevole vantaggio nella sperimentazione dei vaccini».
Eppure è ben noto che il modello degli esperimenti su non-umani, oltre che
eticamente inaccettabile, è ormai così costoso e sorpassato da rendere assai
improbabile la realizzazione di farmaci e vaccini efficaci. Tutto ciò
non riguarda solo il destino dei non-umani. Un’ideologia e pratiche
analoghe guidano la sacrificabilità selettiva degli umani, i più vulnerabili,
esposti, precari e/o alterizzati, come abbiamo constatato anche nel corso della
recente pandemia.
È da quasi un trentennio, cioè da quando ho iniziato a integrare nelle mie
ricerche, conseguentemente in saggi e articoli, quella che viene detta
impropriamente “la questione animale” (o dei “non-umani”), che il pensiero e le
opere di Philippe Descola mi sono diventati indispensabili, tanto da citarlo
assai frequentemente: estremamente utili, l’uno e le altre, a mostrare – come
egli stesso scrive in Oltre natura e cultura (Raffaello
Cortina, 2021) – che la “contrapposizione tra natura e cultura non possiede
il carattere universale che siamo soliti attribuirle”.
“Per portare a buon fine tale impresa” – egli aggiungeva – è necessario che
la stessa “antropologia si liberi del proprio dualismo costitutivo e diventi
pienamente monista”.
Tra l’altro, è anche grazie alle sue ricerche e al suo pensiero che ho
trovato il coraggio di condurre una più che decennale ricerca di campo a
Essaouira: una cittadina del Sud-Ovest del Marocco, esemplare per la sua storia
di mixité, in particolare per la lunga coabitazione tra
arabo-musulmani ed ebrei, per non dire di altre minoranze, ma anche per la
densa, profonda convivenza tra umani e alcune categorie di non-umani.
La mia è una ricerca – come dicevo – ispirata da quella che oggi viene
detta, un po’ impropriamente, “etnografia multispecie”, che poi, nel mio caso,
si è concretizzata in un saggio, pubblicato da Dedalo nel 2016: La
città dei gatti. Antropologia animalista di Essaouira.
In tale saggio assume un ruolo rilevante il tema della convivialità interspecifica: con gatti, gabbiani e perfino cani. Dico “perfino”
perché per lungo tempo questi ultimi sono stati considerati, da parte
musulmana, come esseri impuri, com’è ben noto. Va precisato, tuttavia, che una
tale distinzione fra animali puri e impuri non è affatto peculiare del solo
mondo musulmano. E comunque attualmente, a Essaouira, in particolare, anche i
cani sono accolti, protetti e integrati nel mondo degli umani.
V’è un altro aspetto che conviene sottolineare: a Essaouira a prendersi
cura di animali liberi quali gabbiani, gatti e perfino cani sono anche, se non
soprattutto, le persone più diseredate, le quali praticano una comune etica
della compassione e della solidarietà, estesa oltre la “specie” umana. Esse,
concedendosi il “lusso” del senso e del dono, dellʼaffettività e della cura più
gratuite, si sottraggono alla ragione economica e utilitaria che le ha
condannate. E in tal modo spezzano la catena dell’obbligata dipendenza dal
bisogno a cui la società le ha legate e le immagina schiave.
Ancora a proposito della convivialità interspecifica, conviene aggiungere
che essa è stata per me non solo oggetto di osservazione, ma anche e
soprattutto vissuto personale relazionale: diretto e duraturo. Infatti, secondo
la mia esperienza di campo, l’agency animale, se non permette di collocare
il non-umano nel ruolo classico dell’“informatore”, lo
posiziona comunque in quello di attore e testimone di un contesto che favorisce
incontri, relazioni, perfino lunghe amicizie transpecifiche. Tutto ciò ho
potuto sperimentarlo personalmente, soprattutto con alcuni gabbiani e gatti, ai
quali da non pochi anni mi lega un’amicizia fedele e costante.
Per concludere con l’ennesima citazione da Descola: “Molte delle
cosiddette società primitive (…) non hanno mai pensato che le frontiere
dell’umanità si arrestassero alle porte della specie umana, né esitano a
invitare nell’insieme della vita sociale le piante più modeste, gli animali più
insignificanti”.
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