sabato 3 giugno 2023

Produrre carne - Annamaria Rivera

 

Le vacche “da latte” sono destinate a vivere di solito 5 anni, prima di venire abbattute. Se non venissero sottoposte alle “superiori” necessità della produzione, arriverebbero a viverne bene fino a 20. Le industrie di sfruttamento dei non-umani, non parlano più da tempo soltanto di riproduzione bensì di produzione dell’animale. Un animale che, per essere consumato, non deve essere considerato “vero” – come dice alla mamma, con illuminante semplicità, il bambino Luiz nel video che mostriamo qui sotto – altrimenti quando lo mangiamo morirebbe. È così che si innesca il concetto di reificazione che ci induce a ridurre la vita di soggetti diversi da “noi” a oggetti inerti e poi a merci. In questo nuovo articolo, Annamaria Rivera parte dalla riduzione degli animali a cose per sviluppare, con il consueto rigore e da diverse prospettive, la ben nota critica alla negazione dell’altro-da-sé legata al dominio sulla natura, per dirla con Adorno, e alla mercificazione di massa che segna in profondità gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati propri delle società industriali-capitalistiche. Se le ragioni della propensione a cibarsi di «carne» vanno ricercate soprattutto sul versante del mercato e degli interessi dell’industria zootecnica, aggiunge però Annamaria, non va trascurata l’importanza della ragione simbolica. Fino a quando ci saranno macelli, avremo anche campi di battaglia, pare dicesse Tolstoj, che considerava l’associazione tra carne e guerra un inesorabile automatismo della storia.

Per affrontare, sia pur sinteticamente, un tema come quello che propongo, penso convenga esordire con il concetto di reificazione. In estrema sintesi, si può dire che essa è una postura, una disposizione, una pratica sociale routinaria che induce a trattare soggetti diversi dal noi non già in modo conforme alle loro qualità di esseri sensibili, ma come oggetti inerti o perfino come cose o merci.

Un’altra linea di pensiero che ho cercato di rendere operante è quella che banalmente potrebbe definirsi animalista: è, in realtà, una riflessione sulla continuità dei processi di dominazione e di reificazione. La dialettica negativa proposta da Theodor W. Adorno, secondo il quale il sé dell’umano si produce per mezzo dell’attiva negazione dell’altro-da-sé, legata al dominio sulla natura, non riguarda solo il rapporto uomini/donne e noi/altri, ma anche quello umani/animali.

Nel caso degli animali la mercificazione è davvero totale, al punto che le industrie di sfruttamento dei non-umani, “non parlano più soltanto di riproduzione bensì di produzione dell’animale: come se gli animali fossero solo materiale corporeo che è compito del lavoro umano formare, strumentalizzare e riprodurre”, nonché uccidere (Melanie Bujok, 2008, Materialità corporea, ‘materiale-corpo’. Pensieri sull’appropriazione del corpo di animali e donne).

Se abshlachten («macellare») era il verbo usato dagli esecutori nazisti per nominare il massacro dei prigionieri nei lager, programmato e attuato secondo una rigorosa logica industriale, oggi allevare, torturare e macellare animali si dice «produrre della carne»

Per sovvertire questo modello occorre anzitutto mostrarne la parzialità: per quanto si sia diffuso in aree disparate, esso è nato da una piccola frazione di pensiero filosofico -l’occidentale-moderno- che tende a pensare secondo polarità contrapposte il rapporto fra natura e cultura, che separa, culturalmente e moralmente, gli umani dai non-umani, che istituisce una frattura insanabile fra soggetti umani e oggetti animali, negando a questi ultimi la qualità di soggetti, per l’appunto, dotati di sensibilità, biografie, mondi, culture, storie.

Questa frazione di pensiero ha prodotto un’ontologia del tutto particolare, che, a sua volta, ha generato una cosmologia e un’etica fra le tante. Per coglierne appieno l’arbitrarietà, la peculiarità, dunque la non-universalità, basta considerare che questo modello dualistico è privo di senso per buona parte delle tradizioni culturali non-occidentali. Delle quali numerose hanno fatto giusto della continuità fra i viventi il paradigma costitutivo delle proprie ontologie e cosmologie.

La reificazione dei non-umani è divenuta mercificazione massiva con gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati, propri delle società industriali-capitalistiche: strutture concentrazionarie, si potrebbe dire, che, favorendo il “salto di specie”, rappresentano, fra l’altro, una delle cause che hanno provocato la pandemia più recente, al pari di non poche altre precedenti. 

Basta citare la Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»), che si diffuse tra il 2002 e il 2003, ugualmente provocata da un coronavirus. Ma conviene tener conto del fatto che di origine zoonotica sono anche l’Ebola, l’Aids, l’influenza aviaria.

Tutto ciò è dialetticamente connesso con i processi, rapidi e sempre più dilaganti, di deforestazione, urbanizzazione, industrializzazione, anche dell’agricoltura, che sottraggono progressive porzioni di habitat agli animali detti selvatici. I quali, se mai sopravvivono, non possono che approssimarsi agli insediamenti umani e quindi anche agli animali detti «da allevamento», tra i più vulnerabili poiché immunologicamente depressi a causa delle condizioni e del trattamento estremi cui sono sottoposti: fra l’altro, la somministrazione di dosi abnormi di antibiotici, per non dire delle pratiche di autentica tortura.

In Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il mondo animale, un volume collettaneo, da me curato, pubblicato dalla casa editrice Dedalo nel lontano 2000, eppure tragicamente attuale, scrivevo, tra l’altro, che chi acquista, per esempio, «carne di vitello ignora o vuole ignorare che la chiarezza di quella chair divenuta viande è ottenuta costringendo il cucciolo di bovino a vivere la sua breve vita nell’immobilità assoluta, imbottito di ogni genere di farmaci che ne invecchiano rapidamente gli organi, nonché  imprigionato in spazi angusti e bui”.

Quel volume, cui parteciparono, oltre me, Mondher Kilani, Roberto Marchesini, Luisella Battaglia, era, soprattutto nel caso del mio contributo, in buona parte ispirato dal grande antropologo Philippe Descola (Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina, 2021), anche se non vi mancavano espliciti riferimenti ad altri/e studiosi/e importanti quale Jacques Derrida (L’animale che dunque sono, Rusconi 2021).

Se le ragioni della propensione a cibarsi di «carne» vanno ricercate soprattutto sul versante del mercato e degli interessi dell’industria zootecnica, non va trascurata l’importanza della ragione simbolica: già nel 1992, Derrida in Points de suspension (Galilée, 1992) aveva delineato la figura di una soggettività «carneo-fallogocentrica», propria del soggetto maschile, detentore del logos e, per l’appunto, carnivoro. Si aggiunga la crudele manipolazione di viventi che si compie con gli esperimenti di transgenesi, clonazione e così via.

Con gli animali-laboratorio, il ciclo maledetto tocca il culmine. Sicché non è troppo azzardata l’analogia con le pratiche naziste di riduzione di corpi umani a manichini, strumenti, cavie per la realizzazione di atroci esperimenti detti «scientifici».

La reificazione dei non-umani è divenuta mercificazione massiva con gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati, propri delle società industriali-capitalistiche: strutture concentrazionarie che, favorendo il “salto di specie”, rappresentano una delle cause che hanno provocato la pandemia attuale, al pari di non poche altre precedenti. Basta citare la Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»), che si diffuse tra il 2002 e il 2003, ugualmente provocata da un coronavirus.

E tuttavia, in piena crisi pandemica, quella più recente, allorché la consapevolezza della centralità del tema del nostro rapporto perverso con gli ecosistemi e con i non-umani avrebbe dovuto essere largamente condivisa, tanto più da dotti, proprio allora qualcuno di loro si lasciava andare ad affermazioni sconcertanti. Alludo al virologo Roberto Burioni, il quale, in tv, si augurava che anche «i nostri amici a quattro zampe» potessero contrarre il Covid-19 perché questo «ci permetterà di avere un notevole vantaggio nella sperimentazione dei vaccini».

Eppure è ben noto che il modello degli esperimenti su non-umani, oltre che eticamente inaccettabile, è ormai così costoso e sorpassato da rendere assai improbabile la realizzazione di farmaci e vaccini efficaci. Tutto ciò non riguarda solo il destino dei non-umani. Un’ideologia e pratiche analoghe guidano la sacrificabilità selettiva degli umani, i più vulnerabili, esposti, precari e/o alterizzati, come abbiamo constatato anche nel corso della recente pandemia.

È da quasi un trentennio, cioè da quando ho iniziato a integrare nelle mie ricerche, conseguentemente in saggi e articoli, quella che viene detta impropriamente “la questione animale” (o dei “non-umani”), che il pensiero e le opere di Philippe Descola mi sono diventati indispensabili, tanto da citarlo assai frequentemente: estremamente utili, l’uno e le altre, a mostrare – come egli stesso scrive in Oltre natura e cultura (Raffaello Cortina, 2021) – che la “contrapposizione tra natura e cultura non possiede il carattere universale che siamo soliti attribuirle”.

“Per portare a buon fine tale impresa” – egli aggiungeva – è necessario che la stessa “antropologia si liberi del proprio dualismo costitutivo e diventi pienamente monista”.

Tra l’altro, è anche grazie alle sue ricerche e al suo pensiero che ho trovato il coraggio di condurre una più che decennale ricerca di campo a Essaouira: una cittadina del Sud-Ovest del Marocco, esemplare per la sua storia di mixité, in particolare per la lunga coabitazione tra arabo-musulmani ed ebrei, per non dire di altre minoranze, ma anche per la densa, profonda convivenza tra umani e alcune categorie di non-umani.

La mia è una ricerca – come dicevo – ispirata da quella che oggi viene detta, un po’ impropriamente, “etnografia multispecie”, che poi, nel mio caso, si è concretizzata in un saggio, pubblicato da Dedalo nel 2016: La città dei gatti. Antropologia animalista di Essaouira.

In tale saggio assume un ruolo rilevante il tema della convivialità interspecifica: con gatti, gabbiani e perfino cani. Dico “perfino” perché per lungo tempo questi ultimi sono stati considerati, da parte musulmana, come esseri impuri, com’è ben noto. Va precisato, tuttavia, che una tale distinzione fra animali puri e impuri non è affatto peculiare del solo mondo musulmano. E comunque attualmente, a Essaouira, in particolare, anche i cani sono accolti, protetti e integrati nel mondo degli umani.

V’è un altro aspetto che conviene sottolineare: a Essaouira a prendersi cura di animali liberi quali gabbiani, gatti e perfino cani sono anche, se non soprattutto, le persone più diseredate, le quali praticano una comune etica della compassione e della solidarietà, estesa oltre la “specie” umana. Esse, concedendosi il “lusso” del senso e del dono, dellʼaffettività e della cura più gratuite, si sottraggono alla ragione economica e utilitaria che le ha condannate. E in tal modo spezzano la catena dell’obbligata dipendenza dal bisogno a cui la società le ha legate e le immagina schiave.

Ancora a proposito della convivialità interspecifica, conviene aggiungere che essa è stata per me non solo oggetto di osservazione, ma anche e soprattutto vissuto personale relazionale: diretto e duraturo. Infatti, secondo la mia esperienza di campo, l’agency animale, se non permette di collocare il non-umano nel ruolo classico dell’“informatore”, lo posiziona comunque in quello di attore e testimone di un contesto che favorisce incontri, relazioni, perfino lunghe amicizie transpecifiche. Tutto ciò ho potuto sperimentarlo personalmente, soprattutto con alcuni gabbiani e gatti, ai quali da non pochi anni mi lega un’amicizia fedele e costante.

Per concludere con l’ennesima citazione da Descola: “Molte delle cosiddette società primitive (…) non hanno mai pensato che le frontiere dell’umanità si arrestassero alle porte della specie umana, né esitano a invitare nell’insieme della vita sociale le piante più modeste, gli animali più insignificanti”.

da qui

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