Alessandro Coppola intervista Giorgio De Ambrogio
Nei grandi
centri urbani, la finanziarizzazione dell’immobiliare e la turistificazione
hanno separato la disponibilità di alloggi dalla domanda reale di chi vorrebbe
abitarci. Non si parla più di situazioni di fragilità estrema: sempre più
persone non trovano case dignitose a meno che non vi consacrino una componente
insostenibile del loro reddito. Eppure, in Italia si parla solo di superbonus,
il dibattito sulla casa si esaurisce nei confini della proprietà privata e di
casa pubblica e sociale non parla (quasi) più nessuno.
In una
recente indagine della Banca d’Italia si legge che le agevolazioni per la casa
(ovvero l’universo dei bonus), hanno rappresentato nel 2022 circa 36 miliardi
di euro, più del quadruplo di quanto speso nello stesso periodo per le
politiche sociali e familiari (8 mld). Tuttavia, l’Italia è tra i paesi europei
dove la spesa per la casa pubblica e sociale è più bassa (6€ pro capite contro
una media UE di 146€), le case pubbliche sono il 4% del totale (contro una
media UE del 20%) e riescono a intercettare solo il 5% delle domande in
graduatoria, lasciando fuori circa 1,4 milioni di persone. Mentre le politiche
abitative sono in caduta libera, la situazione italiana è drammatica – se
paragonata agli altri paesi europei – sotto tutti gli aspetti del bisogno abitativo.
Con un
discorso pubblico desertificato e delle politiche ridotte ai minimi termini,
c’è un bisogno di azione collettiva in grado di costruire rivendicazioni,
fornire risposte di mutuo aiuto, ripoliticizzare un tema di welfare che rischia
di scomparire dall’orizzonte delle politiche sociali.
Alessandro
Coppola, professore associato al Politecnico di Milano, ci racconta le sue
prospettive sulla questione abitativa in Italia.
In che modo
oggi si manifesta la precarietà abitativa che interessa sempre più persone?
Quando
parliamo di precarietà o vulnerabilità abitativa facciamo riferimento al
rischio di non avere accesso a un’abitazione dignitosa o di non potersela più
permettere a un certo punto della vita. Per spiegare come questa si presenta
oggi nei nostri territori bisogna combinare prevalentemente due livelli, uno
socio-demografico e uno spaziale.
Da un lato,
la precarietà abitativa è prodotta da una dinamica strutturale che ha a che
fare con il cambiamento della relazione tra corsi di vita e lavoro. Per tanti
decenni la precarietà abitativa si concentrava in una classe di soggetti
abbastanza omogenea da un punto di vista socioeconomico. Oggi è un problema che
riguarda sempre più persone, in fasi diverse della loro vita e con necessità
diverse. Pensiamo a una donna anziana che si ritrova vedova con una pensione
modesta e deve affrontare da sola il costo dell’affitto, a una persona single
con un contratto di lavoro precario, a una madre o a un padre single con figli
a carico. Questi soggetti non vivono situazioni che si direbbero di grande
marginalità, le considereremmo parte del ceto medio se non fosse che la
mancanza di una casa accessibile le conduce – di fatto – in una situazione di
povertà e di insicurezza esistenziale. A queste si deve aggiungere una
categoria di persone escluse dal mercato formale. Si tratta soprattutto dei
migranti, che si ritrovano spesso a vivere in condizioni di sfruttamento,
precarietà e marginalità estrema e che non hanno i titoli formali e i risparmi
necessari a entrare nel mercato legale. Ovviamente questo discorso è
estendibile a gruppi sociali nativi, specie nel Mezzogiorno.
Dall’altro
lato, è importante sottolineare che queste dinamiche si presentano in una
specifica classe di territori ossia le grandi aree urbane del paese. Qui, negli
ultimi quindici anni, il peso della componente immobiliare nei processi di
accumulazione urbana è molto aumentato. Rispondendo sempre di più ad una logica
di finanziarizzazione, la casa ha smesso di intercettare la domanda reale di
uso degli abitanti e il risultato è evidente a chiunque viva in queste città:
le case sono troppo care non solo per i ceti popolari, ma anche per i ceti medi
che magari si illudono di poter guadagnare da questi stessi processi di
finanziarizzazione ma che sempre più spesso ne rimangono delusi.
In questi
territori ci sono figure – come le persone straniere– che faticano a trovare un
alloggio anche quando hanno la capacità di pagare l’affitto, perché il
proprietario non li vuole. Questi casi interrogano sulla capacità di governare
la piccola proprietà. Se chi governa i territori è sostenuto da un elettorato
di piccoli proprietari, è difficile costruire una politica pubblica che cerchi
di mitigarne le disfunzioni.
Certo,
un’offerta nelle mani di piccoli proprietari conduce a una situazione in cui il
controllo delle discriminazioni di fatto sfugge alle possibilità dello Stato e
la stessa regolazione degli affitti diventa particolarmente difficile ed
onerosa. L’insuccesso delle politiche di calmieramento volontario dell’affitto
da parte dei proprietari – come il canone concordato – è sintomo del fatto che
il problema è anche politico-culturale: il piccolo proprietario ha
l’aspettativa di massimizzare l’estrazione della rendita e la sicurezza della
remunerazione a livelli che non sono compatibili con i fini sociali che l’uso
della proprietà deve comunque garantire. Questa aspettativa gli viene
confermata dall’attore pubblico, che ha integralmente liberalizzato il mercato
dell’affitto, seguendo una evoluzione più generale che ha caratterizzato gli
ultimi venti/trent’anni. In un contesto di stagnazione e di aspettative sociali
declinanti, la classe politica ha sregolato estesamente tutti i settori dai
quali era possibile estrarre rendite: dal mercato dell’affitto al commercio
urbano, dagli usi del suolo pubblico alla produzione edilizia la spinta è stata
quella di illudere vasti gruppi sociali che tutti potessere accedere a una
generosa estrazione di rendita.
Se pensiamo
a Milano, una parte molto rilevante dell’elettorato ha una casa di proprietà.
Ma non solo. Al di là del qualificare chi vota, è importante qualificare chi
non ne ha il diritto. Ci sono tutta una serie di soggetti “domiciliati” in
città che non votano: immigrati, studenti, giovani lavoratori. Ovviamente si
tratta di una popolazione che vive maggiormente in affitto e risulta invisibile
nell’arena elettorale. Dal punto di vista del governo della città, non solo la
tutela della rendita delle piccole proprietà finisce per essere un principio
inscalfibile, ma si pone un problema di rappresentanza che è rilevante se ci
chiediamo il perché dell’assenza di politicizzazione della questione abitativa.
Pensi che
stiamo andando verso un futuro in cui la casa pubblica e sociale non sarà più
considerata una prestazione sociale e uscirà dall’orizzonte del welfare?
Se guardiamo
all’Italia rispetto ai paesi europei più avanzati, la casa pubblica è sempre
stata una politica residuale. Certo, negli ultimi vent’anni lo è diventata
ancora di più. E nella situazione che viviamo oggi ci sono tante cose che
autorizzerebbero un forte pessimismo.
La prima è
che il ciclo politico sembra andare verso il ripetersi di discorsi sulla casa
già visti e sentiti: l’intoccabilità della casa di proprietà, il doverla
proteggere dalla fiscalità e da altre politiche pubbliche, specie di
regolazione del mercato. Non vedo segnali di un cambio di rotta, perché nessuna
voce mette in discussione gli assunti che sostengono questi discorsi.
Il secondo
motivo di pessimismo è che – diversamente da altre fasi della nostra storia –
oggi le contraddizioni di questo modello arrivano a politicizzarsi in un numero
limitato di territori, che essenzialmente sono le grandi regioni urbane del
centro-nord. Problemi abitativi riguardano anche le aree urbane in contrazione
e aree non urbane, ma i gruppi sociali che ne sono colpiti risentono di una
invisibilità ancora maggiore di quelli che ne sono colpiti nelle grandi aree
urbane. Siamo in un contesto molto frammentato che rende difficile affermare
forme di rivendicazione trasversali, anche se l’acuirsi di queste
contraddizioni porta in queste ultimi a forme di azione collettiva rilevanti e
anche innovative.
La terza
ragione riguarda il fattore sociodemografico. Le giovani generazioni
erediteranno un patrimonio immobiliare vasto come mai prima e spesso collocato
in territori che si sono svalutati. È molto difficile immaginare dove questa
dinamica porterà, ma è interessante rilevarla. Che tipo di contraddizioni
aprirà? Come si articoleranno sul territorio? Aprirà qualche contraddizione nel
discorso sulla desiderabilità universale della casa in proprietà?
Ci sono
delle ragioni per essere ottimisti? Ascoltandoti, il fatto che l’abitare sia
sempre più insostenibile può portare a forme nuove di mobilitazione…
Il motivo
per cui possiamo essere anche ottimisti è che alcuni processi stanno arrivando
a un punto di rottura. In alcune aree metropolitane questi sono visibili nella
loro insostenibilità e iniziano a produrre svantaggi per alcuni gruppi sociali
che non riescono più a tollerarli. Con intensità diverse, la questione casa è
politicizzata ovunque, ma in alcune città lo è in modo nuovo perché la
pressione è troppo alta e le contraddizioni sempre più acute.
Ovviamente
la situazione è molto diversa da quella degli anni più forti delle mobilitazioni
per la casa. Negli anni 60 e 70 dello scorso secolo l’abitare divenne un
oggetto di grande mobilitazione e si diffuse fra le classi popolari e in tutto
il paese. Il paese e le città crescevano e la casa era una rivendicazione
diffusa, ed era una delle contraddizioni più evidenti in un paese che
progrediva nella sua struttura produttiva ma che era frenato da un regime
retrivo di regolazione dei suoli e della produzione edilizia. Oggi si è persa
quell’omogeneità sociale, le mobilitazioni non sono altrettanto ampie. In
questa frammentazione è difficile costruire un discorso pubblico alternativo,
le rivendicazioni non possono essere le stesse tra una metropoli del nord e una
del mezzogiorno e tantomeno fra un’area urbana dinamica ed un’area interna in contrazione.
La questione
si politicizza là dove il problema si pone anche per una parte di ceti medi
urbani, i quali hanno maggiori mezzi per farsi sentire: residenti di quartieri
un tempo popolari investiti dalla gentrificazione, studenti e giovani lavoratori
fuorisede sono gruppi sociali che subiscono le conseguenze del mercato e in
alcuni casi passano all’azione. Potremmo dire che ci sono ragioni per essere
pessimisti perché soltanto in una classe specifica di territori ci può essere
l’alleanza tra gruppi sociali che è necessaria per porre questo tema, ma un
motivo di ottimismo sta nel rilevare che una serie di processi si sono
radicalizzati talmente tanto da avvicinarci ad un punto dove è davvero
difficile ignorarli.
In alcuni
contesti ci sono esperienze di mobilitazione rilevanti. A Venezia, Alta Tensione Abitativa e l’osservatorio OCIO hanno costruito una
piattaforma partecipata di rivendicazione, anche capace di maneggiare la
dimensione tecnica delle politiche. A Roma, Nonna Roma ha lanciato un’iniziativa per
la salvaguardia del Reddito di Cittadinanza che integra l’abitare all’interno
di un ventaglio più ampio di rivendicazioni mutualistiche. È interessante
vedere come un certo tema che si esprime con livelli di violenza diversi a
seconda dei territori (la turistificazione a Venezia, la finanziarizzazione
dell’immobiliare a Milano, l’abitare studentesco a Bologna) costruisca
esperienze di mobilitazione a cui si può guardare anche altrove, dove quei
fenomeni esistono ma sono meno aspri…
Le
esperienze che citi sono rilevanti perché affrontano il tema abitativo partendo
da una dinamica particolarmente forte in un certo contesto, che pone un tema di
vivibilità complessiva della città, e sono delle porte di ingresso per
articolare il tema della casa a partire da questa specifica questione e in una
forma più ampia. La turistificazione è un esempio lampante in questo senso.
Un’altra
domanda riguarda la relazione tra l’azione sociale e gli strumenti che ci sono
nelle politiche locali. Oggi esiste un’offerta di servizi abitativi che
permette di intervenire a vario titolo sulla precarietà abitativa. Anche se
sono strutturalmente insufficienti, questi strumenti esistono, tuttavia sono
quasi sconosciuti e completamente assenti dal dibattito. Come relazionarsi a
questi strumenti, dal punto di vista dei movimenti?
Oggi c’è un
problema di orizzonte. L’Italia – senza eguali in Europa – ha spopolato
l’orizzonte delle possibilità per le politiche pubbliche sulla casa in una
misura con senza pochi eguali in Europa, desertificando anche l’interesse
politico e scientifico per questo tema. Questa questione pone il tema del
rapporto tra il sapere esperto e i movimenti sociali. Soprattutto sulla casa,
oggi non possiamo immaginare che i movimenti non abbiano una forte dimensione
di competenza. È un problema rilevante ma anche relativamente facile da
risolvere, come raccontano le esperienze che citavamo prima. Siamo in una fase
in cui c’è tanto sapere esperto, che è anche incline a coinvolgersi attivamente
in alcuni movimenti e spesso lo sta già facendo. La questione è costruire
interlocuzioni con le poche politiche pubbliche esistenti – anche conflittuali
– che siano in grado di agire anche su un piano di azione sociale esperta e
competente.
Un’ultima
domanda riguarda il dibattito pubblico. Abbiamo detto che sempre più persone
oggi sono a “rischio di scivolamento” verso situazioni di disagio sociale.
Questo non riguarda solo la casa, ma è trasversale a tutti i temi del welfare.
Tuttavia, mentre per alcuni temi – penso a povertà e lavoro – esiste un
dibattito nazionale ampio, quello sulla casa è molto timido, perché?
Oggi il
dibattito sulla casa non c’è. Per esserci dovrebbe coinvolgere alcuni media
rilevanti, alcuni esperti che diventino visibili anche al di fuori della
cerchia degli esperti. Ad esempio, sul reddito di cittadinanza è successo: si è
posto un tema e si sono polarizzate delle posizioni politiche, che opponevano
due prospettive culturali e due approcci di policy. Non c’è oggi in campo una
voce che dice che si debba invertire la rotta sulla casa.
Il paragone
con la lotta alla povertà apre una domanda rilevante. Come è accaduto che la
povertà è diventata un oggetto politico nel nostro paese? Perché non è successo
sulla casa? Sicuramente interrogarsi su questa vicenda e sulle sue determinanti
è centrale se l’orizzonte è quello di ripoliticizzare la questione della casa
in Italia.
Rileggendo
l’intervista ad Alessandro Coppola mi accorgo che vorrei fargli un’altra
domanda, chiedergli come ci si oppone a questo processo di desertificazione.
Ripercorro la nostra chiacchierata e mi rendo conto che la risposta si compone
pezzo per pezzo: sostenendo i movimenti che nascono nei territori più duramente
colpiti dalla crisi abitativa, apprendendo dalla loro capacità di costruire
rivendicazioni radicali e capaci di intervenire anche sul piano delle
politiche, parlando di diritto alla casa per quello che è: una questione
politica che ha bisogno di discorsi politici per non sparire.
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