venerdì 9 giugno 2023

Lettere dal Sahel VI - Mauro Armanino

  

La prima volta all’hotel Bravia di Niamey

Niamey, 30 aprile 2023. Visto finora solo dall’esterno, l’hotel Bravia appare come una fortezza cintata nel quartiere ‘plateau’ di Niamey. È il numero tre dei 18 hotel di Niamey, cresciuti come funghi durante il regime ‘socialista’ del precedente Presidente della Repubblica. Assieme a nuove arterie che collegano con il rinnovato aeroporto internazionale, gli hotel di Niamey si vogliono come luogo di incontri, sessioni, dibattiti e approdo per organismi onusiani, africani e Ong internazionali. Il sito dell’hotel ricorda che il prezzo di una camera del Bravia per un giorno è di 175 000 franchi locali, cioè 266 euro. Meno comunque del più noto ‘Radisson Blu’ il cui prezzo per camera è di 190 000 franchi per notte. I proprietari sono indiani e la sede del gruppo Bravia, che possiede anche le agenzie di viaggio Satguru, si trova a Dubai. Varie cucine, piscina, sale di incontri e atrio monumentale climatizzato.

L’altro Niger, quello fittizio, globalizzato, da mercato africano libero e soprattutto per la classe transnazionale appare nel suo splendore. Poi, giusto accanto, c’è l’altra Niamey.

Ed è nel grande salone dell’hotel Bravia che, per la prima volta c’è stato l’incontro con Mariam, giornalista del quotidiano del Burkina Faso Sidwaya, venuta per una sessione di formazione e scambio. Sidwaya, nella lingua Moré, significa che ‘la verità è arrivata’...e per Mariam, da tempo ormai, la verità è il nome proprio che le donne hanno dato alle sue parole. Ha ricevuto il prestigioso premio Bayeux nel 2022, assegnato dal 1994 ai giornalisti che si distinguono nell’operare in condizioni particolarmente difficili il loro mestiere. Mariam parla delle donne sfollate, rifugiate, abbandonate, usate e poi gettate al pubblico disprezzo nel Paese che Thomas Sankara, il capitano rivoluzionario, aveva cercato di rendere libere. La sua serie di reportage portava come titolo: ‘Asse Dablo-Kaya: la strada dell’inferno delle donne sfollate’. Con sensibilità, tatto e prossimità tutta femminile, Mariam ha la straordinaria capacità di avvicinare le donne vittime di stupro e di coloro che, per condizioni di vita nella solitudine, sono schiave della prostituzione loro imposta.

I militari italiani, tra gli altri, sono ospiti dell’hotel, forse con sconto comitiva e comunque in un contesto nel quale il salario minimo garantito mensile, alla vigilia della festa del primo maggio, è di 30 mila franchi e cioè 45 euro per un lavoro di 40 ore. Gli impiegati dell’amministrazione pubblica e dell’insegnamento sono privilegiati ma raramente la loro mensilità arriva alla tariffa di un giorno passato all’hotel Bravia. Mariam termina oggi il soggiorno all’hotel e ritorna nel suo Paese, in preda, ormai da anni, a ricorrenti attacchi dei Gruppi Armati Terroristi che hanno seminato morte e distruzione dove hanno operato. L’unica arma che possiede è la scrittura e, anche grazie a lei, la verità è venuta per tante sue sorelle, donne come lei, che tramite le sue parole sono uscite dall’imposto silenzio della società sulla loro sorte. Sì, Mariam prova che solo le donne salveranno l’Africa e la stessa verità.

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Noi, nel nostro piccolo, dal Sahel

Niamey, 7 maggio 2023. Ce la caviamo malgrado tutto quello che accade nel mondo. Abbiamo i militari stranieri che formano i nostri soldati alla guerra asimmetrica contro i Gruppi Armati Terroristi sostenuti da variegate ideologie religioso-economiche nel mercato dell’oro e altri metalli preziosi. Tra questi ultimi si annoverano le armi che, come il denaro, non hanno odore. In più assistiamo alle banali e quotidiane menzogne dei comunicati degli Stati Maggiori delle Armate. Nel nostro piccolo accogliamo militari francesi (2.400 dell’operazione Barkhane, ‘duna mobile del deserto’), l’insieme della forza europea Takouba (900 militari per la ‘spada tuareg’), americani, tedeschi, italiani e quant’altro. Tutti al servizio del Paese e del popolo, nella formazione e, naturalmente, sotto comando dello stato nigerino. Abbiamo persino una nuova cappella, dedicata al santo papa Giovanni Paolo secondo, inaugurata in pompa qualche giorno fa nella base militare italiana di Niamey, presso l’aeroporto civile Internazionale. Avere Dio dalla propria parte è una garanzia di successo finale.

Abbiamo milioni di persone che soffrono di endemiche carestie che gli attacchi ‘djihadisti’ non fanno che rendere più gravi e acute. Sul nostro patrio suolo accogliamo mezzo milione di persone tra rifugiati e sfollati interni e, da Paese economicamente tra i più poveri del mondo, siamo terra di passaggio e di sperimentazione politica per le frontiere esterne dell’Europa. Il risultato non si è fatto attendere perché, tra espulsione dei migranti dall’Algeria, campi di detenzione in Libia, guardie costiere formate e finanziate dall’Europa, il razzismo dei Paesi maghrebini e la congiuntura economica, migliaia di migranti sono ‘parcheggiati’ o liberamente detenuti in attesa del ritorno assistito al Paese d’origine. Nel frattempo si muore nel mare, nel deserto, nei campi di sterminio e soprattutto nell’indifferenza delle coscienze e nell’invisibilità dei volti e dei nomi. Le agenzie delle Nazioni Unite per i rifugiati, i migranti, le donne, i bambini, i traffici illeciti di beni e persone fanno a volte il possibile e sono spesso più parte del problema che della soluzione. Ambulanze del sistema che perpetua se stesso nell’iniquo ‘apartheid’ del mondo.

Abbiamo festeggiato col consueto rito propiziatorio il primo maggio dei lavoratori che sopravvivono al quotidiano e coi mendicanti, dei quali il Paese è diventato uno dei principali esportatori nella regione senza colpo ferire e nell’assoluta complicità delle autorità costituite. Tramite il nostro Presidente della Repubblica partecipiamo all’incoronazione del nuovo monarca del Regno Unito perchè non ci facciamo scippare nulla di importante nella diplomazia globale. Perché, nel nostro piccolo, siamo il più giovane Paese del mondo e, in fondo, non ci priviamo di nulla di ciò che oggi può rendere felice un popolo. Manca l’acqua corrente per buona parte dei cittadini, durante la stagione torrida si assiste alle consuete interruzioni nell’erogazione dell’elettricità, i cavi del net sono volentieri tagliati da una nave, un camion o un traliccio che cade. Meglio non ammalarsi che avventurarsi negli ospedali pubblici dove è raro che funzionino gli strumenti o le cliniche private troppo onerose per il cittadino comune. Nel nostro piccolo non ci manca quasi nulla per vivere con dignità. Sfilano in città migliaia di taxi che sostituiscono i mezzi pubblici inesistenti, arricchiti da nuovi tricicli che sfidano quotidianamente le leggi della strada e dell’equilibrio tra passeggeri e carichi di mercanzie.

Soprattutto ci accompagna nostra signora la sabbia che, assieme al vento, generano la polvere che tutto avvolge e poi carezza i sogni di un Paese differente.

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Salomone è arrivato a Niamey

Niamey, 14 maggio 2023. La storia e la geografia hanno fatto la vita politica di Solomon alias Souleymane. Nome stampato sul biglietto del bus della nota compagnia ‘Rimbo’ di Niamey. Autista di ‘Caterpillar’ era partito dalla nativa Liberia nel 2018 pensando di trovare futuro e soldi nel Sudan. Per raggiungerlo attraversa Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Camerun e il Ciad del figlio del dittatore Idriss Deby. Dopo qualche mese trova lavoro nel Darfur e poi nella capitale Khartum. La guerra che si reinstalla nel paese, le milizie e le minacce lo spingono ad un viaggio di ritorno complicato. Nel frattempo manda quanto ha guadagnato al Paese dove, nella capitale Monrovia, è rimasta parte della sua famiglia. Fa comprare il terreno e inizia a far costruire la sua seconda casa. Intanto con gli anni, il figlio Jacob e sua madre, dalla quale si è separato, partono negli Stati Uniti. Nel Sudan è obbligato a mettere la sua croce in tasca onde evitare problemi e discriminazioni.

Solomon conosce la guerra per averla vissuta, per anni, nel suo Paese. Sa per esperienza che le guerre non finiscono mai e allora, rischiando, inizia il viaggio a ritroso. La stessa geografia di prima arricchita dalla presenza di gruppi armati per i quali solo conta il profitto, esattamente come per l’economia globale. La capitale del Ciad, il Camerun, la Nigeria e infine Cotonou, la capitale economica del confinante Benin. Colui che lo consiglia conosce il Niger e in particolare Niamey. Lo informa che l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni ha per missione di aiutare il rimpatrio dei migranti con una eventuale somma per reinstallarsi nel Paese di origine. Per questo Solomon raggiunge la capitale Niamey e scopre che l’Istituzione citata, per vari motivi, ha da tempo congelato i ritorni ‘volontari’ al Paese natale. Non nasconde il disappunto per la scoperta e, forte dei suoi 49 anni di età, assume questa nuova sfida con sofferta saggezza.

Si ritrova a Niamey col biglietto del bus, un passaporto scaduto, la borsa piena di nulla e il figlio Jacob negli Stati Uniti come buona parte dei liberiani. Autista provetto di ‘caterpillar’ deve trovarsi una casa e, nei limiti del possibile, il mezzo per sbarcare il lunario nell’attesa che qualche provvidenziale aiuto lo faccia tornare in Liberia. A Monrovia, la capitale, possiede due case e dei parenti che le abitano con cura. Ha imparato a memoria la geografia e, per lui, le frontiere non sono altro che ipotesi di lavoro che in nulla incidono sulle sue scelte. Col passaporto scaduto e nessuna ambasciata in zona dovrà fare attenzione a non commettere errori che lo rendano bersaglio delle forze dell’ordine. Forse, attraverso Jacob suo figlio, la promessa della discendenza numerosa ‘come la sabbia del mare’ si potrà realizzare, un giorno, in Liberia.

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Lettera ad un Paese senza qualità

Niamey, 21 maggio 2023. Esserne rimasto a lungo lontano avrebbe potuto trasformare la mia lontananza in nostalgia. Forse è accaduto all’inizio, dopo il primo soggiorno in Costa d’Avorio e, gradualmente meno, negli altri. C’è qualcosa che ci ha cambiati entrambi, il Paese e chi scrive la presente lettera a chi ha voglia e tempo di ‘aprirsi’ a sua volta. Ad ogni ritorno dall’Africa Occidentale al Paese e ora, da questa riva chiamata Sahel, si fa strada un indefinibile malessere che rende i miei soggiorni quasi ‘clandestini’. Dev’esserci accaduto qualcosa che ha forse radici lontane ma che, con l’accelerazione del tempo, delle parole e dello spazio ha profondamente inciso sul nostro modo di abitare il mondo. L’uomo senza qualità, romanzo incompiuto dello scrittore austriaco Robert Musil negli anni Trenta del ‘secolo breve’, ha ispirato il titolo del presente scritto. Una sorta di meditazione che vorrebbe in realtà interrogare chi, nella società italiana assume, per scelta o per statuto, un ruolo qualsiasi di ‘autorità’, ossia di responsabilità, nel pensiero e nella prassi quotidiana.

Un’amica scriveva che noi non siamo altro che ‘date ambulanti’ e, detto in modo quasi brutale, non si può non riconoscere nell’affermazione una parte cospicua di verità. Date, certo, gli anniversari, le feste nazionali che caratterizzano l’identità di popolo e poi quelle di famiglia, più personali. Date e avvenimenti camminano assieme a storie cha mai sono lineari e univoche. Per rimanere nel citato secolo breve, così definito dallo storico inglese Eric J. Hobsbawn, il nostro Paese ha conosciuto, ancora nella monarchia, le conquiste coloniali, il fascismo e le resistenze a quest’ultimo. La Costituzione della Repubblica, frutto delle variegate ‘anime’ delle resistenze, il ritorno del movimento operaio e sindacale, gli ‘anni di piombo ’, il ‘riflusso’ e poi la straordinaria mutazione ‘antropologica’ che, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini aveva lucidamente intravisto. Il Paese si trova in questo processo, da molti analizzato con maggiore acutezza che il sottoscritto, presente e assente da anni dal quotidiano cammino di costruzione della società che mi appare, appunto, senza qualità.

Il centenario della nascita di don Lorenzo Milani, giustamente ricordato come uno dei ‘maestri’ alternativi del nostro tempo, permette di rimettere a nuovo alcune idee, concetti e scelte. Assieme a Giorgio la Pira, Giuseppe Dossetti, Danilo Dolci, don Tonino Bello, e molti altri, avrebbero potuto dettare cammini diversi e più fedeli allo spirito e alla lettera della Costituzione della Repubblica. Un Paese, tra l’altro, marcato dalla presenza capillare della Chiesa Cattolica e da un patrimonio di matrice contadina e operaia ricco e mistificato dal potere. Una Presenza che avrebbe potuto e dovuto illuminare e operare ben altre scelte che non fossero il matrimonio con il capitalismo, la subalternità imposta e accettata alle politiche degli Stati Uniti e l’opzione guerrafondaia che continua a imperversare sotto tutti i regimi e governi. L’Italia continua a produrre e vendere armi, ad ospitare basi militari (alcune con testate nucleari rinnovate), si impegna a sostenere una guerra che non potrà non coinvolgere direttamente e dolorosamente l’Europa e, ciliegina sulla torta, si impegna in varie ‘operazioni di pace’ all’estero. Come ben ricordava l’amico Manlio Dinucci e altri con lui, il nostro Paese, alla faccia dei ‘migranti’, spende per gli armamenti circa 80 milioni di euro al giorno.

Le nuove missioni per l’anno 2023, riporta il sito Analisi Difesa, riguardano la partecipazione di personale militare alle seguenti missioni di supporto, consulenza e addestramento alle forze locali:

·         European Union Military Assistance Mission in Ucraina (EUMAM Ucraina) – supporto al riequipaggiamento ed addestramento delle forze ucraine

·         European Union Border Assistance in Libya (EUBAM Libia) – supporto al controllo dei confini libici contro i traffici illeciti

·         European Union Military Partnership Mission in Niger (EUMPM Niger) – supporto alle forze nigerine impegnate contro le milizie jihadiste

·         missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Burkina Faso – supporto alle forze del Burkina Faso impegnate contro le milizie jihadiste

Dunque, è proprio l’Africa del Nord e l’Africa Occidentale, dove chi scrive ha passato trent’anni della sua vita, e avendo scelto, tra l’altro, il volontariato internazionale alternativo al servizio militare. Al nostro Paese senza qualità non è l’Africa dei popoli che interessa quanto le geo strategie sottese a interessi, profitti e manipolazioni armate. Nei Paesi interessati alle missioni i militari stranieri sono, lo posso affermare, appena sopportati dalle società civili. Nessuna di queste missioni, ricorderebbe il citato don Milani, sarebbe in accordo con lo spirito e la lettera della Costituzione italiana che, all’articolo 11 ribadisce che ...

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

In tutti questi anni il silenzio, complice nella quasi totalità delle autorità ecclesiastiche, dei politici di matrice cristiana, socialista e comunista, hanno reso possibile il disfacimento del tessuto costituzionale, in realtà mai applicato in tutti questi anni. La frammentazione, l’isolamento e la gestione politica di governo grazie al ‘caos’, come ricorda il filosofo francese Lucien Cerise in un libro recente, evidenzia come il Paese ha interpretato tutti questi anni (terrorismo, emergenza economica, totalitarismo sanitario e la guerra in Ucraina...). In realtà, quanto ci è accaduto, non è che la conseguenza di una duplice dimissione, quella dello spirito e quella della sovranità. Lo spirito o anima, anzitutto perché come singoli e come società abbiamo accettato di rimuovere la bellezza, la verità e il bene dal nostro quotidiano ‘abitare’ il mondo. Ci si è lasciati comprare dalla merce come orizzonte, la società di mercato per il consumo come stile e la vita ad una sola dimensione come patria. Ci siamo venduti a vil prezzo come se, tutti, non fossimo, in questa terra, come ‘stranieri di passaggio’ e dunque compagni di viaggio e cioè di utopia. Questa è la prima dimissione che ha liquidato la dimensione simbolica e poetica della dignità umana.

La seconda e non meno importante dimissione è stata quella della sovranità. Piero Calamandrei sosteneva che ‘la scuola è il luogo dove si compie il miracolo di trasformare i sudditi in cittadini’...Don Milani con la sua ‘Lettera ad una professoressa’ scritta con gli alunni di Barbiana, ne sono una delle testimonianze più inequivocabili. In tutti questi anni abbiamo vissuto da sudditi, schiavi sottomessi ai burattinai di turno che, tra menzogne, paura e ricatti hanno ridotto la sovranità ad un vuoto contenitore da gettare al macero. Poche, in questi decenni, sono state le voci capaci di aggregare forme di resistenza reale al sistema di dominazione che tutto fagocita e riduce la democrazia, intesa come partecipazione, in un simulacro di politica. La scuola, espressione della politica, sforna solerti funzionari per il sistema dominante. Smarrito il popolo sovrano rimane l’opinione, la politica dei sondaggi e gli interessi di parte. La perdita della sovranità va di pari passo con la perdita del senso del bene comune. La legge della giungla torna riverniciata di fresco e si pavoneggia di inutili diritti individuali atomizzati a servizio del potere del ‘Grande Reset’ di Davos.

Per riprendersi l’anima e la sovranità occorre ripartire dalla verità e cioè dai poveri che di essa sono gli umili testimoni storici. Metterli, con loro, al cuore della politica, dell’economia e della prassi religiosa. Dichiarare apertamente che l’Italia, per fedeltà alla propria Costituzione, disattende gli accordi sulle basi militari statunitensi sul proprio territorio, rinuncia a continuare il vassallaggio agli Stati Uniti, esce puramente e semplicemente dalla Nato, riconverte le industrie belliche in altro utile per la pace, spinge i vescovi e le alte sfere vaticane a liberarsi dal fardello del compromesso che ha ridotto il fattore religioso a puntello del sistema dominante e smette di prodigare armi alla guerra in Ucraina. L’anima e la sovranità sono state confiscate e poi vendute al mercato di chi concepisce la vita e la storia come proprietà privata da mercanteggiare. Sono tenute in cattività per inerzia, dimenticanza e l’effimero della società dello spettacolo epperò, come tutte le catene, possono essere spezzate da un semplice e inatteso no. Ed è proprio da un no alla strategia della morte dell’umano, operata dal sistema di dominazione, che si apre, con un vagito, la speranza perduta e ritrovata.

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Niamey tra sogno, realtà e inganno

Niamey, 28 maggio 2023. Tra sabbia, vento, polvere, nuove strade, aeroporto, hotel e centro per riunioni di buon livello, Niamey è stata classificata al settimo posto nelle destinazioni privilegiate per le conferenze in Africa. La capitale nigerina segue nella classica città come Cape Town, Kigali, Il Cairo, Marrakech, Dakar e Accra e precede, a livello mondiale, città ben più quotate e conosciute. Per esempio Cannes, Nairobi, Porto Alegre, Mumbai o Osaka nel Giappone. Chi ha stilato questa autorevole e, diciamo pure, sorprendente lista, è l’International Congress and Convention Association (ICCA) del 2022. Per una città posta nel cuore del Sahel, zona che la semplice pronuncia del nome popola l’immaginario di insicurezza, violenza e carestie, tutto ciò sembra davvero un sogno. Niamey dunque, attraversata e sedotta dal silenzio del fiume Niger si offre alle parole che, nelle quotidiane conferenze che popolano gli hotel, scorrono con una simile e apparente pigrizia.

La realtà, ostinata com’è, non è poi tanto lontana perché il Niger, secondo l’ultimo indice sullo sviluppo umano pubblicato dalle Nazioni Unite, si pone al terzultimo posto dei 191 Paesi esaminati. Vero, abbiamo lasciato il fanalino di coda per le alterne vicende di Paesi come il Ciad e il Sudan del Sud, persi anch’essi nei meandri della classifica. Per il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, il Pnud, il Niger occupava dunque il 189 posto della scaletta umanitaria nel rapporto di settembre del 2022. La realtà appare in tutta la sua crudezza quando, secondo l’editoriale di un settimanale locale battezzato l’Eclosion, porta come titolo…’La società muore’. Ibrahim Yero, autore dell’articolo citato, parla di banalizzazione del crimine, di insicurezza in tutte le sue forme, compresi i rapimenti, i furti, il commercio e della vendita di droga e armi. L’autore si domanda, infine, come sia stata possibile questa ‘discesa all’inferno di una società così pudica’.

E’ dunque nella messa in relazione tra queste due situazioni, il sogno e la realtà che si trova quanto si può definire l’inganno e cioè la menzogna. In effetti, la scelta dell’ideazione, investimento e costruzione del complesso di hotel e altre strutture adatte a incontri internazionali, operata da ditte straniere, appare come l’immagine del Paese che non c’è. Anzi, ad essere precisi, si dovrebbe dire dei Paesi che non esistono. Da un lato, un’infima porzione di popolo che pensa di far parte della ‘classe transnazionale’, che può viaggiare, incontrarsi, discutere, consumare e poi sparire. Dall’altro le altre classi o porzioni di popolo che, faticosamente, sopravvive al quotidiano nell’informale che costituisce la strategia più comune per arrivare a fine mese. Sui 27 milioni di persone che compongono la popolazione del Niger, oltre il 60 per cento ha meno di 15 anni e la speranza di vita si attesta sui 53 anni. Ingannare la maggior parte del popolo con dei sogni che assomigliano a miraggi non potrà che creare imprevedibili conseguenze sulla società. Quando le disuguaglianze fondano una scelta politica che illude, si corre il rischio che il sogno si trasformi in incubo e la realtà in una ribellione come risposta alla violenza del sistema. In quel giorno tutti i bambini si armeranno di aquiloni per giocare a nascondino nel quartiere degli hotel.

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Identità in esilio a Niamey

Niamey, giugno 2023. Un Paese ricco per gli altri e poi l’ennesimo colpo di stato. La Repubblica Centrafricana, inchiodata nel cuore dell’Africa sub sahariana, continua a tutt’oggi a esportare materie prime e rifugiati. Uno di questi chiamato Hassan, dopo aver perso entrambi i genitori appena quattordicenne, parte in esilio con una conoscente nel Mali. Da questo Paese, in pieno Sahel, domanda e riceve lo statuto di rifugiato in Mauritania. Fattosi sorprendere in una zona aurifera di questo Paese, Hassan, senza nessuna formalità è espulso nel vicino Senegal. Prova, senza alcun risultato, a ottenere lo statuto di rifugiato nella capitale Dakar. La domanda è respinta adducendo il fatto che il giovane, ormai diciottenne, già godeva di protezione umanitaria in un altro Paese. Allora Hassan, senza darsi per vinto, per vie traverse raggiunge il Marocco e, a Casablanca, conosce una signora del posto che gli propone di lavorare nel suo ristorante per stranieri.

Hassan accetta di seguirla in Algeria, nella città di Oran, dove lei gestisce un altro ristorante. Tutto va per il meglio per un paio d’anni finché, per avere i propri documenti aggiornati, viaggia nella capitale Algeri. Mentre si trova in strada per raggiungere l’apposito ufficio delle Nazioni Unite, è arrestato dalla polizia perché senza documenti validi, derubato da tutto quanto portava su di lui e deportato, con altre decine di persone, sino a Tamanrasset. Dopo qualche giorno di soggiorno nell’apposito centro di transito, Hassan è imbarcato, con altri compagni di sventura, nel camion fino alla frontiera col Niger. Migranti, rifugiati, richiedenti asilo, esuli, viaggiatori, commercianti, trafficanti, cercatori d’oro e di sabbia, tutti messi assieme a migliaia e parcheggiati nella città frontaliera di Assamaka, nel Niger. Il tempo di essere registrati dalle autorità e poi ‘consegnati’ all’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, per un rimpatrio ‘volontario’.

Hassan, nato all’alba del nuovo millennio, ne incarna le innumerevole contraddizioni. Dei suoi 23 anni di esistenza una decina sono partiti in esilio cominciando dalla sua patria, più matrigna che madre. Si trova, grazie alla complicità dell’OIM, in un luogo di transito che dovrà abbandonare perché non ha la minima intenzione di tornare al Paese d’origine nel quale nessuno più l’aspetta. Conta di chiedere il riconoscimento come rifugiato a Niamey, cosa altamente improbabile visto che lui era già stato schedato come tale in Mauritania. Non riconosciuto come migrante dall’OIM tenterà di presentare la domanda come richiedente asilo nel Niger, con esigue speranze che la sua domanda sia presa in considerazione. Hassan porta in sé una cartina geografica dove le frontiere e i documenti di identità riconosciuta, nascosta o trasformata a seconda delle circostanze, ridisegna la sua vita. Ormai da anni l’identità di Hassan è in esilio umanitario perché la guerra, prima e i documenti dopo, l’hanno prima creata e poi tradita. Hassan afferma di non voler più tornare al suo Paese natale.

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