Cop 28, grottesca o tragica? - Guido Viale
Erano 97.372 – in rappresentanza di 198 nazioni – i
“delegati”
ufficialmente registrati per partecipare, a Dubai, alla ventottesima COP (Conferenza
delle Parti, in attuazione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici – UNFCCC – varata a Rio de Janeiro nel 1992): tanti
quanti gli abitanti di una media città italiana. E tutti arrivati e ripartiti
in aereo (i VIP su aerei privati: fanno bene al clima) e alloggiati e nutriti
in alberghi che a Dubai non costano meno di 500 euro a notte: a spese,
ovviamente dei rispettivi Stati e aziende di appartenenza. Si tratta di
ministri, sottosegretari, diplomatici, funzionari governativi, esperti,
tecnici, manager, quadri e consulenti aziendali, giornalisti, spie, amanti,
rappresentanti di partiti e di associazioni “embedded” (cioè sostenute da
Governi o aziende), lobbisti: 2.500 solo per il settore “oil and gas”, il
triplo che all’ultima COP. Visti i costi e le prospettive nulle se non
negative dei risultati attesi, molte associazioni non embedded si sono
risparmiate il viaggio a Dubai, a differenza di quanto accadeva nelle COP
precedenti, dove la loro presenza, per contestare la condotta dei rispettivi
governi, era massiccia. A Dubai, d’altronde, le contestazioni non sono gradite.
Si è trattato della ventottesima conferenza convocata
per affrontare la crisi climatica. In tutte le ventisette conferenze
precedenti, con una mobilitazione di delegati da tutto il mondo di consistenza
analoga, questi erano riusciti a discutere del clima per giorni e giorni (in
media 10 e più per COP) senza mai nemmeno nominare – era un tabù – i
combustibili fossili. Cioè, ciò che fin dagli anni ’50 del secolo scorso – ma
anche prima – gli scienziati del clima avevano indicato come principale causa
del progressivo riscaldamento del pianeta Terra, avvertendo che proseguire nel
loro consumo rappresentava una minaccia mortale per il futuro della vita di
tutto il genere umano. Detto in altre parole, tutto quel movimento di
uomini, donne, denaro e proclami, per farli incontrare una volta all’anno a
discutere di clima, era finalizzato a concentrare l’attenzione dell’opinione
pubblica – e non solo quella occidentale; nei paesi del Sud del mondo,
i più colpiti dalla crisi climatica, l’attenzione per il problema è ben
maggiore – sul dito (lo spettacolo delle COP) invece che sulla luna (i
combustibili fossili). Evitando accuratamente di affrontare l’oggetto di cui
avrebbero dovuto occuparsi. Adesso, al ventottesimo giro, i
combustibili fossili sono stati finalmente nominati nel comunicato finale detto,
non so perché, Stocktake: art. 28 D, “transition away from
fossil fuels”, cioè abbandonare (?) i combustibili fossili, senza però
indicare le tappe di questo abbandono, ma solo l’obiettivo finale dello zero
net emissions al 2050, dove, come vedremo, net significa continuare
a usarli se si riesce a compensarne o nasconderne – sottoterra – le emissioni.
Tutto qui? Sì; ma la cosa è stata presentata come una svolta “storica”.
Sembra una barzelletta. Ma nella nostra epoca non c’è
limite al grottesco. Infatti a ospitare COP 28 è stata designata la città di
Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti, uno dei principali produttori e
fornitori mondiali di petrolio e gas; e a presiederla è stato nominato il
principe Sultan Al Jaber, Ceo, cioè amministratore delegato, della Adnoc, la
compagnia di Stato che gestisce le risorse fossili del paese. Come dire portare
l’Avis in casa di Dracula. E per non farsi mancare
niente, a ospitare la prossima COP (la 29) è già stato indicato l’Azerbaigian,
un altro Stato che vive di gas e petrolio. Sono decisioni prese dagli Stati che
controllano l’ONU e c’è da chiedersi se in queste scelte abbia prevalso il
cinismo o l’insipienza delle loro classi di governo; in ogni caso, ha prevalso
la loro miseria. Siamo tutti – noi, la popolazione mondiale – in brutte mani.
E infatti la COP 28 è stata aperta da un intervento di
Al Jaber secondo cui la riduzione delle emissioni di gas di serra per contenere
la crisi climatica non ha basi scientifiche ed è stata chiusa, prima di
approvare per acclamazione lo Stocktake, da una lettera del
presidente dell’Opec+ (il cartello dei principali produttori di petrolio del
mondo) che diffidava i convenuti dal metterei in discussione l’utilizzo
dei combustibili fossili, posizioni poi solo in parte ammorbidite nello Stocktake.
Ma già che erano là a parlare di clima, i grandi produttori e
utilizzatori di fossili ne hanno approfittato, a latere della conferenza, per
fare accordi e siglare contratti: insomma, a trasformare la COP in una
fiera-mercato del fossile.
I risultati si vedono: a fronte del riferimento
“storico” ai fossil fuels lo Stocktake ha
piantato dei paletti per renderlo del tutto inefficace, promuovendo, accanto
all’obiettivo di triplicare le rinnovabili entro il 2030 (ma a molti paesi
mancano i mezzi per farlo e la conferenza è stata parecchio attenta a non
metterne di sostanziali a disposizione dei paesi più poveri o più colpiti dalla
crisi climatica), alcune soluzioni che procrastinano a azzerano l’uscita dai
fossili: il gas naturale, rinominato “combustibile di transizione”,
con tutto l’apparato di impianti (tubi, metaniere, gassificatori e
degassificatori, impianti di termogenerazione, ecc.) che richiedono decenni per
essere ammortizzati; il nucleare (solo il ministro italiano
Tajani ha avuto il coraggio di nominare la fusione, come se l’avesse già in
tasca), in un momento in cui tutti parlano di mini-nucleare (impianti “piccoli”
e diffusi, che moltiplicano rischi, costi e militarizzazione del territorio).
Ma l’unica impresa (Usa) arrivata a rendere operativa la loro costruzione è
appena fallita. Altri impianti sono in costruzione da decenni, mentre quelli
esistenti sono sempre più vecchi e insicuri, moltiplicandone rischi e costi.
D’altronde tutti ormai sanno che il nucleare costa già ora più del gas e delle
rinnovabili; costerà sempre di più e ha, e avrà sempre di più, bisogno di
essere sostenuto, anche economicamente, dagli Stati. E, infine il CCS (Cattura
e sequestro del carbonio), che consiste nel prelevare la CO2 all’uscita dagli
impianti o direttamente in cielo per comprimerla e iniettarla sottoterra o
sotto i mari, in giacimenti di petrolio e gas esauriti, da cui poi potrebbe
fuoriuscire quando meno te lo aspetti. D’altronde anche questa tecnologia
funziona poco, costa carissima: il più grande impianto di CCS del mondo, della
Chevron in Australia, è appena fallito anche lui. Ma sono tutte proposte che
hanno il solo scopo di rendere meno urgente il passaggio alle rinnovabili,
legittimando la prosecuzione del ricorso ai fossili (carbone compreso, il più
pestilenziale, ma anche il più utilizzato).
Così, se andiamo a guardare dietro le quinte delle
risoluzioni storiche di questa COP, nei programmi di investimento dei
principali produttori e utilizzatori di combustibili fossili, scopriamo che,
come sostiene lo Stockolm Environment Institute: “I governi hanno ancora in
programma di produrre più del doppio della quantità di combustibili fossili nel
2030 rispetto a quello che sarebbe compatibile con la limitazione del
riscaldamento climatico a 1,5°C”. Il fatto è, come scrive Mario Tozzi su La
Stampa del 13 dicembre, che “nessuno dei potenti del pianeta Terra
riesce anche solo a immaginare un mondo senza combustibili fossili e se tu non
lo immagini ora, quel mondo non sarà mai possibile”. Dunque, immaginarlo, anche
nei suoi risvolti pratici, paese per paese, città per città, strada per strada,
per poi imporlo ai nostri governanti, tocca a noi.
da qui
Emiri, nucleare e Istituto
Luce - Angelo Tartaglia
Un osservatore situato in una galassia lontana
lontana, ma in grado di assistere in tempo reale alle vicende terrene
troverebbe la situazione irresistibilmente comica.
Riassumiamo: la comunità scientifica del nostro
pianeta segnala in maniera inequivocabile (nel senso scientifico del termine,
con misurazioni effettuate in molti modi diversi da gruppi diversi in luoghi
diversi, con raffinatissimi sistemi di calcolo, con stime delle incertezze e
così via) che il clima è ormai prossimo a un tracollo, ovvero a un brusco
riassestarsi della circolazione atmosferica e marina, nonché del regime e della
violenza delle precipitazioni; i prodromi di questo collasso sono peraltro già
visibili attraverso il manifestarsi a ritmo accelerato dei cosiddetti “eventi
estremi”; danni e sofferenze connessi con questi eventi estremi sono molto
ingenti e si scaricano più drammaticamente sulle popolazioni più fragili (la
stragrande maggioranza dell’umanità). Tutto questo è direttamente connesso col
fatto che l’umanità sta modificando le proprietà fisiche dell’atmosfera con
l’immissione a ritmo accelerato dei cosiddetti gas climalteranti, in
particolare la CO2, che provengono, in grandissima misura, dall’uso
dei combustibili fossili come carbone, petrolio e gas naturale: oggi come oggi
essi coprono l’81% del fabbisogno energetico dell’umanità. Dopo decenni da che
i primi razionalissimi allarmi sono stati lanciati, i governi – e, più in
generale, coloro che hanno potestà di assumere decisioni relative alle
politiche energetiche e all’economia della terra intera – hanno cominciato a
prendere atto e a riunirsi per concordare il percorso da seguire per riprendere
il controllo della situazione e porre fine in primo luogo all’uso di
combustibili fossili e poi, comunque, alle devastazioni ambientali che
comportano pesanti ricadute sull’umanità come tale e su tutta la biosfera. Sono
così nate le Conferenze delle Parti (COP) che anno dopo anno hanno portato alla
redazione di importanti dichiarazioni e liste di buoni propositi, cui non sono
seguite per lo più azioni concrete, tanto è vero che la quantità di CO2 in
atmosfera ha continuato a crescere in maniera accelerata e altrettanto ha fatto
il riscaldamento globale.
Bene. Siamo così arrivati alla COP28, ospitata
negli Emirati Arabi Uniti, a Dubai, uno fra i paesi col più alto consumo di
energia pro capite che deve l’oceano di denaro in cui nuota proprio ai
combustibili fossili. A presiedere la conferenza viene chiamato un signore
(Sultan Ahmed Al Jaber) che è anche a capo della compagnia petrolifera
nazionale di Abu Dabi e che in un’intervista dichiara che non ci sono
evidenze scientifiche che il mutamento climatico in atto si fermerebbe
abbandonando i combustibili fossili e che facendo a meno del petrolio
torneremmo all’epoca delle caverne. Per altro la città di Dubai (come altre
tra Arabia Saudita ed Emirati) è uno splendido esempio dell’opposto di quel che
bisognerebbe fare per gestire in modo concreto ed equo la situazione:
l’esaltazione dello spreco, del lusso e delle differenze è in ogni angolo.
Chissà se l’importanza di questa conferenza è confermata dalla straordinaria
partecipazione da tutto il mondo. Qualche decina di migliaia di persone (!):
tutti competenti ed esperti di questioni climatiche e di economia,
naturalmente. Qualche migliaio sono i tipici lobbisti retribuiti dalle grandi
imprese dei fossili: chissà cosa saranno lì a difendere? Naturalmente nessuno
ha fatto il bilancio del carbonio di questa gigantesca scampagnata planetaria.
Già così il nostro remoto osservatore della galassia
menzionata all’inizio avrebbe abbondantemente di che sollazzarsi, ma, per noi
che ci siamo dentro, la situazione ha decisamente molto più del tragico che del
comico. Tuttavia bisogna riconoscere che già dal secondo giorno la COP28 un
risultato lo ha ottenuto: 22 paesi si sono impegnati a triplicare la
produzione di energia nucleare entro il 2050, perché questo sarebbe il modo
più veloce per liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili. Il nostro
osservatore galattico sgrana gli occhi: per realizzare una nuova
centrale a partire da oggi ci vogliono, dicono le statistiche ed esempi recenti,
una quindicina di anni e un sacco di soldi (da 10 a 15 miliardi di euro o, se
preferite, dollari a centrale); moltiplicando per tre la produzione mondiale di
energia nucleare si arriverebbe a un 12% dell’attuale consumo dell’umanità.
Insomma l’energia nucleare in sé non sarebbe risolutiva; non solo, ma gli
ingentissimi investimenti (tutti pubblici) richiesti sarebbero in competizione
con lo sviluppo delle cosiddette rinnovabili, che, tra l’altro, se
consideriamo il sole, hanno una potenzialità pari ad alcune migliaia di volte
il fabbisogno umano. Consideriamo anche che le tecnologie richieste dalle
rinnovabili (sole, vento e idroelettricità in primis) sono ben note e in
generale l’installazione di impianti di produzione è estremamente più rapida
della costruzione delle centrali nucleari; anche il problema dell’accumulo
dell’energia per trasferirla dalle fasi di sovrapproduzione a quelle di penuria
o assenza di produzione ha svariate soluzioni concrete ed è un tema in rapida e
positiva evoluzione tecnologica.
Ovviamente i 22 dell’accordo di Dubai sono
tutti paesi che hanno già in casa delle centrali nucleari. Per lo più
(sicuramente nel caso della Francia, degli Stati Uniti e del Regno Unito) una
buona parte delle loro centrali sono “vecchie” ossia prossime alla data della
dismissione (la vita utile di una centrale a fissione è dell’ordine dei 40 anni
anche se in qualche caso la si prolunga di un’altra decina d’anni a scapito
della sicurezza), con la prospettiva di costi elevatissimi legati allo
smantellamento o decommissioning che dir si voglia. Ecco che qui, come accade a
un tossicodipendente, questi governanti si danno da fare per illudersi di
superare le difficoltà lanciando una nuova dose che gli permetta, secondo loro,
di gestire economicamente i costi indotti della vecchia. È ormai risaputo
che, dal punto di vista dell’economia tradizionale, il nucleare non è
competitivo e nemmeno conveniente: lo si può mantenere in vita solo con
grandissime iniezioni di denaro pubblico erogato a debito delle generazioni future (sempre
che le future generazioni non vengano prima travolte dall’imminente collasso
climatico).
Sul nucleare in sé non starò qui a ripetere cose già
scritte in questa o in altra sede (cfr. A. Tartaglia, Spaccare l’atomo
in quattro. Contro la favola del nucleare, Edizioni Gruppo Abele, 2022) e
su cui c’è ormai una vasta letteratura. Mi limito a ricordare che la
fissione nucleare lascia necessariamente in eredità le scorie che comprendono i
prodotti della fissione, sono radioattive e costituiscono un problema per
migliaia di anni. Nella propaganda lanciata alla grande in tutte le sedi
questo aspetto come tutti quelli connessi con la sicurezza, la connessione con
le applicazioni militari e le diseconomie viene minimizzato o liquidato con
favole prive di consistenza scientifica prospettando meravigliose soluzioni che
“è vero che non ci sono ancora ma che di certo arriveranno”. L’offensiva
mediatica dei nuclearisti internazionali è realmente a tutto campo con articoli
di giornale, interviste, dichiarazioni, “consigli” discretamente forniti a
coloro che contano, e chi più ne ha più ne metta. Sono arrivati anche ad
arruolare un noto regista come Oliver Stone con il suo Nuclear now,
lungo documentario propagandistico che sarebbe interessante comparare a quelli
prodotti ai tempi di Stalin per esaltare le conquiste del socialismo
reale. Nuclear now, presentato al Turin Film Festival e già
rilanciato da circuiti televisivi come La7, illustra le magnifiche sorti e
progressive del nucleare, vera energia pulita e unico antidoto agli incombenti
mutamenti climatici; naturalmente non viene riportata nessuna analisi,
tecnicamente fondata, sui problemi e sulla insostenibilità a breve e lungo
termine dell’energia da fissione e si riproducono solo roboanti elogi
da Istituto Luce: quanto ai problemi, be’ la radioattività non è poi così
pericolosa (?!); le scorie sono poche e sono ben custodite (?!); a Chernobyl
non è poi che ci siano stati così tanti morti (sic!), certo di meno di
quelli dovuti ai combustibili fossili; in futuro prolifereranno i piccoli
reattori da condominio (proprio così!). In complesso poi si adombra
elegantemente l’idea che dietro l’opposizione popolare alle centrali ci siano i
grandi operatori del fossile.
In realtà è facile verificare che le lobby
internazionali del nucleare includono proprio i potentati del fossile: tra
i 22 paesi dell’accordo intercorso alla COP28 ci sono anche gli Emirati Arabi
Uniti (quelli del già citato Sultan Ahmed Al Jaber); tra i fautori a spada
tratta del nucleare, qui da noi, c’è ENI, che intanto trivella mezzo mondo per
ricavare sempre più petrolio e gas da vendere (e da bruciare). La logica è
abbastanza semplice: l’economia globale non si tocca, la crescita
materiale è ineludibile e sacrosanta, per l’intanto si va avanti a bruciare più
fossili possibile facendo affari alla grande; siccome però si sa che
le fonti fossili, continuando al ritmo di sfruttamento attuale, avranno i
giorni contati (la durata delle riserve economicamente sfruttabili è stimata
essere di qualche decennio) ci si muove per promuovere a larga scala
una fonte che possa permettere di continuare in primis a fare
affari con l’energia e le opere correlate (sia pure a carico delle
finanze degli Stati) e poi di alimentare uno stile di vita fisicamente
insostenibile che però assicura condizioni di assoluto privilegio a chi
controlla flussi e investimenti. Ciò che dà estremamente fastidio, per lo meno
a me, è utilizzare come ostaggi per le argomentazioni pro nucleare i poveri di
questo mondo: “non vorremo mica impedir loro di diventare come noi”. Eppure le
statistiche (e la fisica) dicono che l’economia della crescita competitiva, del
consumismo irrazionale, dell’usa e getta fanno dovunque crescere le
disuguaglianze. Se si vuole recuperare l’equilibrio occorre porre mano al
paradigma economico dominante: questo però in primo luogo mette in discussione
la posizione di coloro che hanno i massimi vantaggi diretti e immediati e
questi, che dispongono di enormi risorse monetarie, investono alla
grande nella disinformazione di massa e nelle azioni di lobbying nei confronti
dei decisori istituzionali a vario titolo piuttosto sensibili anch’essi al qui
e ora (domani si vedrà…). La società ideale prospettata da Mr. Stone è
quella americana (senza far caso al fatto che tocca rilevanti record di
iniquità interna e di sistematico spreco di risorse) intesa come modello
universale per altro ineludibile e necessario.
Fra l’altro il nucleare (pulito, s’intende) che
dovrebbe alimentare quel modello, ahimè, avrebbe a sua volta una durata misurabile
in decenni, più o meno come il petrolio, ma, decennio dopo decennio, con un po’
di gas-petrolio-carbone e di pulitissimo nucleare un po’ avanti si va. Finito
questo tempo senza cambiar nulla, be’, qualcos’altro si troverà (la “scienza”
magica farà qualche miracolo) e si potrà continuare imperterriti sulla strada
del “sempre di più soprattutto per me”. Insomma: cambiare tutto perché
nulla cambi.
C’è da dire che questa offensiva
generalizzata, a tutto campo, per la promozione e il rilancio del nucleare ha
anche un po’ una connotazione vagamente isterica. Sembra che chi è ai
vertici del vero potere, quello del denaro, cominci a sentirsi un po’ inquieto
di fronte alle minacce di tracollo climatico e a una sia pur lenta e a volte
non del tutto razionale presa di coscienza della natura del problema
dell’insostenibilità del nostro paradigma sociale ed economico globalizzato.
Nell’aria si annusa l’odore di cambiamenti necessari che, fuori dagli aspetti
tecnologici, rischiano di risultare ineludibili. Se la transizione di cui tanto
si parla viene gestita con saggezza l’intera umanità ne trae vantaggio, ma se
la logica del “qui e ora” e del “prima io” prevale, allora ci si può aspettare
che, in parallelo e ancor prima del tracollo climatico, si arrivi a forme di
collasso politico sociale oltreché materiale (tradotto: conflitti e guerre più
o meno devastanti) che possono trasformare l’evoluzione in una catastrofe.
Ormai la COP28 è divenuta un’enorme tragedia
buffa che funge o vorrebbe fungere da oppio dei popoli ed è del tutto in mano a
chi, avendo moltissimo, non intende rinunciare a nulla e anzi vorrebbe
avere sempre di più. E poi, come diceva Luigi XV di Francia: “après moi le déluge” o
meglio “dopo di me il collasso climatico”. Una progressiva presa di coscienza
potrà aiutarci ad evitare i guai peggiori e a mitigare l’impatto di quelli che
sono ormai ineludibili o già in corso.
da qui
Emergenza climatica: banchieri
contromano - Guglielmo Ragozzino
La Cop 28 di Dubai, a cominciare dal principe Al Jaber
che la presiede, è la conferenza del fossile più che del clima. Un rapporto di
504 associazioni ambientaliste di 54 paesi denuncia la rete di banche che regge
l’architettura del sistema carbonio.
L’”Arabia esaudita” è il titolo scelto da il manifesto mercoledì
29 novembre per spiegare l’esito della gara tra Riad, Busan e Roma per la
conquista della sede dell’esposizione universale del 2030. Le cifre sono
deludenti per gli appassionati di “Forza Roma, Forza Lupi” e quel che segue;
Riad (capitale dell’Arabia) vince con 119 voti su 182 paesi votanti, la coreana
Busan ne riceve 29 e, ultima, Roma solo 17 voti; neppure gli amici fidati
l’hanno sostenuta. Da notare ancora l’intelligente articolo di Alberto Negri: Smacco Italia La trappola dell’“amico” bin-Salman e
la segnalazione che ne fa, brillantemente, Beda Romano responsabile per la
settimana di Prima pagina, la rubrica
giornalistica delle 7,15 di ogni mattina – da tempo immemorabile – di Rai radio
tre.
1.Il voto per la capitale saudita (e il consenso generale che esprime) è la
prova, per quasi tutti, di un vero e proprio ridisegno della carta mondiale
delle rotte e dei traffici (e delle alleanze). Sparisce – al primo livello di
riflessione – il fascino del famoso Bel Paese, con tanto
di ineguagliabili bellezze rinascimentali, da mettere alla base
dell’Esposizione universale, al punto che, sembra acclarato, perfino l’amica
Albania abbia scelto diversamente. Se però il destino di Roma, negli spazi
mondiali, è poco significativo, o per così dire secondario, molto più
importante è un altro segnale che il gran voto per Riad lascia intendere: quali
conseguenze ci saranno per il clima per il
tanto temuto e tanto combattuto – anche se per lo più a parole – aumento di
temperatura di un grado e mezzo, o due e più gradi centigradi, rispetto al
passato preindustriale? I famosi giuramenti del Cop 21 di Parigi del 2015
sono ancora coerenti? E l’avvento di nuove energie, considerate poco o punto
inquinanti, è ancora attendibile?
2.Si è aperta in effetti il giorno seguente, il 30 novembre, in un’altra
città mediorientale, anzi degli Emirati Arabi Uniti, Dubai, la riunione,
decisiva, del Cop 28. Durerà fino al 12 dicembre. I giornali notano che il
principotto locale, Sultan Al Jaber, presidente e ospite di Cop28, è capo in
testa, o Ceo sia dell’azienda statale del petrolio sia di
quella statale per le rinnovabili. Per dirla tutta, in una sua intervista a
Luigi Ippolito, corrispondente da Londra del Corriere della Sera,
(29 /11) risulta che ci tenga a farsi chiamare dottor
Sultan e che l’implacabile Greta Thunberg abbia detto, con
qualche ragione, che “la sua nomina era assolutamente ridicola”.
Essendo lui a guidare Cop 28, ciò significa, a prima vista, che in Cop 28
il fossile non verrà condannato, anzi farà buoni
nuovi affari, mentre le rinnovabili saranno oggetto di vasti apprezzamenti:
magnifici progetti, per il duemilaottanta;
insomma, la guerra per l’ambiente rinnovato e il clima sicuro non è ancora
cominciata; semmai sta per fare, nella stagione dicembrina di Dubai, qualche
passo indietro.
3.Per rimanere ancora un attimo – per meglio dire: un barile – su Dubai e
gli Emirati, risulta alla stampa specializzata che l’Adnoc, (Abu Dhabi National
Oil Company) società del governo di laggiù, ha 55 mila dipendenti con entrate
di 60 miliardi di dollari. Abu Dhabi è la capitale degli
Emirati. Il dottor Sultan obietta di essere anche il capo di Masdar, impresa
specializzata in energia rinnovabile. Di quest’ultima società non sono noti i
numeri ufficiali, ma nella stessa stampa competente, prima chiamata in causa,
circola la cifra di entrate pari a 172 milioni di
dollari con 650 lavoratori. Come è facile capire, nella penisola arabica c’è di
meglio, qualora ci sia voglia di puntare sul sicuro, e ci sia denaro per farlo.
Al primo posto c’è Saudi Aramco, grande impresa del governo saudita, che con
161 miliardi di introiti nel 2022 per 11,5 mbg, (milioni di barili al giorno)
estratti, lavorati, venduti, ha sbaragliato tutti: esperti, lobbisti,
ricercatori, sultani secondari, petrolieri dei tempi di Rockefeller. Non
però i banchieri.
INTERMEZZO
Ma prima di toccare il tasto, quello finale di questo breve excursus
sul fossile e il nostro futuro altrettanto sicuro
altrettanto oscuro, aggiungiamo – gratis – un’informazione sulle 7 sorelle.
Erano, quando sono state inventate, quelle che seguono:
·
Anglo-Iranian
Oil Company
·
Royal Dutch
Shell
·
Standard Oil
Company of California
·
Gulf Oil
·
Texaco
·
Standard Oil
Company of New Jersey
·
Standard Oil
Company of New York.
Tra alti e bassi, finanziari o politici di varia natura, guerre e
rivoluzioni, solo Shell, ha mantenuto il nome, una parte almeno; le altre sorelle
si sono fuse tra loro o sono state afferrate da poteri più forti. Le Standard
Oil, erano tutte di Rockefeller. Le ultime due dell’elenco, riunite, hanno dato
luogo a Exxon e poi a Exxon Mobil; l’Anglo Iranian è divenuta Bp. Standard
California è all’origine di Chevron; e così via. Aramco, per esempio, significa
Arabian American Oil Company, essendo il risultato della nazionalizzazione
della compagnia che oggi è di proprietà dei reali sauditi. Mattei non ha forse
inventato l’espressione Sette Sorelle, l’ha
utilizzata in tono non reverente, ma, per così dire, realistico per spiegare che nel campo dei petroli
c’erano odiose streghe, tutte sorelle, e tutte in perenne lite tra loro, come
nelle fiabe; ma che in verità ciascuna di esse operava anche al di fuori dal
mondo fiabesco. Oltretutto esse erano tutte d’accordo contro di lui, convinto
com’era che il mondo fosse diverso da una fiaba per bambini piccoli. Così esse
lo odiavano perché bambino credulone non era più, anzi non lo era mai stato; e
voleva fare da sé e diventare grande altrimenti; per esempio comprando, senza
il loro permesso, petrolio dall’allora Urss.
Quando la storia/finisce in gloria
4.Beati i tempi delle sette sorelle! Oggi le streghe sono molte di più. Se
si guarda soltanto alle dieci compagnie che hanno ricevuto più finanziamenti
dalle banche, ben cinque sono estranee al mondo dell’energia, almeno a quello
generalmente noto nel secolo scorso. Queste dieci compagnie energetiche
indipendenti hanno ottenuto ciascuna finanziamenti tra 91 miliardi di dollari e
61miliardi. (Attenzione! Qui si tratta di miliardi, indicati con la B di billion. T che significa Trillion è il nostro bilione, cioè mille miliardi
di quel che sia, di dollari, per esempio) Si noti che gli anni considerati
dagli interventi bancari a favore dei “fossili” sono 2016-2021, sei anni in
tutto. Il conto è di 4.586 T (quanto a dire quattromila miliardi più gli
spiccioli di 586 miliardi di dollari). Le banche, perché è di esse che si
tratta, hanno conferito al sistema “fossile” 723 miliardi nel 2016, l’anno
successivo al Cop 21 di Parigi; e poi, via via, 738 miliardi nel 2017, 799 nel
2018, 830 nel 2019, 750 nel 2020, 742 nel 2021. Ecco l’elenco dei dieci
maggiori clienti “fossili delle 80 maggiori banche del mondo:
Enbridge,98 B; Exxon, 87 B; Aramco, 78 B; TC Energy, 77 B; Occidental
Petroleum, 66 B; Shell,66 B; China National Petroleum Corp., 64 B; Shanxi, 61
B; Sempra Energy,61 B.
Enbridge è un’impresa canadese per origine e attività di distribuzione; TC
Energy più o meno lo stesso; Occidental Petroleum è una società indipendente,
assai forte in California e Texas. Questa impresa ha avuto un breve storia con
l’Eni, unendo per qualche mese nel 1982, le attività chimiche e formando Enoxi,
per separarsi subito dopo; China e Shanxi sono imprese cinesi; Sempra è una
società statunitense emergente; essa ha però abbandonato una parte del suo
nome, Energy, dichiarando così pubblicamente che di energie soprattutto nuove
non sa che farsene e tenderà a non venderne più. Le “nuove” sono tutte imprese
con migliaia di addetti e progetti potenti; rimane probabile la scarsa
disponibilità, come nel caso di Sempra, a sostenere l’energia rinnovabile, in
qualunque forma rappresentata.
5.Per entrare nel dettaglio (viene da ridere, se non da piangere, a parlare
di “dettaglio”) Exxon è finanziata per 15 miliardi di dollari da ciascuna di
tre banche Usa: Bank of America, Morgan Chase e Citi: in tutto 45 miliardi di
dollari circa. Il resto è un affare delle altre 77 banche della comitiva.
6.La questione è però assai seria. Il caso di Exxon e delle banche degli
Usa è solo un esempio, notevole fin che si vuole, di una associazione di affari
tra le imprese mondiali che agiscono nel “sistema carbonio” – che in altre
parole creano anidride carbonica producendo carbone, petrolio, gas – e le
maggiori banche mondiali. La ricerca che stiamo saccheggiando è il risultato di
un’altra associazione, contraria alla prima, cresciuta tra 504 organizzazioni
ambientaliste di 54 diversi paesi. Sono decine di attività ambientaliste, che
vanno da Extinction Rebellion San Francisco Bay a Catholic Network Area, da American Jewish World Service a 1000 Grandmother for Future Generations, da 350 Humboldt a Veterans for Climate
Justice, da Stamps our Poverty a Greenpeace, da No Fracked Gas in Mass a Stop the Money Pipelin. Quest’ultima organizzazione,
quale che sia – non ci è dato di saperlo – rappresenta il pensiero comune delle
altre cinquecentotre e delle altre non collegate. Tutte insieme, hanno messo in
movimento decine di ricercatori per raccontare al mondo il caos climatico
dovuto alle banche. (BankingonClimateChaos.org) Il risultato è uno studio di
un’ottantina di pagine, fatto con poche frasi, moltissime tabelle e figure: da
leggere, guardare e provare a capire. “La pubblicazione di questo
rapporto segna un altro anno in cui molte tra le maggiori banche mondiali non
hanno saputo assumere la scelta necessaria di ridurre la propria partecipazione
al caos climatico. Il tempo fugge e l’espansione del combustibile fossile deve
cessare subito. Ogni dollaro che le banche usano per nuovi progetti di
combustibile fossile e le imprese collegate, è incompatibile con la stabilità
climatica e l’impegno per emissioni nette pari a zero. Finirla con l’appoggio
all’espansione del combustibile fossile è il prossimo urgente passo per
annullare il sostegno bancario al combustibile fossile in un termine
compatibile con 1,5°”.
7.Il Rapporto esamina le principali banche del globo nel loro rapporto con
le imprese che operano nei combustibili fossili. Tutte le specie di fossili,
indicate una per una: gli scavi e l’attività che ne deriva. Sono indicate le
banche finanziatrici, le imprese che ottengono i fondi, le attività che esse
svolgono; il tutto viene spiegato scientificamente, nel senso che non c’è quasi
mai un tono di rimprovero. C’è solo una scheda nella quale si coglie un po’ di
dissenso se non di disprezzo per banchieri corrivi e per imprese arraffone. Il
rapporto tocca infatti il tema delle popolazioni indigene che vengono spogliate
dei loro beni e costrette a diventare nemiche di madre natura. Durante Cop26 a
Glasgow in Scozia si è parlato lungamente di tutto questo. Con grandissime
promesse, ma senza particolari conseguenze. Nel rapporto in esame è scritto che
“La resistenza degli indigeni al colonialismo è basato sulla responsabilità
della difesa del loro spazio e della loro sovranità e sul fatto che facendo
così essi difendono la Terra stessa”.
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