domenica 31 dicembre 2023

Le Grandi Navi minacciano Roma

 

Un megaporto per grandi navi da turismo rischia di devastare, con l’ennesima colata di cemento, una delle aree paesaggistiche più affascinanti della costa laziale. Il progetto viene collocato nelle grandi opere ispirate e legittimate dal Giubileo, nonostante i lavori che lo riguardano si prevede si concludano ben oltre il dicembre 2025. È della Fiumicino Waterfront srl, società in gran parte partecipata dal gruppo Royal Caribbean, considerato il primo nel mondo per quel che riguada le navi da crociera, ed ha, per ora, un costo previsto di 440 milioni di euro. Le ragioni per opporvisi sono moltissime e sono già state denunciate dalle oltre trenta associazioni di residenti che contestano il progetto. Qui c’è un appello – promosso da autorevoli urbanisti, architetti ed esponenti a vario titolo del mondo della cultura e della critica allo sviluppo, molti dei quali compagni di lungo corso e abituali collaboratori di Comune-info – e c’è anche l’indirizzo mail di Enzo Scandurra a cui si possono inviare firme di adesione contro questo nuovo assalto alla bellezza e al patrimonio culturale e paesaggistico di Roma e dintorni

 

Su una delle aree più preservate e ricca di testimonianze storico-culturali e paesaggistiche di Fiumicino rischia di abbattersi l’ennesima colata di cemento: un megaporto per grandi navi da turismo e crocieristiche, oltre che un vicino porto commerciale.

Il paesaggio è dei più singolari e affascinanti della costa laziale: il canale che taglia in due la città, il ponte sollevabile oltre il quale una strada, costeggiando il mare, arriva fino al Faro militare in disuso da moltissimi anni. In prossimità del Faro si può assistere all’incontro del Tevere con il mare e allo spettacolo delle bilance (palafitte costruite sugli scogli per la pesca); sulla riva opposta l’Idroscalo  Oltre, il luogo in cui fu ucciso Pasolini il 2 novembre 1975, che lo ricorda attraverso la scultura di Mario Rosati e un piccolo parco con pietre d’inciampo sulle quali sono leggibili frasi del poeta. Un luogo quasi sacro per chi viene dalla città tumultuosa e violenta.

L’opera (se così si può chiamare) prevista rientra in quelle del Giubileo anche se non si capisce a che titolo, visto che i lavori saranno terminati probabilmente a evento concluso.

Il progetto è della Fiumicino waterfront srl, società in gran parte partecipata del gruppo Royal Caribbean per un costo complessivo di circa 440milioni di euro. Le criticità del progetto sono moltissime e già denunciate dalle oltre trenta associazioni di residenti che contestano il progetto. Prime tra tutte le infrastrutture inadeguate, i fondali bassi e limacciosi e il vicino aeroporto che non consente un traffico marino con altezze superiori ai 48 metri.

Gli attuali fondali impedirebbero l’attracco di Grandi Navi, per cui si realizzerebbe un dragaggio di sabbia, parte della quale invaderebbe l’area antistante il mare e verrebbe dedicata ad alberghi e megainfrastrutture. Inoltre tale porto entrerebbe in diretta concorrenza con il vicino di Civitavecchia, già attrezzato per l’attracco delle grandi navi.

L’ambiente ne sarebbe definitivamente compromesso, visto che queste grandi navi emettono una quantità di CO2 e altre sostanze inquinanti pari a migliaia di auto col motore sempre acceso. Tra aeroporto e Grandi Navi lo stesso comune di Fiumicino diventerebbe un luogo infernale.

Chiediamo a Gualtieri, Sindaco di Roma che dal 2021 lo è anche dell’Area Metropolitana di Roma (della quale fa parte il comune di Fiumicino), nonché Commissario straordinario di Governo per le opere giubilari del 2025, il ritiro immediato di tale progetto privato lasciando quel sito nel suo stato naturale.

La cultura non può essere isolata, cultura e politica non sono cose separate come ci ha insegnato Gramsci e la politica non può essere espropriata dall’economia delle false illusioni di modelli fantasmagorici di città come nei Paesi Arabi o nel fallimentare “modello Milano”.

Roma non ha bisogno di grandi eventi, quanto piuttosto di interventi nei settori dei trasporti pubblici, dello smaltimento dei rifiuti, dell’accoglienza, del fabbisogno di case, dei servizi e della cura delle periferie e, soprattutto di idee all’altezza del suo ruolo capitale.

 

firmatari:

E. Scandurra, P. Bevilacqua, R. Musacchio, V. De Lucia,T. Montanari, L. Ferrajoli, L. Marchetti, M. Acerbo, S. Brai, A. M. Bianchi,  Federico M. Butera, P. Berdini, P. Sentinelli, P. Cacciari, M. Fabbri, P. Favilli, P.Ippolito Armino, P. Spirito, R. Bertuzzi, R. Palmieri, G. Saponaro, I. Agostini, M. Bersani, A. Ziparo, G. Liquori, R. Pazzagli, B. Pizzo, F. Trane, S. Medici, E. Mazzoni, I. Masulli, S. Morelli, L. Decandia, M. Acerbo, L. Marchini, L. Speciale, C.M. Amici, V. Vita, F. Sebastiani, G. Gallozzi,  P. G. Arcangeli,  G. Pallottino,  M. Dentici, F. Wetzl , M. Pellegrini, B. Buccellato, S. Maira, V. Agnoletto, R. Budini Gattai, G. Greco, F.Lozzi, P.Modugno, G. Lucini, M. Asunis, C. Amoroso, P. Caprari,  N. Greco, R. Giannarelli, M. Mercatali, I. Benci, B. Gaudino, I. Sandri, M. Conforti, T.Perna,  D. Rizzo, T. Passerelli, G. Aragno, D. Ruggiero, C. Lancia, R. Rifici, G. Panizzi, M.P. Rosati, D. Monterosso, T. Francescangeli, G. Reitano, S. Scoccia, M. Filippi, A. Cassaro, F. Messineo, ML Arena, L. Mozzati, M. G. Meriggi, A. Veneroso, G. Martini, M. Dapporto,

(per ulteriori firme, inviare a: scandurraenzo@gmail.com)

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venerdì 29 dicembre 2023

Sottrarsi al dominio del lavoro - Gloria Germani

 

“Lavorare meno, lavorare diversamente o non lavorare affatto” (Bollati Boringhieri) è un libro breve ma densissimo di profondi stimoli. Il padre della “rivoluzione culturale” della decrescita, affronta un tema decisivo per sottrarsi dal quadro mentale della società della crescita: quello del lavoro moderno, cioè del lavoro salariato.

“Lavorare meno” può suonare come uno slogan di moda – ed è stato subito recepito dal mensile italiano di Il Fatto quotidiano “Millennium” che gli ha dedicato il numero di novembre 2023 con una intervista a Serge Latouche e lunghi approfondimenti sul tema. Tuttavia la riflessione dell’economista e filosofo francese è molto articolata e difficilmente si fa ingabbiare dai media la cui funzione sostanziale è quella di vendere il binomio pubblicità–progresso (a conferma di ciò, poche pagine dopo, si veda l’intervista alla titolare della cattedra di “Etica dell’Intelligenza Artificiale”, una contraddizione in termini o un ossimoro, per dirla con Latouche, tanto quanto quello di “sviluppo sostenibile” o di “crescita verde”).

Oggi – sottolinea il nostro – ci troviamo nel mondo delle assurdità: alcuni lavorano anche quindici ore al giorno, mentre ci sono milioni di disoccupati (p.36). Lavorare meno è dunque necessario per lavorare tutti, ma occorre soprattutto uscire dal paradigma del capitalismo o produttivismo. È stato un particolare clima storico (ben colto da Max Weber nel suo Etica protestante e lo spirito del capitalismo o da K. Polanyi, in La grande trasformazione) costruito da una scia di pensatori del XVIII e XIX secolo come Locke, Hume, Smith o Ricardo che hanno inventato la ricchezza e la proprietà come frutto del lavoro. Non hanno considerato la mercificazione e la disumanizzazione del quotidiano che oggi abbiamo davanti agli occhi, già denunciata magistralmente da Simone Weil o Hannah Arendt. Si tratta di un paradigma molto strutturato: la Repubblica Italiana, per esempio, è stata fondata sul lavoro (art.1 Costituzione). Però – sottolinea Latouche – “il lavoro, come l’economia, sono invenzioni della modernità” (p.3) e possiamo, come abbiamo già fatto, vivere senza di loro. La decrescita ha proprio questo scopo: quello di un cambiamento radicale di paradigma, e se consideriamo che questa rivoluzione culturale ha solo vent’anni, possiamo essere ottimisti sul suo futuro. Intervenendo in tale maniera anche nel dibattito sulla decrescita a livello spagnolo, inglese, italiano, francese e generalmente internazionale, il fondatore chiarisce senza ombra di dubbio che la decrescita consiste niente meno che nell’uscire dall’economia moderna cioè, dall’abbandonare la religione della crescita che costituisce il suo principio essenziale.

L’esperienza della pandemia Covid ha mostrato d’altronde che si può sopravvivere senza un consumo eccessivo oppure che ci si può battere per un’idea diversa di lavoro e per una sua migliore qualità. Se i maggiori critici dell’economia moderna, come Karl Marx, sono rimasti chiusi all’interno dell’ideologia dello sviluppo, i padri della decrescita come Ivan Illich, Andrè Gorz o Jean Baurdrillard, hanno condotto una critica serrata al produttivismo ed è a loro dobbiamo riferirci oggi se vogliamo uscire dalle contraddizioni del mondo attuale, per prima quella del collasso climatico. D’altronde, sottolinea Latouche, “non si risolverà il problema sociale senza far fronte alla crisi ecologica” e viceversa, mentre “la vera ecologia è punitiva solo per il capitale e i suoi rappresentanti, per le imprese multinazionali, il Gafam o i fondi pensioni” (p. 22).

Per realizzare una vera transizione ecologica attraverso la società della decrescita, occorre avviare tre misure principali: la rilocalizzazione sistemica delle attività utili già in atto tramite i i fenomeni dei neo-agricoltori, neo-rurali, neo-artigiani; una riconversione progressiva delle attività parassitarie come la pubblicità o nocive come il nucleare e l’industria delle armi; e una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro. Il socialismo ecologico e democratico si può realizzare solo attraverso il localismo, come già sapevano Aristotele, Gandhi oppure Leopold Kohr o Murray Bookchin (p.29). Riconvertire le attività produttive come l’agricoltura industriale (fonte di cancro, intossicazioni e inquinamento) in agricoltura biologica e di prossimità è un passo fondamentale per una vita sana e conviviale. Mentre la riconversione della pubblicità permetterebbe di uscire da quella vendita dei desideri che è il vero motore del consumismo, con l’eliminazione di bisogni inutili (turismo, moda, trasporti, industria automobilistica, aereonautica, dell’agribusiness, delle biotecnologie). Per ridurre infine il tempo di lavoro, occorre, in una fase intermedia, imbrigliare l’economia attuale ed eliminare due tabù (protezionismo e inflazione). Per Latouche per vivere meglio occorre fare meglio con meno, eliminando le fonti di spreco (gli imballaggi a perdere, il cattivo isolamento termico, la preminenza dei trasporti su strada) e aumentare la durata dei prodotti. Ciò che è essenziale è però ripensare la natura del lavoro che è consustanziale con l’Occidente moderno e ai suoi miti: razionalità e calcolo economico, culto dei risultati, individualismo e soprattutto la concezione meccanica e artificiale del tempo a cui Latouche dedica una acutissima riflessione (p.57 e 84). Se non lo facciamo, si andrà verso la catastrofe sociale ed ecologica, già in agguato (p. 46).

Nell’ultimo capitolo, l’economista francese chiarisce che il progetto della decrescita prevede un ulteriore passo: l’abolizione del lavoro. Questa può realizzarsi solo con la scomparsa della sua specificità servile e la fuoriuscita dall’economia. Al contrario, la scomparsa del lavoro come effetto del progresso tecnologico (autonomazione/robotizzazione/AI) viene da lui considerata un mero mito e ridicoli appaiono i grandi maghi come J.Rifkin con la sua fede tecno-scientista per cui si salveranno contemporaneamente il capitalismo, il socialismo e il pianeta (p. 72). Il lavoro smart da casa, le innovazioni digitali di Uber, Airbnb e Deliveroo fomentano la strumentalizzazione lavorativa più scandalosa che ricade nel pantano del mondo- merce. “Quello che viene definito il management senza contatto diventa totale e completa sottomissione agli algoritmi” […]. Anzi, “le nuove tecnologie offrono al capitalismo nuovi mezzi per rafforzare il proprio dominio sui lavoratori, evocando contemporaneamente la minaccia della loro inutilità” (p.73).

Come le altre rivoluzione tecnologiche che si sono succedute a partire dal XVIII secolo e che sono fallite nella promessa di liberarci dal lavoro, anche la cosiddetta “quarta rivoluzione” decantata dai guru del transumanesimo, non produrrà alcun miglioramento, piuttosto “una dittatura degli algoritmi”(p.78). Latouche è del tutto negativo sull’utopia digitale che non fa che proseguire il medesimo paradigma che ha creato il lavoro salariato e gli enormi problemi attuali.

Il lavoratore infatti è colui che accetta una attività subita, che si spossessa delle proprie capacità manuali ed intellettuali per immetterle in un progetto che appartiene ad altri. Non ci può essere uscita dal capitalismo senza abolizione del lavoro salariato o anche dalla nozione stessa di lavoro (J.Baschet, p.65). Non è affetto un caso che i lavori attuali siano Bullshit jobs perché comunque privi di senso.

Ciò che il progetto della decrescita chiede è immaginare e realizzare una uscita della società del lavoro verso una società in cui le attività senza fine economico, pubbliche e private, sociali e personali, saranno prevalenti (p.77.). Non si tratta come alcuni detrattori insinuano di tornare a un mitico passato perduto, ma di “inventare una tradizione rinnovata” (p.78). In questo contesto, vorrei aggiungere, le relazioni empatiche tra uomini e tra uomini e natura, devono tornare centrali. Il ruolo del femminile, invece che spronato alla rincorsa della competizione lavorativa e appiattito sul modello maschile – attualmente esaltato con l’ossessione sulla questione del genere – deve acquisire un valore primario. Come stanno dimostrando infatti i fondamentali lavori nel campo della psichiatria e delle neuroscienze (Bowlby, Winnicott, McGilChrist), le relazioni affettive e ”la base sicura” nel rapporto genitoriale sono le condizioni indispensabili (ancor più del cibo) per la sopravvivenza del bambino e quindi per lo sviluppo sano ed equilibrato delle persone e della società. Solo il recupero della cura, dell’ascolto, dell’affetto e dell’intuizione tipiche dell’emisfero celebrale destro-femminile possono condurci alla “piena realizzazione armonica dell’umanità” all’interno dell’ecosfera, che è l’obiettivo di fondo dell’ecosocialismo e del progetto della decrescita.

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mercoledì 27 dicembre 2023

L’umanità in eccesso - Raúl Zibechi

 

La realtà concreta del sistema-mondo si trasforma con una velocità impressionante, in momenti in cui nulla sembra solido e i cambiamenti sono l’aspetto dominante. Alleanze rimaste intatte per quasi un secolo tendono a scolorirsi per fare spazio a legami di nuovo tipo.

L’ingresso dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti nei BRICS, così come la recente visita di Vladimir Putin in questi due paesi, mostrano la portata dei cambiamenti in atto, generati in un periodo molto breve. L’intera architettura internazionale emersa dalla Seconda Guerra Mondiale sta venendo smantellata dai nuovi rapporti di forza che stanno emergendo e ora stanno accelerando in modo esponenziale.

 

Nel 2022, con Decio Machado, abbiamo pubblicato il libro Estados para el despojo, con l’intento di provare a comprendere la trasformazione degli stati del welfare in stati neoliberisti estrattivisti, promotori dell’accumulazione per espropriazione/quarta guerra mondiale contro i popoli.

Appena un anno dopo la sua pubblicazione, devo dire che è molto probabile che siamo stato timidi, perché l’accumulazione sta conducendo a una guerra aperta che ha nel mirino interi popoli per costringerli a spostarsi o semplicemente per annientarli.

Le analisi di William Robinson sullo “stato di polizia globale” e “l’accumulazione militarizzata” non invalidano la prospettiva che guarda agli Stati in termini di espropriazione, ma apporta una svolta necessaria. Robinson sostiene che la maggioranza dell’umanità semplicemente non può sopravvivere, cosa che non comporta una crisi per il capitale, ma un’opportunità per militarizzare il pianeta al fine di contenere i popoli che muoiono di fame.

Nell’intervista citata, concessa al quotidiano El Salto, in seguito alla presentazione del libro The Global Police State, l’autore sostiene: siamo di fronte a una rivolta popolare globale guidata dall’umanità eccedente (per il capitale), un settore in crescita che comprende già oggi 3 miliardi di persone. Per contenerle si generano guerre, sofisticati sistemi di repressione e controllo, muri di confine, guerre contro la droga e contro i migranti, e guerre contro i popoli, al punto che “ogni conflitto sociale diventa un’opportunità per accumulare capitali“.

Lo stato di polizia è molto redditizio perché il capitale scarica lì le sue eccedenze e si articola con l’”accumulazione militarizzata” e/o l’”accumulazione attraverso la repressione” per contenere quei milioni di persone di cui il sistema non ha più bisogno. Tragedia in basso e gioia in alto.

Robinson spiega che il capitale sostituisce i lavoratori formali con migranti temporanei o privi di documenti che non sono più sfruttati, ma piuttosto un surplus di umanità. Questo è un punto cruciale che spiega sia la guerra di Israele in Palestina sia la politica europea e statunitense sui migranti.

Un recente rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNOCD) stima che ogni anno negli Stati Uniti si registrano 3 milioni di ingressi illegali, che rappresentano un terzo del numero di tutti i migranti in quel paese, l’80% dei quali è di origine sudamericana, includendo anche il Messico.

Pertanto, nei tre anni del governo Biden, si presume siano entrate illegalmente negli Stati Uniti 9 milioni di persone, su un totale di quasi 30 milioni di migranti. Quest’anno mezzo milione di persone hanno attraversato il Tapon de Darién, al confine tra Panama e Colombia. In passato quella era considerata una regione impraticabile a causa della combinazione di giungla e paludi, da qui il nome “tappo”.

Di fronte al collasso economico, sociale, climatico e politico vissuto da migliaia di comunità in tutto il mondo, la risposta dall’alto consiste nella militarizzazione delle frontiere per “creare fortezze attorno alle aree in cui vivono le classi privilegiate“, come sostiene Robinson.

Il capitale è fuori da ogni controllo, un ruolo che gli stati nazionali avevano svolto fino alla globalizzazione. Non esiste più un governo in grado di vincolare il capitale, come dimostra chiaramente il fallimento di Trump e Biden nel re-industrializzare gli Stati Uniti. La classe lavoratrice e molte professioni in quel Paese tendono ad essere sostituite dai migranti, cosa che sta causando razzismo e profonda destabilizzazione politica.

Dobbiamo capire che la logica del genocidio non deriva dalla malvagità di questo o quel governante, o da un determinato Stato, ma dall’esistenza stessa del capitalismo, che ha fatto sì che quasi la metà dell’umanità diventasse “una popolazione in eccesso“, che muore di fame, emigra, viene uccisa a causa della repressione statale o parastatale e anche che si ribella.

Nel breve termine, tutto indica che il capitalismo abbia la capacità di sostenersi attraverso la violenza e le guerre. Nessuno può frenarlo, perché anche Russia e Cina fanno parte della stessa logica capitalista/guerrafondaia contro i popoli.

Nei prossimi anni, però, avremo la capacità di riflettere collettivamente, come hanno fatto le basi zapatiste, sulle strade da percorrere per continuare a resistere mentre creiamo il nuovo?


Fonte e versione in spagnolo: La Jornada

Traduzione per Comune-info: marco calabria

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martedì 26 dicembre 2023

Abbiamo bisogno di cercare altri cammini - Vito Teti

Ricordo, o mi pare di ricordare, il misto di ansia, inquietudine, allegria che prendeva noi bambini quando, alla fine della cena della vigilia di Natale, stava per fare la sua apparizione, quasi una magia dei grandi, il panettone, quasi sempre un panettone, che veniva tagliato, distribuito, mangiato religiosamente, badando a non fare cadere una mollica, perché non solo era peccato (come peccato era fare cadere le molliche di pane), ma era parte non irrilevante dell’unica fetta che ci toccava. Eravamo all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, il boom economico era giunto, a piccole dosi, anche nei più piccoli e miseri paesi e la fame nera, triste, ossessiva, che avevano vissuto le generazioni precedenti, e per cui i padri erano partiti in America, Germania, Nord Italia, cominciava a diventare un racconto, un ricordo (come era difficile per noi ricordare i ricordi degli altri), ma restava come una paura sotterranea, una minaccia sempre latente, un rischio immanente, non risolto per sempre.

Le famiglie come la mia, grazie all’America dei nonni e al Canada dei padri, al lavoro nelle campagne delle donne e di quelli che erano rimasti, potevano, con felicità e parsimonia, onorare la “tradizione”, il “digiuno della Vigilia” (era digiuno una vera e propria abbuffata, che in genere non prevedeva il consumo di carne) e consumare (a seconda delle località) le nove o tredici (a volte ventiquattro) “cose” a base di pasta, broccoli, stoccafisso, baccalà, alici o altro pesce, verdure, insalate, formaggio e frutta invernale, soprattutto castagne, noci, noccioli, arachidi, mele, arance, mandarini e torroni, susumelle, zeppole e altre varietà di dolci, in cui le mamme erano esperte. Poi cominciava la tombolata (si segnavano i numeri sulle cartelle con le bucce delle arance) e, alla passaggio della “novena”, suonatori e cantori di «Tu scendi dalle stelle», «Bambino Amabile», «Astro del ciel», uscivamo e correvamo dagli amici: qualcuno andava alla messa di mezzanotte, altri a farsi uno “stopparello” in qualche stanza fredda e umida, altri ancora a combinare monellerie in un paese che appariva davvero pieno come una mandra (Alvaro) e con il fascino della notte magica, in cui, a mezzanotte, come assicurava la canzone, dal cielo e dalle valli scendevano latte e miele.

Vi sembra una descrizione nostalgica e romantica del Natale dell’infanzia. Lo è. Ma se, alla mia età, con i tempi – le guerre, le crisi climatiche, le povertà) che “corrono”, se non inventassi, in parte, qualcosa di bello, almeno al passato, dovrei aspettare la fine facendo l’elenco del brutto e dell’orrendo, che abbiamo davanti. Non è che, anche da giovane, non vedessi miseria dei compagni, dolori della gente, separazione delle famiglie, fatiche dure e compagni scalzi e senza cappotto a cui portavamo le susumelle e i torroni, ma il fatto era che il tempo sembrava correre avanti, verso il bello, la ricchezza, la felicità, in una direzione che portava verso una fine lieta. E qualcosa di davvero terribile deve essere successo se, col tempo, non sentiamo più di tendere a un fine, un telos, un mondo nuovo da raggiungere, ma parliamo sempre più di Fine (non dimenticate che qualcuno, tanto per gradire, minaccia che potrebbe sganciare le atomiche).

Accadde che i panettoni divennero due, tre, dieci, cento. Di ogni tipo, marca, fattura. Riempito con crema, nutella, cioccolato, gelato. E arrivarono i Pandoro, i torroni di ogni dove, i dolci, i babà. E arrivò Babbo Natale, che portò tante cose belle ai bambini, assieme a tante cose inutili, superflue, alla moda, che hanno reso infelici, tristi, rissosi i nostri figli e i nostri nipoti perché le aspettative e le fantasie vanno sempre al di là del reale e del possibile, del limite e perché c’è sempre un gioco, uno smart, un cellulare più nuovo, più bello di quello che si possiede e così quei poveri panettoni vengono buttati nella spazzatura, senza nessuna pietà, e quei poveri magnifici turdilli, nacatole, pignolate restano timide e appartate, quasi integri, non toccati, ormai stanchi di farsi carico di una “santa” e “autentica” tradizione in cui nessuno crede più, che magari non è mai esistita. E le nove, tredici, ventiquattro cose sono diventate “cento e mille”, mille e mille, e non possono essere consumate, nemmeno conservate, neanche regalate ai poveri del mondo, vanno appartate, buttate, sprecate. E le tavolate, circondate da consumatori che parlano della bellezza del ritrovarsi e del “mangiare insieme”, offrono tutte le libertà delle pance del mondo: trionfano, insieme, cibi e pasti per carnivori, erbivori, vegetariani, vegani, sofferenti di allergie e di patologie indescrivibile e, intanto, ognuno smanetta da solo sul suo cellulare, manda auguri a quelli che non ci sono e non fa una carezza al commensale vicino, si sente solo in mezzo alla moltitudine.

Per un certo periodo di tempo avevo immaginato che, sconfitta la fame nera, raggiunto un necessario benessere, era, forse, il caso, di fermarsi, di non andare sempre oltre, di riscoprire la bellezza della sobrietà, del “sapore”, del gusto, dei cibi, davvero, naturali, etici, non avvelenati. Mi sbagliavo, lo ammetto. La moderazione e la sobrietà sono soltanto frutto della necessità, della penuria, della scarsezza. Il mondo non ha saputo nemmeno mediare tra fame e abbondanza, spreco e carestie e i poveri del nostro Occidente e dell’intero pianeta sono diventati (come scrive in un bel libro Umberto Galimberti) inutili, indesiderati, in quanto non consumatori o consumatori inadeguati. Perché nella società dei consumi e del mercato, in un mondo dove gli oggetti devono essere sostituiti immediatamente, dove la vendita non si può fermare, dove chi non ha non è (come diceva un proverbio calabrese), dove l’economia di mercato si regge sul mito e sulla pratica della crescita, la “tecnica” non ha morale, non ubbidisce alla politica, crea soltanto produttori e consumatori.

La pubblicità (ricorda ancora Galimberti), riprendendo una tradizione sociologica, antropologica, filosofica che è stata liquidata come antimoderna, non crea merci, ma il bisogno di merci, cambia la nostra interiorità, i nostri desideri, il nostro rapporto con il corpo, la salute, i “valori” (come libertà e democrazia, che, però, vengono sacrificate sempre in nome degli affari e del mercato), produce un «mondo da buttare via». E l’umanità che tratta il mondo come qualcosa da buttare via tratta se stessa come una umanità da buttare via (G. Anders).

Pier Paolo Pasolini già nel 1975 aveva parlato della «civiltà del pane» nei mondi tradizionali e agropastorali e non perché avesse nostalgia di un universo di precarietà e di fame, ma perché non sopportava l’ordine esistente, aveva nostalgia del mondo dove nulla andava buttato, ma tutto veniva consumato, perché era sacro, frutto di fatica, di consapevolezza, di sapienza, di senso del limite. Perché, cito a memoria Pasolini, in un mondo in cui ogni bene è superfluo, la vita stessa diventa superflua.

Vi ho affidato, forse, le mie riflessioni senili (anche se ho pensato così già in giovane età), forse non sono stato rispettoso del clima di festa, che richiederebbe allegria, rimozione dei problemi, dimenticanza dei disastri del mondo, ma i miei auguri di Natale non sarebbero sentiti e veri se non dicessi che, anche da lontano, dal tempo passato, mi arrivano flebili e irresistibili voci di chi pensava che “l’assai è come il niente” e che, nella notte di Natale, uomini, donne, bambini, animali, cibo, defunti, acque, piante, boschi facevano parte dello stesso pianeta, che appartiene a tutti e non al Sapiens, che trasforma in merci e in consumo anche i legami, gli affetti, i sentimenti, gli auguri, la vita.

Non tornerà più quel mondo e le magnifiche sorti che sembrano condurci alla Fine sembrano inarrestabili, ma noi, anche nel nostro piccolo, abbiamo il bisogno di cercare altri cammini, altri percorsi.

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lunedì 25 dicembre 2023

Questione AIFA - Claudia Cipriani

 


Ci sono notizie che fanno fatica a venire a galla ma piano piano, perseverando, anche le storie più scomode trovano il loro spazio per essere raccontate e diffuse. Come quella di un gruppo di 202 medici e sanitari temerari che l’estate scorsa ha fatto causa all’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco. Per quale motivo? Per chiedere l’annullamento dell’autorizzazione all’immissione in commercio dei farmaci Cominarty di Pfizer Biontech e Spikevax di Moderna, ossia quelli che comunemente sono stati chiamati vaccini contro il Covid 19. Nella causa si chiedeva anche la revoca di ogni provvedimento connesso a quella commercializzazione e l’obbligo per l’agenzia di concedere ai ricorrenti l’accesso alle documentazioni che avevano richiesto. Le documentazioni in questione erano quelle relative alla dimostrazione che i vaccini anti Covid impedissero la trasmissione del virus e quelle relative alla valutazione rischi/benefici di quei farmaci.

La causa è stata persa, a luglio del 2023, ma dalle motivazioni espresse dai giudici nel rigettare il ricorso si scoprono dettagli importanti e sconcertanti. Si scopre infatti che AIFA non ha prodotto quelle documentazioni perché, come scritto agli atti, “fanno parte del dossier di autorizzazione depositato presso EMA, che AIFA non detiene”. Secondo quanto dichiarato dunque, l’Agenzia del farmaco, senza essere in possesso di quella fondamentale documentazione, ha permesso non solo che venissero somministrate milioni di dosi di vaccini, ma ha reso possibile tutto l’impianto giuridico che ha decretato l’obbligatorietà dei vaccini. In base a quelle norme, migliaia di lavoratori sono stati sospesi dalle loro mansioni e privati dei loro stipendi. Migliaia di cittadini, privi di greenpass, non hanno potuto svolgere attività fondamentali come salire su un treno, far visita ai parenti in ospedali e Rsa, entrare negli esercizi commerciali.

“Se fossimo in un contesto realmente democratico – commenta Jalna Rossi, uno dei medici ricorrenti – con stampa e media davvero liberi, questa sentenza avrebbe dovuto essere portata a conoscenza di tutti già dal giorno successivo alla sua pronuncia, mentre nella realtà in pochissime persone ne sono al corrente”.

Oltre a dichiarare di non essere in possesso della documentazione che dimostri la validità dei vaccini, Aifa non deterrebbe nemmeno quella che valuta rischi/benefici connessi a quei farmaci. Ciò appare ancor più sconcertante se si pensa a tutta la letteratura scientifica, prodotta negli ultimi mesi, che confermerebbe diverse reazioni gravi che questi farmaci hanno avuto come conseguenza. Così commenta la dottoressa Rossi: “AIFA, così come tutte le altre Istituzioni sanitarie in questo Paese (ISS, Ministero della Salute, CTS, Istituti Zooprofilattici, ATS, Ordini dei Sanitari, salvo rare eccezioni) hanno dimostrato una totale impermeabilità nei confronti di chi chiedeva un confronto scientifico basato sull’evidenza in merito ad efficacia e sicurezza di questi farmaci ad oggi ancora sperimentali; basti pensare al caso scandaloso dell’annullamento del congresso POLICOVID-22 di fine novembre 2022, a cui il Politecnico di Torino ha revocato il patrocinio a soli 3 giorni dall’evento, dopo che all’ultimo momento e senza alcuna spiegazione plausibile gli esponenti dell’ISS e del CTS (AIFA non aveva neppure risposto all’invito) si sono defilati. Un momento veramente basso per il mondo scientifico in questo Paese. Personalmente mi scandalizza, ma non mi stupisce, che AIFA ci abbia mandati allo sbaraglio e adesso neghi l’evidenza dei fatti, quando anche le stesse case farmaceutiche coinvolte hanno dovuto ammettere l’esistenza di alcuni effetti collaterali legati all’inoculazione indiscriminata del farmaco. Ma si sa, ammettere l’evidenza significherebbe al contempo aprire una crepa nella narrazione univoca e dominante, che proprio per questo non può essere smentita e va difesa a spada tratta, costi quel che costi”.

Gli organi e le istituzioni preposte alla tutela della salute pubblica, in primis il Ministero della Sanità, hanno mostrato in più occasioni di non voler rendere note informazioni essenziali. Il funzionamento stesso dei vaccini anti-covid è stato coperto non solo da segreto industriale, ma anche militare. Sul perché siano state fatte tacere le opinioni di chi mostrava perplessità sull’operato di governo e istituzioni dà una risposta sintetica e significativa un’altra delle ricorrenti, Laura Abrigo: “Ritengo che il non aver permesso una discussione tra medici e ricercatori italiani di opposte vedute sia alla base di un atto ingiusto, e soprattutto fa pensare a spinte molto importanti impartite dalle case farmaceutiche. Basti pensare che i finanziamenti all’EMA derivano per oltre l’80% dalle case farmaceutiche stesse, quando non dovrebbe minimamente essere permessa tale invadenza. Per chi vuole assumere un “atteggiamento super partes” è chiara la fraudolenza. Interessi economici stanno alla base di questo disastro del Ministero della Salute che non ha tutelato i cittadini, portando avanti una scelta terapeutica di “tachipirina e vigile attesa” priva di base scientifica e senza utilità, dato che i medici dovrebbero curare, e la farmacologia ad oggi in uso è ricca di possibilità.” 

Il ricorso portato avanti da questo gruppo di sanitari è stato rigettato, ma non è svanita in loro la speranza di perseverare in una direzione che possa ristabilire quei valori di trasparenza che la scienza medica dovrebbe avere come obiettivo. “Ciò che ci ha spinto a portare avanti questa battaglia  – dichiara la dottoressa Cesaretti –  è stato in primis la voglia di verità e chiarezza che ricerchiamo ormai da anni. Inoltre era un’azione che ancora non era stata intrapresa da nessun avvocato, con una richiesta più che lecita da parte di alcuni cittadini italiani di ottenere i dati pre-clinici che, di legge, dovrebbero essere in possesso dell’Agenzia prima di immettere in commercio qualsiasi farmaco o vaccino. Noi sanitari siamo stati sospesi ma fin da subito, sul foglio illustrativo presente sul sito ufficiale di Aifa, era riportato nero su bianco che il vaccino anti Covid 19 poteva forse prevenire la forma grave della malattia, ma non la trasmissione del virus. Io sono una fisioterapista e posso assicurare che i danni da vaccino li vedo tutti i giorni: ragazzi giovani con ischemie cerebrali, con diagnosi di sclerosi multipla, vedo l’aumento di gravi dolori all’apparato muscolo-scheletrico, e tumori che si risvegliano dopo anni. La maggior parte dei miei pazienti mi dice che le problematiche sono iniziate subito dopo le somministrazioni vaccinali. Il fatto è che hanno obbligato la popolazione all’uso di questi farmaci attraverso il ricatto del lavoro e della libertà individuale. Le persone purtroppo tendono a dimenticare, io invece non dimentico e come me, anche altri, come i colleghi e le colleghe con cui ho portato avanti questa causa”.

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domenica 24 dicembre 2023

Lo zampino peloso dei servizi segreti militari sui Pfas

 

Degli speciali delle Iene, gli ultimi  riferiti al Piemonte clicca qui e clicca qui , (quello di Piazza pulita-La7 sembra fermato ai blocchi di partenza), si stanno occupando le lobby industriali-militari, certamente non per le possibili limitazioni nei settori applicativi dei beni di consumo (rivestimenti delle padelle, impermeabilizzanti per i tessuti, giubbotti antipioggia e così via), bensì per le implicazioni della grandissima industria aeronautica, navale, spaziale, costruzioni, semiconduttori e soprattutto quella militare: strettamente interconnessa con i PFAS impiegati a profusione. Questo è il vero nocciolo della questione  e spiega anche la recente scissione della Solvay.

Il peso dei Pfas nel complesso militare industriale ha  rilevanza cruciale nell’industria nucleare e in quella nucleare bellica, nel processo di fabbricazione dei semiconduttori in ambito elettronico, cruciali in Occidente nella competizione tecnologica con la Cina, in ambito sia civile sia militare. Ci ricordiamo che la prima  applicazione dei Pfas avvenne nella costruzione della bomba di Hiroshima.

Le lobby industrialmilitari, esempio Solvay per intenderci,  sono entrate in fibrillazione quando  la pressione del fronte ecologista, superando gli Enti amministrativi intermedi (sindaci e governatori) facilmente sotto controllo, ha preteso di premere sui Parlamenti per leggi di messa la bando dei Pfas, ad esempio il disegno di legge ex Crucioli. Per contro, a livello governativo le lobby hanno intessuto una ferrea ragnatela di tavoli di approfondimento, rimandi a commissioni, rinvii dai  livelli decisionali a quelli europei (a loro volta zavorrati), cadute di esecutivi. Ed è qui che industria, ambienti governativi, ambienti militari, intelligence, si sono fatti sotto e hanno ottenuto la solita “provvisoria” dilazione all’italiana.

Un provvisorio che dura da decenni, quando la produzione dei Pfas in Italia, dopo il fallimento della Miteni,  è stata affidata alla Solvay di Spinetta Marengo in provincia di Alessandria. Qui la Solvay, nonostante sia investita da polemiche a più non posso, ottiene le autorizzazioni (filiando il C6O4 dal padre Pfoa ad es.) mentre mai da parte della magistratura è arrivato un arresto cautelare o un draconiano provvedimento di sequestro, malgrado i solleciti; mentre i reati patrimoniali e ambientali gravissimi sono imputati a livelli manageriali di basso livello e puniti con condanne irrisorie, senza risarcimenti alle Vittime.

Con riferimento proprio al Piemonte: «È come se una matrice occulta generasse la solita sceneggiatura. Il meccanismo è stato bene illustrato in un recente servizio delle Iene peraltro. A Roma girano voci che la magistratura, di Torino nello specifico, abbia aperto un fascicolo esplorativo che non riguarda notizie di reato o un fascicolo contro ignoti. Il focus riguarderebbe l’operato di alcuni assessorati. La produzione di Pfas da sempre gode di guarentigie speciali che direttamente o meno sono richiamate anche in alcuni documenti coperti dal segreto militare. Soggetti di alto livello in seno ai ministeri, al governo, alle gerarchie militari, all’Arma dei carabinieri, alla magistratura, per non parlare delle Camere fino a giungere al Copasir, sono a conoscenza di questa realtà. In qualche modo tutto ciò fa parte del gioco ». «La produzione dei Pfas è coperta dal segreto militare».

A parlare in questi termini, in esclusiva, ai taccuini di Marco Milioni di “Vicenzatoday.it”, è un funzionario del Ministero dell’Ambiente che considerando la delicatezza del tema chiede «il più totale anonimato». Omnia silendo ut audeam nosco: tacendo per ascoltare conosco ogni cosa. 

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sabato 23 dicembre 2023

Chi è il vero pericolo - Grig


Oreste era un Cane lupo cecoslovacco che viveva felice insieme alla famiglia dell’arredatrice Silvia Bigliotto a Palaia, vicino Pisa.

Conosciuto e benvoluto nel paese per il suo carattere docile e giocherellone.

Sabato 16 dicembre 2023, sulle colline dietro casa, è stato ucciso da un cacciatore che l’aveva scambiato per un Lupo (Canis lupus), specie comunque particolarmente protetta.

Intervenuti i Carabinieri Forestale, denunciato e querelato il cacciatore.

Si spera che gli venga immediatamente revocato il porto d’armi e sia condannato duramente, anche al risarcimento dei danni.

Una domanda è d’obbligo, chi rappresenta un vero pericolo?

E vogliamo che un vero pericolo giri armato?

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

 

da La Nazione17 dicembre 2023

Cacciatore scambia un cane per un lupo. E lo uccide davanti ai padroni.

L’animale, un esemplare di lupo cecoslovacco conosciuto da tutti e particolarmente socievole, è stato freddato con un colpo di fucile.

Palaia (Pisa), 17 dicembre 2023 – Ad un occhio particolarmente inesperto poteva sembrare un vero lupo selvatico, ma era solo un bellissimo esemplare di lupo cecoslovacco molto conosciuto in paese e particolarmente socievole. Si chiamava Oreste ed è stato ucciso con un colpo di fucile da un cacciatore nei dintorni di Palaia. L’uomo, che in quel momento si trovava insieme ai suoi cani, lo aveva scambiato per un predatore.

Il colpo, sparato da distanza ravvicinata, non ha lasciato scampo al povero Oreste. L’animale, di proprietà di una nota arredatrice, Silvia Bigliotto, stava girando all’interno di un’oliveta non lontano dalla casa in cui vive. La famiglia è anche proprietaria di un ristorante a Pontedera. La donna, appresa la notizia, avrebbe avuto anche un lieve malore.

Il cacciatore si sarebbe difeso dicendo di non averlo fatto di proposito, ma di aver scambiato Oreste per un lupo intenzionato ad attaccare i suoi due cani. Ma sostenere di aver agito per difendersi potrebbe non bastargli. La famiglia del lupo cecoslovacco ha sporto denuncia, anche perché non ci sono prove che Oreste abbia attaccato gli animali del cacciatore. Anzi: tutti lo descrivono come un cane molto docile e affabile, tant’è che pochi giorni prima era anche stato fotografato alla Bocconi in occasione della laurea di uno dei figli della proprietaria.

https://gruppodinterventogiuridicoweb.com/2023/12/22/chi-e-il-vero-pericolo/

venerdì 22 dicembre 2023

Musei, una questione privata - Lorenzo Bagnoli, Lorenzo Buonarosa

 

Da anni gli ingressi sono gestiti da società private. Le rivendite non autorizzate e la gestione delle concessioni spingono per soluzioni diverse. Il Pnrr ha messo sul piatto milioni per una nuova piattaforma. I dubbi però restano su cosa potrà davvero migliorare

A Roma, ogni mattina, in qualsiasi stagione, centinaia di turisti fanno la fila per comprare un biglietto per il Parco Archeologico del Colosseo. Il rituale, dopo la parentesi della pandemia, ha ripreso a maggio 2023, quando ha riaperto anche la biglietteria fisica. Trovare un titolo d’ingresso è quasi impossibile: anche le prevendite online si esauriscono già un mese prima della data prevista per la visita. A comprare gran parte dei tagliandi sono speculatori che li rivendono a prezzi maggiorati. Ci sono i classici bagarini, ma persino piattaforme online che sparano prezzi alle stelle almeno da novembre 2022, aggiungendo al singolo biglietto altri servizi “imposti”: dall’audioguida al “saltafila”, dal prelievo in albergo fino al giro turistico della città. La discrepanza dai prezzi nominali è enorme: dai 16 euro più due di prevendita, previsti per l’ingresso, si passa ai 68 euro per una visita guidata esposti da una delle piattaforme il 28 aprile 2023.

Dalla metà del 2022 in alcuni siti archeologici, Colosseo compreso, sono stati introdotti dei biglietti nominali, ma per ora la soluzione non è sufficiente, secondo quanto denuncia l’Associazione guide turistiche abilitate (Agta): «I biglietti nominativi da soli non potranno risolvere la situazione, perché il problema vero è che la domanda supera l’offerta», scrive l’associazione in una nota del 18 ottobre.

Con l’arrivo dei 4,28 miliardi destinati alla cultura all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), i governi prima Draghi e poi Meloni vorrebbero mettere un freno a ogni forma di bagarinaggio attraverso 32 milioni di euro previsti per la digitalizzazione della cultura da investire in un progetto che comprende una piattaforma per semplificare l’acquisto e la prenotazione dei biglietti per i visitatori. Il problema però è che oltre agli abusivi c’è un sistema di gestione delle attività museali, che ormai da trent’anni ha costituito un oligopolio.

Con la legge del 1993 firmata da Alberto Ronchey, all’epoca ministro della Cultura, sono stati infatti affidati a enti gestori privati i servizi aggiuntivi dei musei, inclusa la vendita dei biglietti. Società che adesso difficilmente si faranno da parte. Di questo gruppo di società si parla già in una relazione del 2005 della Corte dei Conti, relativa alla «gestione sui servizi d’assistenza culturale e d’ospitalità per il pubblico negli istituti e luoghi di cultura dello Stato»: «Solo otto società concessionarie gestiscono oltre il 90% dei servizi nei musei, delle quali una soltanto è presente in ben 24, con ricavi che si avvicinano al 24% degli introiti totali», si legge nella relazione.

LE SOCIETÀ CHE GESTISCONO I MUSEI ITALIANI

Nel 2013 e nel 2014 la Corte dei Conti si è espressa per segnalare proprio l’aumento del costo dei biglietti del Colosseo, con la ripartizione degli introiti tra pubblico e privato completamente sbilanciata verso quest’ultimo: 30,2% al primo e 69,8% al secondo. Nel 2014 la Corte ha segnalato le irregolarità di ripartizioni in alcune mostre organizzate alla Galleria D’arte Moderna di Roma e a Villa Adriana. I magistrati contabili hanno sottolineato che «non sono rispettati i tetti percentuali di ripartizione tra amministrazione e società concessionarie dei servizi di biglietteria delle entrate rivenienti dalla vendita dei biglietti»…

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giovedì 21 dicembre 2023

Il Congresso brasiliano rigetta il veto di Lula sul PL2903: la reazione di Survival

 

Il Congresso brasiliano ha approvato una nuova legge contenente una serie di misure anti-indigene estreme, annullando gran parte dei veti che il Presidente Lula aveva posto sugli elementi più gravi.

Queste misure, che ora diventano legge, costituiscono “l’attacco più grave e feroce ai diritti indigeni degli ultimi decenni” secondo Survival International.

Il Congresso è dominato dalla lobby mineraria e dell’agrobusiness e da ricchi proprietari terrieri alleati dell’ex Presidente Bolsonaro, nonostante questo sia stato sconfitto dal Presidente Lula alle ultime elezioni di un anno fa.

Con la nuova legge, trafficanti di legname, allevatori e altri che hanno invaso illegalmente i territori indigeni potranno restare a distruggere le foreste fino a quando quelle terre non saranno ufficialmente demarcate – un processo che normalmente richiede decenni.

Molti popoli indigeni potrebbero non poter fare mai più ritorno alla loro terra perché la legge riconosce anche il Marco Temporal (limite temporale), nonostante la Corte Suprema del paese lo abbia respinto solo pochi mesi fa giudicandolo anticostituzionale. Il Marco Temporal è uno stratagemma pro-business che afferma che i popoli indigeni che non possono provare che nell’ottobre 1988 (quando fu promulgata la Costituzione brasiliana) abitavano nelle loro terre non vedranno più riconosciuti i loro diritti su di esse.

L’Associazione dei popoli indigeni del Brasile, APIB, ha annunciato che farà nuovamente ricorso alla Corte Suprema. 

“Questa legge fa a pezzi molte delle protezioni legali sulle terre indigene garantite dalla Costituzione, e le butta nella spazzatura” ha dichiarato oggi la Direttrice generale di Survival International, Caroline Pearce. “Dà a grandi aziende e bande criminali che stanno dietro la maggior parte della deforestazione e delle attività minerarie in Brasile ancora più libertà di invadere i territori indigeni e di farvi ciò che vogliono. Segna la rovina di gran parte dell’Amazzonia e di tutte le foreste del Brasile.”

“Questa legge è assolutamente disastrosa per le tribù incontattate del Brasile – che, quando le loro terre vengono invase, sono tra i popoli più vulnerabili del pianeta – e per tutti i popoli indigeni del paese. Questi popoli continueranno a resistere con la stessa determinazione che hanno dimostrato durante il regime genocida di Bolsonaro. E i loro alleati in tutto il mondo, come Survival, continueranno a restare con forza al loro fianco. Permettere che tutto questo passi incontrastato annullerebbe decenni di graduali progressi nel riconoscimento dei diritti indigeni.”

https://www.survival.it/notizie/13854

mercoledì 20 dicembre 2023

Il Gruppo d’Intervento Giuridico nell’ultimo anno. E che cosa farà.

il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) … protagonista di durissime battaglie a colpi di codice civile (in gran parte vinte o stravinte) contro tante storture edilizie e leggine criminogene di mezza Italia”.

Così Gian Antonio Stella  (Il Corriere della Sera, «L’ecomostro» davanti a Tavolara per le nozze del principe di Giordania. Tirato su per Hussein di Giordania. I timori dei residenti. «Il giorno dopo deve essere tutto smontato, a costo di andare con la chiave inglese», 23 maggio 2023).

 

Così ne parla Paolo Biondani: “da anni difende il territorio italiano … il Gruppo d’Intervento Giuridico (Grig)” (Chi appicca un incendio in Italia resta impunito, L’Espresso, 7 settembre 2023).

 

E così ci ha delineato Salvatore Settis“Fra coloro che, per scardinare l’ingiustizia e l’assalto ai beni comuni, praticano la tattica puntiforme della protesta o del ricorso in giudizio su questioni singole, secondo il modello degli advocacy groups, l’esempio più interessante in Italia è probabilmente il Grig (Gruppo di intervento giuridico) di Cagliari, attivo dal 1992, che ha svolto più di duemila azioni legali in difesa dell’ambiente in Sardegna, ma è recentemente ‘sbarcato’ in Toscana impegnandosi su azioni concrete (Tav sotto Firenze, tenuta di Rimigliano in Comune di San Vincenzo, inquinamento a Piombino)” (in Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, 2012, pag. 208).

Da più di trent’anni esiste il GrIG: ecco che cosa ha fatto nell’ultimo anno e che cosa farà…

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domenica 17 dicembre 2023

COP 28, finite le comiche

Cop 28, grottesca o tragica? - Guido Viale 

Erano 97.372 – in rappresentanza di 198 nazioni – i “delegati”
ufficialmente registrati per partecipare, a Dubai, alla ventottesima COP
 (Conferenza delle Parti, in attuazione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – UNFCCC – varata a Rio de Janeiro nel 1992): tanti quanti gli abitanti di una media città italiana. E tutti arrivati e ripartiti in aereo (i VIP su aerei privati: fanno bene al clima) e alloggiati e nutriti in alberghi che a Dubai non costano meno di 500 euro a notte: a spese, ovviamente dei rispettivi Stati e aziende di appartenenza. Si tratta di ministri, sottosegretari, diplomatici, funzionari governativi, esperti, tecnici, manager, quadri e consulenti aziendali, giornalisti, spie, amanti, rappresentanti di partiti e di associazioni “embedded” (cioè sostenute da Governi o aziende), lobbisti: 2.500 solo per il settore “oil and gas”, il triplo che all’ultima COP. Visti i costi e le prospettive nulle se non negative dei risultati attesi, molte associazioni non embedded si sono risparmiate il viaggio a Dubai, a differenza di quanto accadeva nelle COP precedenti, dove la loro presenza, per contestare la condotta dei rispettivi governi, era massiccia. A Dubai, d’altronde, le contestazioni non sono gradite.

Si è trattato della ventottesima conferenza convocata per affrontare la crisi climatica. In tutte le ventisette conferenze precedenti, con una mobilitazione di delegati da tutto il mondo di consistenza analoga, questi erano riusciti a discutere del clima per giorni e giorni (in media 10 e più per COP) senza mai nemmeno nominare – era un tabù – i combustibili fossili. Cioè, ciò che fin dagli anni ’50 del secolo scorso – ma anche prima – gli scienziati del clima avevano indicato come principale causa del progressivo riscaldamento del pianeta Terra, avvertendo che proseguire nel loro consumo rappresentava una minaccia mortale per il futuro della vita di tutto il genere umano. Detto in altre parole, tutto quel movimento di uomini, donne, denaro e proclami, per farli incontrare una volta all’anno a discutere di clima, era finalizzato a concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica – e non solo quella occidentale; nei paesi del Sud del mondo, i più colpiti dalla crisi climatica, l’attenzione per il problema è ben maggiore – sul dito (lo spettacolo delle COP) invece che sulla luna (i combustibili fossili). Evitando accuratamente di affrontare l’oggetto di cui avrebbero dovuto occuparsi. Adesso, al ventottesimo giro, i combustibili fossili sono stati finalmente nominati nel comunicato finale detto, non so perché, Stocktake: art. 28 D, “transition away from fossil fuels”, cioè abbandonare (?) i combustibili fossili, senza però indicare le tappe di questo abbandono, ma solo l’obiettivo finale dello zero net emissions al 2050, dove, come vedremo, net significa continuare a usarli se si riesce a compensarne o nasconderne – sottoterra – le emissioni. Tutto qui? Sì; ma la cosa è stata presentata come una svolta “storica”.

Sembra una barzelletta. Ma nella nostra epoca non c’è limite al grottesco. Infatti a ospitare COP 28 è stata designata la città di Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti, uno dei principali produttori e fornitori mondiali di petrolio e gas; e a presiederla è stato nominato il principe Sultan Al Jaber, Ceo, cioè amministratore delegato, della Adnoc, la compagnia di Stato che gestisce le risorse fossili del paese. Come dire portare l’Avis in casa di Dracula. E per non farsi mancare niente, a ospitare la prossima COP (la 29) è già stato indicato l’Azerbaigian, un altro Stato che vive di gas e petrolio. Sono decisioni prese dagli Stati che controllano l’ONU e c’è da chiedersi se in queste scelte abbia prevalso il cinismo o l’insipienza delle loro classi di governo; in ogni caso, ha prevalso la loro miseria. Siamo tutti – noi, la popolazione mondiale – in brutte mani.

E infatti la COP 28 è stata aperta da un intervento di Al Jaber secondo cui la riduzione delle emissioni di gas di serra per contenere la crisi climatica non ha basi scientifiche ed è stata chiusa, prima di approvare per acclamazione lo Stocktake, da una lettera del presidente dell’Opec+ (il cartello dei principali produttori di petrolio del mondo) che  diffidava i convenuti dal metterei in discussione l’utilizzo dei combustibili fossili, posizioni poi solo in parte ammorbidite nello Stocktake. Ma già che erano là a parlare di clima, i grandi produttori e utilizzatori di fossili ne hanno approfittato, a latere della conferenza, per fare accordi e siglare contratti: insomma, a trasformare la COP in una fiera-mercato del fossile.

I risultati si vedono: a fronte del riferimento “storico” ai fossil fuels lo Stocktake ha piantato dei paletti per renderlo del tutto inefficace, promuovendo, accanto all’obiettivo di triplicare le rinnovabili entro il 2030 (ma a molti paesi mancano i mezzi per farlo e la conferenza è stata parecchio attenta a non metterne di sostanziali a disposizione dei paesi più poveri o più colpiti dalla crisi climatica), alcune soluzioni che procrastinano a azzerano l’uscita dai fossili: il gas naturale, rinominato “combustibile di transizione”, con tutto l’apparato di impianti (tubi, metaniere, gassificatori e degassificatori, impianti di termogenerazione, ecc.) che richiedono decenni per essere ammortizzati; il nucleare (solo il ministro italiano Tajani ha avuto il coraggio di nominare la fusione, come se l’avesse già in tasca), in un momento in cui tutti parlano di mini-nucleare (impianti “piccoli” e diffusi, che moltiplicano rischi, costi e militarizzazione del territorio). Ma l’unica impresa (Usa) arrivata a rendere operativa la loro costruzione è appena fallita. Altri impianti sono in costruzione da decenni, mentre quelli esistenti sono sempre più vecchi e insicuri, moltiplicandone rischi e costi. D’altronde tutti ormai sanno che il nucleare costa già ora più del gas e delle rinnovabili; costerà sempre di più e ha, e avrà sempre di più, bisogno di essere sostenuto, anche economicamente, dagli Stati. E, infine il CCS (Cattura e sequestro del carbonio), che consiste nel prelevare la CO2 all’uscita dagli impianti o direttamente in cielo per comprimerla e iniettarla sottoterra o sotto i mari, in giacimenti di petrolio e gas esauriti, da cui poi potrebbe fuoriuscire quando meno te lo aspetti. D’altronde anche questa tecnologia funziona poco, costa carissima: il più grande impianto di CCS del mondo, della Chevron in Australia, è appena fallito anche lui. Ma sono tutte proposte che hanno il solo scopo di rendere meno urgente il passaggio alle rinnovabili, legittimando la prosecuzione del ricorso ai fossili (carbone compreso, il più pestilenziale, ma anche il più utilizzato).

Così, se andiamo a guardare dietro le quinte delle risoluzioni storiche di questa COP, nei programmi di investimento dei principali produttori e utilizzatori di combustibili fossili, scopriamo che, come sostiene lo Stockolm Environment Institute: “I governi hanno ancora in programma di produrre più del doppio della quantità di combustibili fossili nel 2030 rispetto a quello che sarebbe compatibile con la limitazione del riscaldamento climatico a 1,5°C”. Il fatto è, come scrive Mario Tozzi su La Stampa del 13 dicembre, che “nessuno dei potenti del pianeta Terra riesce anche solo a immaginare un mondo senza combustibili fossili e se tu non lo immagini ora, quel mondo non sarà mai possibile”. Dunque, immaginarlo, anche nei suoi risvolti pratici, paese per paese, città per città, strada per strada, per poi imporlo ai nostri governanti, tocca a noi.

da qui



Emiri, nucleare e Istituto Luce - Angelo Tartaglia 

Un osservatore situato in una galassia lontana lontana, ma in grado di assistere in tempo reale alle vicende terrene troverebbe la situazione irresistibilmente comica.

Riassumiamo: la comunità scientifica del nostro pianeta segnala in maniera inequivocabile (nel senso scientifico del termine, con misurazioni effettuate in molti modi diversi da gruppi diversi in luoghi diversi, con raffinatissimi sistemi di calcolo, con stime delle incertezze e così via) che il clima è ormai prossimo a un tracollo, ovvero a un brusco riassestarsi della circolazione atmosferica e marina, nonché del regime e della violenza delle precipitazioni; i prodromi di questo collasso sono peraltro già visibili attraverso il manifestarsi a ritmo accelerato dei cosiddetti “eventi estremi”; danni e sofferenze connessi con questi eventi estremi sono molto ingenti e si scaricano più drammaticamente sulle popolazioni più fragili (la stragrande maggioranza dell’umanità). Tutto questo è direttamente connesso col fatto che l’umanità sta modificando le proprietà fisiche dell’atmosfera con l’immissione a ritmo accelerato dei cosiddetti gas climalteranti, in particolare la CO2, che provengono, in grandissima misura, dall’uso dei combustibili fossili come carbone, petrolio e gas naturale: oggi come oggi essi coprono l’81% del fabbisogno energetico dell’umanità. Dopo decenni da che i primi razionalissimi allarmi sono stati lanciati, i governi – e, più in generale, coloro che hanno potestà di assumere decisioni relative alle politiche energetiche e all’economia della terra intera – hanno cominciato a prendere atto e a riunirsi per concordare il percorso da seguire per riprendere il controllo della situazione e porre fine in primo luogo all’uso di combustibili fossili e poi, comunque, alle devastazioni ambientali che comportano pesanti ricadute sull’umanità come tale e su tutta la biosfera. Sono così nate le Conferenze delle Parti (COP) che anno dopo anno hanno portato alla redazione di importanti dichiarazioni e liste di buoni propositi, cui non sono seguite per lo più azioni concrete, tanto è vero che la quantità di CO2 in atmosfera ha continuato a crescere in maniera accelerata e altrettanto ha fatto il riscaldamento globale.

Bene. Siamo così arrivati alla COP28, ospitata negli Emirati Arabi Uniti, a Dubai, uno fra i paesi col più alto consumo di energia pro capite che deve l’oceano di denaro in cui nuota proprio ai combustibili fossili. A presiedere la conferenza viene chiamato un signore (Sultan Ahmed Al Jaber) che è anche a capo della compagnia petrolifera nazionale di Abu Dabi e che in un’intervista dichiara che non ci sono evidenze scientifiche che il mutamento climatico in atto si fermerebbe abbandonando i combustibili fossili e che facendo a meno del petrolio torneremmo all’epoca delle caverne. Per altro la città di Dubai (come altre tra Arabia Saudita ed Emirati) è uno splendido esempio dell’opposto di quel che bisognerebbe fare per gestire in modo concreto ed equo la situazione: l’esaltazione dello spreco, del lusso e delle differenze è in ogni angolo. Chissà se l’importanza di questa conferenza è confermata dalla straordinaria partecipazione da tutto il mondo. Qualche decina di migliaia di persone (!): tutti competenti ed esperti di questioni climatiche e di economia, naturalmente. Qualche migliaio sono i tipici lobbisti retribuiti dalle grandi imprese dei fossili: chissà cosa saranno lì a difendere? Naturalmente nessuno ha fatto il bilancio del carbonio di questa gigantesca scampagnata planetaria.

Già così il nostro remoto osservatore della galassia menzionata all’inizio avrebbe abbondantemente di che sollazzarsi, ma, per noi che ci siamo dentro, la situazione ha decisamente molto più del tragico che del comico. Tuttavia bisogna riconoscere che già dal secondo giorno la COP28 un risultato lo ha ottenuto: 22 paesi si sono impegnati a triplicare la produzione di energia nucleare entro il 2050, perché questo sarebbe il modo più veloce per liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili. Il nostro osservatore galattico sgrana gli occhi: per realizzare una nuova centrale a partire da oggi ci vogliono, dicono le statistiche ed esempi recenti, una quindicina di anni e un sacco di soldi (da 10 a 15 miliardi di euro o, se preferite, dollari a centrale); moltiplicando per tre la produzione mondiale di energia nucleare si arriverebbe a un 12% dell’attuale consumo dell’umanità. Insomma l’energia nucleare in sé non sarebbe risolutiva; non solo, ma gli ingentissimi investimenti (tutti pubblici) richiesti sarebbero in competizione con lo sviluppo delle cosiddette rinnovabili, che, tra l’altro, se consideriamo il sole, hanno una potenzialità pari ad alcune migliaia di volte il fabbisogno umano. Consideriamo anche che le tecnologie richieste dalle rinnovabili (sole, vento e idroelettricità in primis) sono ben note e in generale l’installazione di impianti di produzione è estremamente più rapida della costruzione delle centrali nucleari; anche il problema dell’accumulo dell’energia per trasferirla dalle fasi di sovrapproduzione a quelle di penuria o assenza di produzione ha svariate soluzioni concrete ed è un tema in rapida e positiva evoluzione tecnologica.

Ovviamente i 22 dell’accordo di Dubai sono tutti paesi che hanno già in casa delle centrali nucleari. Per lo più (sicuramente nel caso della Francia, degli Stati Uniti e del Regno Unito) una buona parte delle loro centrali sono “vecchie” ossia prossime alla data della dismissione (la vita utile di una centrale a fissione è dell’ordine dei 40 anni anche se in qualche caso la si prolunga di un’altra decina d’anni a scapito della sicurezza), con la prospettiva di costi elevatissimi legati allo smantellamento o decommissioning che dir si voglia. Ecco che qui, come accade a un tossicodipendente, questi governanti si danno da fare per illudersi di superare le difficoltà lanciando una nuova dose che gli permetta, secondo loro, di gestire economicamente i costi indotti della vecchia. È ormai risaputo che, dal punto di vista dell’economia tradizionale, il nucleare non è competitivo e nemmeno conveniente: lo si può mantenere in vita solo con grandissime iniezioni di denaro pubblico erogato a debito delle generazioni future (sempre che le future generazioni non vengano prima travolte dall’imminente collasso climatico).

Sul nucleare in sé non starò qui a ripetere cose già scritte in questa o in altra sede (cfr. A. Tartaglia, Spaccare l’atomo in quattro. Contro la favola del nucleare, Edizioni Gruppo Abele, 2022) e su cui c’è ormai una vasta letteratura. Mi limito a ricordare che la fissione nucleare lascia necessariamente in eredità le scorie che comprendono i prodotti della fissione, sono radioattive e costituiscono un problema per migliaia di anni. Nella propaganda lanciata alla grande in tutte le sedi questo aspetto come tutti quelli connessi con la sicurezza, la connessione con le applicazioni militari e le diseconomie viene minimizzato o liquidato con favole prive di consistenza scientifica prospettando meravigliose soluzioni che “è vero che non ci sono ancora ma che di certo arriveranno”. L’offensiva mediatica dei nuclearisti internazionali è realmente a tutto campo con articoli di giornale, interviste, dichiarazioni, “consigli” discretamente forniti a coloro che contano, e chi più ne ha più ne metta. Sono arrivati anche ad arruolare un noto regista come Oliver Stone con il suo Nuclear now, lungo documentario propagandistico che sarebbe interessante comparare a quelli prodotti ai tempi di Stalin per esaltare le conquiste del socialismo reale. Nuclear now, presentato al Turin Film Festival e già rilanciato da circuiti televisivi come La7, illustra le magnifiche sorti e progressive del nucleare, vera energia pulita e unico antidoto agli incombenti mutamenti climatici; naturalmente non viene riportata nessuna analisi, tecnicamente fondata, sui problemi e sulla insostenibilità a breve e lungo termine dell’energia da fissione e si riproducono solo roboanti elogi da Istituto Luce: quanto ai problemi, be’ la radioattività non è poi così pericolosa (?!); le scorie sono poche e sono ben custodite (?!); a Chernobyl non è poi che ci siano stati così tanti morti (sic!), certo di meno di quelli dovuti ai combustibili fossili; in futuro prolifereranno i piccoli reattori da condominio (proprio così!). In complesso poi si adombra elegantemente l’idea che dietro l’opposizione popolare alle centrali ci siano i grandi operatori del fossile.

In realtà è facile verificare che le lobby internazionali del nucleare includono proprio i potentati del fossile: tra i 22 paesi dell’accordo intercorso alla COP28 ci sono anche gli Emirati Arabi Uniti (quelli del già citato Sultan Ahmed Al Jaber); tra i fautori a spada tratta del nucleare, qui da noi, c’è ENI, che intanto trivella mezzo mondo per ricavare sempre più petrolio e gas da vendere (e da bruciare). La logica è abbastanza semplice: l’economia globale non si tocca, la crescita materiale è ineludibile e sacrosanta, per l’intanto si va avanti a bruciare più fossili possibile facendo affari alla grande; siccome però si sa che le fonti fossili, continuando al ritmo di sfruttamento attuale, avranno i giorni contati (la durata delle riserve economicamente sfruttabili è stimata essere di qualche decennio) ci si muove per promuovere a larga scala una fonte che possa permettere di continuare in primis a fare affari con l’energia e le opere correlate (sia pure a carico delle finanze degli Stati) e poi di alimentare uno stile di vita fisicamente insostenibile che però assicura condizioni di assoluto privilegio a chi controlla flussi e investimenti. Ciò che dà estremamente fastidio, per lo meno a me, è utilizzare come ostaggi per le argomentazioni pro nucleare i poveri di questo mondo: “non vorremo mica impedir loro di diventare come noi”. Eppure le statistiche (e la fisica) dicono che l’economia della crescita competitiva, del consumismo irrazionale, dell’usa e getta fanno dovunque crescere le disuguaglianze. Se si vuole recuperare l’equilibrio occorre porre mano al paradigma economico dominante: questo però in primo luogo mette in discussione la posizione di coloro che hanno i massimi vantaggi diretti e immediati e questi, che dispongono di enormi risorse monetarie, investono alla grande nella disinformazione di massa e nelle azioni di lobbying nei confronti dei decisori istituzionali a vario titolo piuttosto sensibili anch’essi al qui e ora (domani si vedrà…). La società ideale prospettata da Mr. Stone è quella americana (senza far caso al fatto che tocca rilevanti record di iniquità interna e di sistematico spreco di risorse) intesa come modello universale per altro ineludibile e necessario.

Fra l’altro il nucleare (pulito, s’intende) che dovrebbe alimentare quel modello, ahimè, avrebbe a sua volta una durata misurabile in decenni, più o meno come il petrolio, ma, decennio dopo decennio, con un po’ di gas-petrolio-carbone e di pulitissimo nucleare un po’ avanti si va. Finito questo tempo senza cambiar nulla, be’, qualcos’altro si troverà (la “scienza” magica farà qualche miracolo) e si potrà continuare imperterriti sulla strada del “sempre di più soprattutto per me”. Insomma: cambiare tutto perché nulla cambi.

C’è da dire che questa offensiva generalizzata, a tutto campo, per la promozione e il rilancio del nucleare ha anche un po’ una connotazione vagamente isterica. Sembra che chi è ai vertici del vero potere, quello del denaro, cominci a sentirsi un po’ inquieto di fronte alle minacce di tracollo climatico e a una sia pur lenta e a volte non del tutto razionale presa di coscienza della natura del problema dell’insostenibilità del nostro paradigma sociale ed economico globalizzato. Nell’aria si annusa l’odore di cambiamenti necessari che, fuori dagli aspetti tecnologici, rischiano di risultare ineludibili. Se la transizione di cui tanto si parla viene gestita con saggezza l’intera umanità ne trae vantaggio, ma se la logica del “qui e ora” e del “prima io” prevale, allora ci si può aspettare che, in parallelo e ancor prima del tracollo climatico, si arrivi a forme di collasso politico sociale oltreché materiale (tradotto: conflitti e guerre più o meno devastanti) che possono trasformare l’evoluzione in una catastrofe.

Ormai la COP28 è divenuta un’enorme tragedia buffa che funge o vorrebbe fungere da oppio dei popoli ed è del tutto in mano a chi, avendo moltissimo, non intende rinunciare a nulla e anzi vorrebbe avere sempre di più. E poi, come diceva Luigi XV di Francia: “après moi le déluge” o meglio “dopo di me il collasso climatico”. Una progressiva presa di coscienza potrà aiutarci ad evitare i guai peggiori e a mitigare l’impatto di quelli che sono ormai ineludibili o già in corso.

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Emergenza climatica: banchieri contromano - Guglielmo Ragozzino

La Cop 28 di Dubai, a cominciare dal principe Al Jaber che la presiede, è la conferenza del fossile più che del clima. Un rapporto di 504 associazioni ambientaliste di 54 paesi denuncia la rete di banche che regge l’architettura del sistema carbonio.

L’”Arabia esaudita” è il titolo scelto da il manifesto mercoledì 29 novembre per spiegare l’esito della gara tra Riad, Busan e Roma per la conquista della sede dell’esposizione universale del 2030. Le cifre sono deludenti per gli appassionati di “Forza Roma, Forza Lupi” e quel che segue; Riad (capitale dell’Arabia) vince con 119 voti su 182 paesi votanti, la coreana Busan ne riceve 29 e, ultima, Roma solo 17 voti; neppure gli amici fidati l’hanno sostenuta. Da notare ancora l’intelligente articolo di Alberto Negri: Smacco Italia La trappola dell’“amico” bin-Salman e la segnalazione che ne fa, brillantemente, Beda Romano responsabile per la settimana di Prima pagina, la rubrica giornalistica delle 7,15 di ogni mattina – da tempo immemorabile – di Rai radio tre.

1.Il voto per la capitale saudita (e il consenso generale che esprime) è la prova, per quasi tutti, di un vero e proprio ridisegno della carta mondiale delle rotte e dei traffici (e delle alleanze). Sparisce – al primo livello di riflessione – il fascino del famoso Bel Paese, con tanto di ineguagliabili bellezze rinascimentali, da mettere alla base dell’Esposizione universale, al punto che, sembra acclarato, perfino l’amica Albania abbia scelto diversamente. Se però il destino di Roma, negli spazi mondiali, è poco significativo, o per così dire secondario, molto più importante è un altro segnale che il gran voto per Riad lascia intendere: quali conseguenze ci saranno per il clima per il tanto temuto e tanto combattuto – anche se per lo più a parole – aumento di temperatura di un grado e mezzo, o due e più gradi centigradi, rispetto al passato preindustriale? I famosi giuramenti del Cop 21 di Parigi del 2015 sono ancora coerenti? E l’avvento di nuove energie, considerate poco o punto inquinanti, è ancora attendibile?

2.Si è aperta in effetti il giorno seguente, il 30 novembre, in un’altra città mediorientale, anzi degli Emirati Arabi Uniti, Dubai, la riunione, decisiva, del Cop 28. Durerà fino al 12 dicembre. I giornali notano che il principotto locale, Sultan Al Jaber, presidente e ospite di Cop28, è capo in testa, o Ceo sia dell’azienda statale del petrolio sia di quella statale per le rinnovabili. Per dirla tutta, in una sua intervista a Luigi Ippolito, corrispondente da Londra del Corriere della Sera, (29 /11) risulta che ci tenga a farsi chiamare dottor Sultan e che l’implacabile Greta Thunberg abbia detto, con qualche ragione, che “la sua nomina era assolutamente ridicola”. Essendo lui a guidare Cop 28, ciò significa, a prima vista, che in Cop 28 il fossile non verrà condannato, anzi farà buoni nuovi affari, mentre le rinnovabili saranno oggetto di vasti apprezzamenti: magnifici progetti, per il duemilaottanta; insomma, la guerra per l’ambiente rinnovato e il clima sicuro non è ancora cominciata; semmai sta per fare, nella stagione dicembrina di Dubai, qualche passo indietro. 

3.Per rimanere ancora un attimo – per meglio dire: un barile – su Dubai e gli Emirati, risulta alla stampa specializzata che l’Adnoc, (Abu Dhabi National Oil Company) società del governo di laggiù, ha 55 mila dipendenti con entrate di 60 miliardi di dollari. Abu Dhabi è la capitale degli Emirati. Il dottor Sultan obietta di essere anche il capo di Masdar, impresa specializzata in energia rinnovabile. Di quest’ultima società non sono noti i numeri ufficiali, ma nella stessa stampa competente, prima chiamata in causa, circola la cifra di entrate pari a 172 milioni di dollari con 650 lavoratori. Come è facile capire, nella penisola arabica c’è di meglio, qualora ci sia voglia di puntare sul sicuro, e ci sia denaro per farlo. Al primo posto c’è Saudi Aramco, grande impresa del governo saudita, che con 161 miliardi di introiti nel 2022 per 11,5 mbg, (milioni di barili al giorno) estratti, lavorati, venduti, ha sbaragliato tutti: esperti, lobbisti, ricercatori, sultani secondari, petrolieri dei tempi di Rockefeller. Non però i banchieri. 

INTERMEZZO

Ma prima di toccare il tasto, quello finale di questo breve excursus sul fossile e il nostro futuro altrettanto sicuro altrettanto oscuro, aggiungiamo – gratis – un’informazione sulle 7 sorelle. Erano, quando sono state inventate, quelle che seguono:

·         Anglo-Iranian Oil Company

·         Royal Dutch Shell

·         Standard Oil Company of California

·         Gulf Oil

·         Texaco

·         Standard Oil Company of New Jersey

·         Standard Oil Company of New York.

Tra alti e bassi, finanziari o politici di varia natura, guerre e rivoluzioni, solo Shell, ha mantenuto il nome, una parte almeno; le altre sorelle si sono fuse tra loro o sono state afferrate da poteri più forti. Le Standard Oil, erano tutte di Rockefeller. Le ultime due dell’elenco, riunite, hanno dato luogo a Exxon e poi a Exxon Mobil; l’Anglo Iranian è divenuta Bp. Standard California è all’origine di Chevron; e così via. Aramco, per esempio, significa Arabian American Oil Company, essendo il risultato della nazionalizzazione della compagnia che oggi è di proprietà dei reali sauditi. Mattei non ha forse inventato l’espressione Sette Sorelle, l’ha utilizzata in tono non reverente, ma, per così dire, realistico per spiegare che nel campo dei petroli c’erano odiose streghe, tutte sorelle, e tutte in perenne lite tra loro, come nelle fiabe; ma che in verità ciascuna di esse operava anche al di fuori dal mondo fiabesco. Oltretutto esse erano tutte d’accordo contro di lui, convinto com’era che il mondo fosse diverso da una fiaba per bambini piccoli. Così esse lo odiavano perché bambino credulone non era più, anzi non lo era mai stato; e voleva fare da sé e diventare grande altrimenti; per esempio comprando, senza il loro permesso, petrolio dall’allora Urss.

Quando la storia/finisce in gloria

4.Beati i tempi delle sette sorelle! Oggi le streghe sono molte di più. Se si guarda soltanto alle dieci compagnie che hanno ricevuto più finanziamenti dalle banche, ben cinque sono estranee al mondo dell’energia, almeno a quello generalmente noto nel secolo scorso. Queste dieci compagnie energetiche indipendenti hanno ottenuto ciascuna finanziamenti tra 91 miliardi di dollari e 61miliardi. (Attenzione! Qui si tratta di miliardi, indicati con la B di billion. T che significa Trillion è il nostro bilione, cioè mille miliardi di quel che sia, di dollari, per esempio) Si noti che gli anni considerati dagli interventi bancari a favore dei “fossili” sono 2016-2021, sei anni in tutto. Il conto è di 4.586 T (quanto a dire quattromila miliardi più gli spiccioli di 586 miliardi di dollari). Le banche, perché è di esse che si tratta, hanno conferito al sistema “fossile” 723 miliardi nel 2016, l’anno successivo al Cop 21 di Parigi; e poi, via via, 738 miliardi nel 2017, 799 nel 2018, 830 nel 2019, 750 nel 2020, 742 nel 2021.  Ecco l’elenco dei dieci maggiori clienti “fossili delle 80 maggiori banche del mondo: 

Enbridge,98 B; Exxon, 87 B; Aramco, 78 B; TC Energy, 77 B; Occidental Petroleum, 66 B; Shell,66 B; China National Petroleum Corp., 64 B; Shanxi, 61 B; Sempra Energy,61 B. 

Enbridge è un’impresa canadese per origine e attività di distribuzione; TC Energy più o meno lo stesso; Occidental Petroleum è una società indipendente, assai forte in California e Texas. Questa impresa ha avuto un breve storia con l’Eni, unendo per qualche mese nel 1982, le attività chimiche e formando Enoxi, per separarsi subito dopo; China e Shanxi sono imprese cinesi; Sempra è una società statunitense emergente; essa ha però abbandonato una parte del suo nome, Energy, dichiarando così pubblicamente che di energie soprattutto nuove non sa che farsene e tenderà a non venderne più. Le “nuove” sono tutte imprese con migliaia di addetti e progetti potenti; rimane probabile la scarsa disponibilità, come nel caso di Sempra, a sostenere l’energia rinnovabile, in qualunque forma rappresentata. 

5.Per entrare nel dettaglio (viene da ridere, se non da piangere, a parlare di “dettaglio”) Exxon è finanziata per 15 miliardi di dollari da ciascuna di tre banche Usa: Bank of America, Morgan Chase e Citi: in tutto 45 miliardi di dollari circa. Il resto è un affare delle altre 77 banche della comitiva. 

6.La questione è però assai seria. Il caso di Exxon e delle banche degli Usa è solo un esempio, notevole fin che si vuole, di una associazione di affari tra le imprese mondiali che agiscono nel “sistema carbonio” – che in altre parole creano anidride carbonica producendo carbone, petrolio, gas – e le maggiori banche mondiali. La ricerca che stiamo saccheggiando è il risultato di un’altra associazione, contraria alla prima, cresciuta tra 504 organizzazioni ambientaliste di 54 diversi paesi. Sono decine di attività ambientaliste, che vanno da Extinction Rebellion San Francisco Bay a Catholic Network Area, da American Jewish World Service a 1000 Grandmother for Future Generations, da 350 Humboldt a Veterans for Climate Justice, da Stamps our Poverty a Greenpeace, da No Fracked Gas in Mass a Stop the Money Pipelin. Quest’ultima organizzazione, quale che sia – non ci è dato di saperlo – rappresenta il pensiero comune delle altre cinquecentotre e delle altre non collegate. Tutte insieme, hanno messo in movimento decine di ricercatori per raccontare al mondo il caos climatico dovuto alle banche. (BankingonClimateChaos.org) Il risultato è uno studio di un’ottantina di pagine, fatto con poche frasi, moltissime tabelle e figure: da leggere, guardare e provare a capire. “La pubblicazione di questo rapporto segna un altro anno in cui molte tra le maggiori banche mondiali non hanno saputo assumere la scelta necessaria di ridurre la propria partecipazione al caos climatico. Il tempo fugge e l’espansione del combustibile fossile deve cessare subito. Ogni dollaro che le banche usano per nuovi progetti di combustibile fossile e le imprese collegate, è incompatibile con la stabilità climatica e l’impegno per emissioni nette pari a zero. Finirla con l’appoggio all’espansione del combustibile fossile è il prossimo urgente passo per annullare il sostegno bancario al combustibile fossile in un termine compatibile con 1,5°”.

7.Il Rapporto esamina le principali banche del globo nel loro rapporto con le imprese che operano nei combustibili fossili. Tutte le specie di fossili, indicate una per una: gli scavi e l’attività che ne deriva. Sono indicate le banche finanziatrici, le imprese che ottengono i fondi, le attività che esse svolgono; il tutto viene spiegato scientificamente, nel senso che non c’è quasi mai un tono di rimprovero. C’è solo una scheda nella quale si coglie un po’ di dissenso se non di disprezzo per banchieri corrivi e per imprese arraffone. Il rapporto tocca infatti il tema delle popolazioni indigene che vengono spogliate dei loro beni e costrette a diventare nemiche di madre natura. Durante Cop26 a Glasgow in Scozia si è parlato lungamente di tutto questo. Con grandissime promesse, ma senza particolari conseguenze. Nel rapporto in esame è scritto che “La resistenza degli indigeni al colonialismo è basato sulla responsabilità della difesa del loro spazio e della loro sovranità e sul fatto che facendo così essi difendono la Terra stessa”.

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