Il 19 ottobre Greenpeace ha lanciato un allarme: la peste suina (PSA) è arrivata negli allevamenti della Pianura Padana e in poche settimane sono stati abbattuti circa 40.000 suini che si aggiungono ai cinghiali morti a causa della stessa malattia in questi mesi! La prima diagnosi della malattia è stata fatta il 7 gennaio 2022 sulla carcassa di un cinghiale, nelle montagne tra Piemonte e Liguria e da allora la diffusione della malattia è sembrata inarrestabile fino ad arrivare negli allevamenti intensivi.
Non possiamo escludere del tutto che
qualche giornale ne abbia dato notizia, ma intanto noi non ne abbiamo trovate
né sulla stampa né nei notiziari televisivi e la cosa è preoccupante perché gli
allevamenti intensivi sono dei veri e propri focolai di virus e serbatoi di
materiale inquinante, oltre ad essere luoghi di tortura per gli animali, e
un’allerta delle istituzioni locali e nazionali – ove mai si occupassero
realmente del “bene comune” salute – dovrebbe essere un obbligo.
Nelle gabbie degli allevamenti non ci
sono solo esemplari in “normali” condizioni fisiche ma anche animali con ferite
ulcerose, sporchi, zoppicanti, morenti; vederli è uno spettacolo rivoltante.
Triturazione di pulcini (si, avete capito bene!), conigli in due, tre per
gabbia e impossibilitati a muoversi, scrofe che partoriscono in gabbie dove non
è possibile nemmeno distendersi. Uno spettacolo che fa ancora più rabbia quando
vediamo la pubblicità nostrana che ci mostra bovini che ascoltano sonate di
Beethoven e muggiscono felici mentre fanno la doccia.
Già noti ed accertati come fonte di
inquinamento dell’aria e del suolo, gli allevamenti intensivi hanno un tasso
standard di mortalità degli animali intorno al 20% (stime OIE) nonostante le
pesanti somministrazioni di antibiotici e le vaccinazioni. Date queste
condizioni, raramente si eseguono accertamenti per verificare le cause di morte
e questo finisce per nascondere l’eventualità di morte per peste suina che,
pertanto, resta latente fino a che non raggiunge una certa dimensione che ne fa
maturare il sospetto ed avviare gli accertamenti.
Le maggiori concentrazioni di
allevamenti intensivi si trovano in Pianura Padana: solo in Piemonte e
Lombardia si allevano più di cinque milioni di suini e
se il virus PSA supera la barriera degli allevamenti, la sua diffusione assume
velocità e dimensioni enormi con una mortalità intorno all’80%. Lo smaltimento
dei cadaveri animali si somma all’alta concentrazione di ammoniaca nell’aria,
all’alta quantità di batteri che aggrediscono le deiezioni degli animali,
all’azoto e fosforo in quantità tali da inquinare pesantemente le falde
acquifere: un bilancio devastante!
Se esaminiamo il modo di produzione
degli allevamenti intensivi, troviamo tutti i canoni di conduzione
dell’industria capitalistica. Mortalità accettata come se si trattasse di uno
scarto di produzione di pezzi difettosi alla lavorazione; economie di scala che
consentono una riduzione dei costi di approvvigionamento dei mangimi;
distribuzione in serie dell’alimentazione; “lavorazione” in serie del materiale
“carne”, dall’uccisione alla prima macellazione come un qualsiasi semilavorato;
personale operaio salariato sottoposto a tempi e ritmi come nell’assemblaggio
di un qualsiasi macchinario dell’industria metalmeccanica. La morte di un
animale, che nell’allevamento domestico viene considerata una sciagura, qui è
accettata come una normale perdita, come uno sfrido di lavorazione, come
rischio d’impresa. Questa non è agricoltura, è capitalismo!
Ed il danno totale alla salute umana non
viene considerato: l’uomo è un semplice consumatore che fa parte del ciclo del profitto.
L’abbassamento del prezzo – dovuto al sistema di produzione -, la comodità e
rapidità della preparazione hanno fatto della carne un cibo fast food ma anche un cibo spazzatura (una delle
denunce più documentate è il libro di Eric Schlosser, Fast Food Nation. Il lato oscuro del cheeseburger, Ed.
Tropea, 2002). Ormoni ed antibiotici somministrati agli animali (ma ormai
estesi a tutti gli altri alimenti) vengono sempre più associati all’obesità,
alle disfunzioni ormonali, ai disturbi cardiocircolatori.
In tutto questo non possiamo non
considerare le idiozie della sovranità alimentare sventolata dal nostro governo
come potente innovazione, come salto delle mentalità. Al livello di stupidità
della propaganda del regime Meloni&parenti si associa il silenzio totale,
la protezione delle italiche maialate – mai termine fu più calzante – che
disinvoltamente ci porteranno nuove epidemie il cui costo ricadrà per intero su
chi non ha le risorse e le condizioni di vita per potersi nutrire nella più
semplice e salutare maniera. Non deve passare in secondo piano – neppure su
questi temi – la lotta contro il governo in carica, il nostro nemico interno.
Né deve passare sotto silenzio l’operato dell’associazione a delinquere che
siede nel Parlamento mandata al governo dall’altra banditesca associazione
confindustriale dei padroni, grandi, medi e piccoli.
Nello stesso tempo questa battaglia deve
essere considerata e condotta all’interno della più generale lotta per
l’ambiente: l’ammoniaca rilasciata dagli allevamenti intensivi si combina
nell’aria con ossidi di zolfo e di azoto e forma il particolato fine, quelle polveri sottili, quello
smog che avvelena i polmoni e si aggiunge a quanto prodotto dal traffico
automobilistico. Chi pensa e agisce, anche con le migliori intenzioni, solo su aspetti particolari della “questione”
ambientale non rende un buon servizio alla causa.
Ogni particolare ci porta costantemente
al carattere generale ed universale del problema. Tornando al consumo di
carne, sappiamo che il record è detenuto da Usa e Australia, ma sappiamo che la
forbice col sud del mondo si va chiudendo. Il rapporto Ocse-Fao del 5 luglio
2021 stimava già allora una crescita del 14% del consumo globale di carne
proprio nei paesi cosiddetti in via di sviluppo. Il caso Cina è emblematico per
essere diventato non solo il primo produttore mondiale di carne suina, ma anche
per un incremento del consumo interno che porta quel paese a coprire un terzo
dell’aumento complessivo di quel 14% di cui si parlava. Molti problemi si
aprono e tutti a scala mondiale: l’incremento dell’erosione degli ecosistemi,
dell’inquinamento climatico ed ambientale, la qualità di vita degli animali, la
qualità del lavoro dei proletari addetti alla macellazione costretti a lavorare
in condizioni brutali, in un’ambiente lurido ed insano, maleodorante, obbligati
a stare per ore con gli stivali e le tute gommate insozzate di sangue tra gli
scarti di macellazione. Altrettanto importante – è arduo fare graduatorie – è
il consumo di suolo e l’abbattimento delle foreste per fare spazio al
“materiale” da nutrizione, ai foraggi. Continuando così, presto non ci sarà più
terra da camminare, aria da respirare, cielo da guardare. Nessuno di noi
disdegna snobisticamente l’azione dei comitati locali, di interventi puntuali, di
proposte particolari. Non mettiamo in campo il solito rimando alla rivoluzione
mondiale caro ai principisti che eludono le necessità della lotta “qui e ora”;
ma pensiamo che non c’è concretezza senza il collegamento stretto di qualsiasi
proposta particolare al carattere generale della contraddizione, al suo carattere sistemico. Non possiamo accettare false
“soluzioni” all’inquinamento dell’aria che contemplino un modo di vivere con
tute, caschi respiratori, e bombole di ossigeno sulle spalle. Il riferimento
non è esagerato perché purtroppo, per esempio, tra gli stessi che ammettono il
riscaldamento globale c’è l’attitudine a pensare che la soluzione consista nel
costruire sistemi di protezione, ombreggiamenti ed espedienti di adattamento.
Mentre tra coloro che ammettono il graduale innalzamento del livello del mare,
c’è un’analoga attitudine a proporre l’arretramento delle costruzioni ed il
loro innalzamento a mo’ di palafitte.
Tutte queste ed analoghe proposte non
solo non denunciano le cause finendo per oscurarle, non
solo rappresentano forme di adattamento al disastro ambientale in corso senza
che si prospetti una rimozione delle cause. Per di più spesso finiscono per dar
credito a “soluzioni” che aggravano nel tempo il problema che vorrebbero
risolvere. L’auto elettrica è un esempio lampante di questo modo di affrontare
l’inquinamento da traffico urbano la cui trattazione richiederebbe molto spazio
e tempo ma che già comincia a farsi spazio in numerosi studi per il suo
bilancio, per la sua “impronta” anti-ecologica: non mancheremo di trattarne.
Per ora concludiamo col richiamo a considerare ogni lotta, ogni iniziativa come
parte di un unico problema e come risultato del modo di produzione
capitalistico. Su questo principio chiamiamo all’innalzamento del livello di
coscienza, all’unità dei movimenti, alla moltiplicazione delle iniziative, alla
loro maggiore radicalità – a cominciare dalla denuncia della diffusione della
peste suina negli allevamenti padani che le istituzioni stanno finora cercando
di insabbiare.
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