Nel 2007 facevo parte del comitato direttivo dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che quell’anno vinse il premio Nobel per la Pace, ex-aequo con Al Gore. Ero ovviamente molto orgoglioso di condividere questo riconoscimento con la comunità scientifica dell’IPCC, ma quando mi si chiedeva perché dare il Nobel per la pace a un gruppo di scienziati del clima, devo ammettere che trovavo difficoltà ad avere una risposta convincente.
Oggi però questa risposta mi è molto più
chiara, perché ho realizzato che i cambiamenti climatici e il degrado
ambientale hanno la stessa matrice culturale della guerra e della povertà,
quella che chiamerei una cultura «predatoria deviata».
Predatoria perché come gli esseri umani
si arrogano il diritto di razziare, sfruttare e uccidere altre comunità di
esseri umani per i propri interessi (e a volte per motivi non ben specificati),
così si arrogano il diritto di depredare e distruggere in maniera
indiscriminata le risorse limitate del pianeta, risorse che peraltro
appartengono anche, se non soprattutto, alle generazioni future.
Cultura deviata perché è vero che
esistono tante specie di animali predatori – il leone, l’aquila, lo squalo – ma
queste predano per necessità e mantengono un equilibrio con l’ambiente che le
circonda, in quanto sanno che alterare questo equilibrio significa minacciare
la loro stessa sopravvivenza.
Invece la specie umana sta minando in
maniera irreparabile il suo equilibrio con il pianeta in cui vive, e questo
inevitabilmente metterà a repentaglio lo sviluppo sostenibile della società
come oggi la conosciamo.
Le grandi crisi del ventunesimo secolo
sono crisi ambientali: inquinamento, perdita di biodiversità, scarsità di
acqua, cibo ed energia, un clima sempre più ostile e distruttivo. Siamo in una
folle corsa verso la «tempesta perfetta» a causa degli interessi spropositati
(«deviati») di una piccola frazione di esseri umani che detiene la maggior
parte delle ricchezze del pianeta, mentre la gran parte della popolazione
mondiale vive ai limiti se non al di sotto della soglia di povertà ed è spesso
costretta a migrare dalle proprie terre per sperare in una vita migliore.
Quali ingredienti migliori per fomentare
le tensioni geopolitiche che in questi anni stanno affliggendo tante parti del
nostro pianeta. Forse l’essere umano è il predatore per eccellenza, ma il
sistema socioeconomico in cui viviamo, ossessionato dalla crescita continua
(concetto che non si trova in natura), che amplifica le disparità sociali,
economiche e di disponibilità delle risorse, sicuramente gioca un ruolo
fondamentale nel rafforzare questa cultura predatoria.
Ma non si può cedere alla rassegnazione,
che è foriera di indifferenza e inazione. Tutto parte dalla consapevolezza che
ogni nostra azione lascia un’impronta, seppur piccola, sul pianeta, e
contribuisce a creare una cultura.
Se agiamo collettivamente e consapevolmente,
possiamo essere noi gli artefici di un futuro migliore che lasceremo in eredità
ai nostri figli.
Oggi la scienza ci fornisce le soluzioni alle emergenze ambientali che
assediano il pianeta, soluzioni tecnologicamente ed economicamente
realizzabili, che coinvolgono le nostre azioni quotidiane come le grandi scelte
della comunità internazionale.
Ma questo non basta, se non è
accompagnato da un cambiamento, lo definirei un progresso, culturale.
Abbandoniamo la cultura predatoria per una cultura dell’empatia, un’empatia per
gli esseri umani come per la natura che ci sostiene, trasmettiamola ai nostri
figli, e avremo eradicato il seme della guerra e della povertà e insieme
raggiunto una nuova armonia con il pianeta.
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