Negli Stati Uniti le grandi case farmaceutiche registrano fatturati enormi grazie al fatto che il paese ha i prezzi dei farmaci più alti del mondo: secondo alcune stime sono circa tre volte più alti che in qualunque altro paese e contribuiscono alla maggior parte delle entrate delle aziende del settore. Eppure, osservano Brad Setser e Michael Weilandt, due economisti del centro studi specializzato in politica estera e affari internazionali Council on foreign relations (Cfr), tutto questo non si traduce in utili che generano tasse per il fisco statunitense.
Le aziende sono in perdita: nel 2023 la
Pfizer ha chiuso il suo bilancio negli Stati Uniti in rosso per 4,4 miliardi di
dollari, la AbbVie per 3,5 miliardi, la Merck per 15,6 miliardi, la Johnson
& Johnson per due miliardi. Tra le grandi case farmaceutiche statunitensi
solo la Eli Lilly ha registrato utili, per quanto relativamente esigui:
novecento milioni di dollari.
Com’è possibile che fatturati enormi
generino perdite? Le aziende ci tengono a precisare che i prezzi alti
permettono di finanziare le loro costose ricerche. Ma Setser e Weilandt spiegano
che, come tutte le multinazionali, anche le case farmaceutiche sfruttano le
norme (e le lacune) dei regimi fiscali per far comparire i loro utili in paesi
dove le tasse sono nettamente più basse o addirittura nulle.
La AbbieVie, per esempio, è riuscita a
concentrare le entrate assicurate dal suo redditizio farmaco Humira nelle
Bermuda, dove non paga l’imposta sugli utili societari. In particolare,
l’azienda fabbrica l’Humira a Puerto Rico, un territorio che appartiene agli
Stati Uniti ma non è inserito nel calcolo della base imponibile per le imposte
dovute a Washington; la sua controllata a Puerto Rico, inoltre, paga generosi
diritti di brevetto alla filiale della AbbieVie alle Bermuda, dove finisce il
99 per cento (dati del 2022) degli utili.
È per questo che nel 2023 i principali
sette gruppi farmaceutici attivi negli Stati Uniti non solo non hanno pagato
imposte, ma addirittura potevano vantare un credito verso il fisco di 250
milioni di dollari. E non si è trattato di un anno particolare, aggiungono i
due economisti: se si confrontano i dati del 2022 o del 2021 non ci sono
differenze significative. Con l’eccezione della Pfizer, che due anni fa non è
riuscita a portare fuori degli Stati Uniti gli enormi incassi generati dal suo
vaccino contro il covid-19, probabilmente perché il suo sviluppo era stato
finanziato anche da fondi pubblici della Casa Bianca.
Il paradosso è che un’azienda come la Novo
Nordisk, diventata ricchissima grazie al farmaco per dimagrire Ozempic, paga
le tasse nel suo paese d’origine, la Danimarca; le aziende farmaceutiche
svizzere le pagano in Svizzera, quelle francesi in Francia. Le statunitensi,
invece, sfruttano un regime fiscale che gli permette di pagarle in Irlanda, in
Belgio, alle Bermuda, a Malta o a Singapore. Il problema ovviamente riguarda le
multinazionali di tutti i settori: la Apple, per esempio, paga più tasse
all’estero (in gran parte in Irlanda) che negli Stati Uniti.
Oggi l’Irlanda è di gran lunga il più
grande paese esportatore di farmaci negli Stati Uniti: nel 2023 ha
registrato in questo ambito una quota di mercato doppia rispetto al Canada,
alla Cina, all’India e al Messico. Le isole Cayman e le Isole Vergini
Britanniche sono le più grandi esportatrici di servizi finanziari verso il
mercato statunitense, mentre le Bermuda primeggiano nel settore assicurativo.
Uno studio del Fondo monetario internazionale uscito nel 2017 ha
dimostrato che gli investimenti stranieri fatti a livello globale dopo la
grande crisi del 2008 non sono crollati in gran parte grazie ai capitali
passati per gli snodi dell’elusione fiscale.
Senza dubbio il caso delle aziende
farmaceutiche è clamoroso e richiederà un intervento del governo statunitense.
Tuttavia, ha scritto Setser in un articolo per la rivista statunitense Foreign Affairs,
ci dice molto anche sullo stato attuale della globalizzazione. Negli ultimi
anni è stata data a più riprese per finita in seguito al successo di leader
politici nazionalisti e protezionisti e ai conflitti commerciali tra le grandi
potenze, in particolare tra gli Stati Uniti e la Cina. In realtà, precisa
Setser, la globalizzazione si sta dimostrando particolarmente resistente:
nonostante dazi, divieti e minacce di conflitto, le merci, i servizi e i
capitali continuano a farsi strada sulle rotte globali.
Alla base però ci sono due fenomeni che da
tempo distorcono profondamente l’economia globalizzata: da un lato c’è la Cina,
che inonda di prodotti il mondo (auto elettriche e altre tecnologie legate alla
transizione energetica) senza incentivare la domanda interna (ne abbiamo
parlato qui); dall’altro c’è
proprio l’elusione fiscale delle multinazionali.
Un’iniziativa lanciata dall’Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nel 2015, l’imposta minima
globale del 15 per cento sugli utili delle multinazionali, si propone di
risolvere il problema, ma per il momento non si può dire che abbia favorito una
brusca frenata dell’elusione. Chi è preoccupato dal rallentamento della
globalizzazione e vorrebbe salvarla dalle guerre commerciali e dai
nazionalismi, conclude Setser, dovrebbe cercare di correggere certe
distorsioni.
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